I racconti inediti Jack Vance L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus». Jack Vance I racconti inediti (1995) INDICE ICABEM LA SELEZIONE IL SIFONE PLAGIANO IL FATO DEL PHALID IL TEMPIO DI HAN IL FIGLIO DELL’ALBERO I SIGNORI DI MAXUS ICABEM Durante un periodo di sette mesi, James Keith aveva subito una serie di sottili e complesse operazioni chirurgiche, e il suo corpo già normalmente efficiente era stato alterato in molti modi: «migliorato», per usare il gergo del Ramo Speciale della CIA. Guardando nello specchio, vide una faccia familiare solo per le fotografie che aveva studiato, scura, ferina, e rigorosa: letteralmente la faccia di un selvaggio. I capelli, che aveva lasciato crescere, erano stati oliati e attorcigliati in una treccia con fili di lamé dorati; i denti erano stati sostituiti con una dentiera di acciaio inossidabile; dalle orecchie pendeva una coppia di amuleti d’avorio. In ognuno dei casi, la funzione estetica era secondaria. I fili di lamé dell’acconciatura erano accumulatori multilaminati, la cui carica era mantenuta per azione termoelettrica. La dentiera codificava, condensava, trasmetteva, riceveva, espandeva e decodificava onde radio di energia quasi troppo bassa per essere intercettata. Gli amuleti apparentemente d’avorio erano unità radar stereofoniche, che non solo potevano guidare Keith nel buio, ma provvedevano anche ad avvertirlo in una frazione di secondo dell’arrivo di un proiettile, una freccia, un randello. Le unghie erano in una lega di rame e argento, connesse internamente agli accumulatori tra i capelli. Un altro circuito serviva da terra, per proteggerlo contro l’elettrocuzione, una delle potenti armi a sua disposizione. Questi erano gli innesti più evidenti; altri più sottili erano stati costruiti sotto la pelle. Mentre se ne stava davanti allo specchio due tecnici taciturni gli avvolgevano uno stretto turbante darshba attorno alla testa, e gli drappeggiavano addosso una veste bianca. Keith non era più in grado di riconoscere se stesso nell’immagine allo specchio. Si girò verso Carl Sebastiani, che era rimasto a osservare dall’altra parte della stanza, un uomo di bassa statura, pallido come una pergamena, con zigomi austeri e un teschio dall’aspetto fragile. Il grado di Sebastiani, Assistente al Vicedirettore, sottovalutava la sua autorità, così come l’aria delicata travisava la durezza interiore. «Tra poco diventerai Tamba Ngasi quasi quanto sei James Keith,» disse Sebastiani. «Possibilmente di più. Nel qual caso la tua utilità avrà fine, e verrai riportato a casa.» Keith non fece commenti. Sollevò le braccia, sentendo la tensione delle nuove connessioni e condutture. Strinse il pugno destro, guardò i tre pungiglioni metallici apparire sopra le nocche. Alzò la mano sinistra, e con il palmo sentì le radiazioni infrarosse emesse dalla faccia di Sebastiani. «Io sono James Keith. Reciterò la parte di Tamba Ngasi, ma non diventerò mai lui.» Sebastiani ridacchiò freddamente. «Un volto è un simbolo quasi irresistibile. In qualsiasi caso avrai poco tempo per l’introspezione… Vieni su nel mio ufficio.» Gli assistenti gli sfilarono la veste bianca; Keith seguì Sebastiani nella sua suite ufficiale, tre stanze calme, fredde ed eleganti quanto lo stesso Sebastiani. Keith sprofondò tra i cuscini di una poltrona, Sebastiani scivolò dietro la sua scrivania, dove premette una fila di bottoni. Su uno schermo apparve una cartina su grande scala dell’Africa. «Sembra che si stia aprendo una nuova fase, e noi intendiamo sfruttarla.» Toccò un altro bottone, e un piccolo rettangolo nella parte inferiore della grande protuberanza mauritana si illuminò di verde. «Questa è Lakhadi. Fejo è quel punto luminoso vicino a Tabacoundi Bay.» Lanciò un’occhiata obliqua a Keith. «Ricordi i tubi di lancio galleggianti degli ICBM?» «Vagamente. Hanno fatto notizia una ventina di anni fa. Ricordo i lanci.» Sebastiani annuì. «Nel 1963. Un prodotto artigianale. Gli ICBM — i Titans — erano già obsoleti, i tubi troppo costosi, la manutenzione un rompicapo. Un mese fa sono andati per eccedenza a una ditta di recupero giapponese, naturalmente escluse le testate. La settimana scorsa il Premier di Lakhadi, Adoui Shgawe, li ha comprati, apparentemente senza il consiglio, il consenso, o l’approvazione né dei Russi né dei Cinesi.» Sebastiani digitò altri quattro numeri; lo schermo tremolò e si offuscò. «Ancora un nuovo processo,» disse Sebastiani criticamente. «Immagini registrate grazie alla sedimentazione di atomi su un cristallo fotosensibile. La cinepresa è camuffata, efficacemente anche se in modo stravagante, da comune mosca domestica.» Un bagliore rosso e oro esplose sullo schermo. «Impurità; i tecnici le chiamano molecole trasgressive.» L’immagine si stabilizzò mostrando una camera del consiglio sormontata da un’alta cupola, splendidamente illuminata dalla luce soffusa del sole. «Il nuovo stile architettonico,» disse Sebastiani con sarcasmo. «Zimbabwe, dottor Caligari, e Bolshoi Ballet in parti uguali.» «Ha un certo fascino selvaggio,» disse Keith. «Fejo è il teatro di tutta l’Africa; nessuna obiezione, basta che si tratti di una dimostrazione spettacolare.» Sebastiani sfiorò un bottone e bloccò la scena nella camera del consiglio. «Shgawe è a capotavola, in verde e oro. Sono certo che lo riconosci.» Keith annuì. Il corpo grande e grosso di Shgawe e la faccia rotonda e muscolosa gli erano diventati familiari quasi quanto i propri. «Alla sua destra c’è Leonida Pashenko, l’ambasciatore russo. Dall’altra parte l’ambasciatore cinese, Hsia Lu-Minh. Gli altri sono assistenti.» Rimise in moto l’immagine. «Non siamo riusciti a registrare il sonoro; il laboratorio per la lettura sulle labbra ci ha dato una traduzione approssimativa… Adesso Shgawe sta annunciando il suo acquisto. È mite e affabile, ma osserva Pashenko e Hsia come un falco. Sono sbigottiti e seccati, forse d’accordo per la prima volta da anni… Pashenko si informa sulla necessità di armi tanto grandiose… Shgawe replica che erano a buon mercato, e contribuiranno sia alla difesa che al prestigio di Lakhadi. Pashenko dice che l’URSS ha assicurato l’indipendenza di Lakhadi, e che preoccupazioni simili sono superflue. Hsia è pensieroso. Pashenko è più instabile. Sottolinea che i Titani sono non soltanto obsoleti e non armati, ma esigono un vasto complesso tecnico di supporto. «Shgawe ride. «Me ne rendo conto e in questa sede richiedo tale aiuto all’URSS. Se l’URSS non sarà disponibile, farò la stessa richiesta alla Democrazia Popolare Cinese. Se di nuovo non avrò successo, mi rivolgerò altrove.» «Pashenko e Hsia si chiudono come morse. Tra di loro non scorre buon sangue; non si fidano uno dell’altro. Pashenko riesce ad annunciare che consulterà il suo governo, e per oggi è tutto.» L’immagine si dissolse. Sebastiani si appoggiò allo schienale della poltrona. «Tra due giorni Tamba Ngasi lascerà la sua circoscrizione elettorale Kotoba sul fiume Dasa, per la riunione del Grande Parlamento a Fejo.» Proiettò sullo schermo una mappa dettagliata, indicò Kotoba e Fejo con un puntino luminoso. «Scenderà il fiume Dasa su una lancia fino a Dasai, e continuerà in treno fino a Fejo. Suggerisco che tu lo intercetti a Dasai. Tamba Ngasi è un Uomo Leopardo, e ha preso parte allo Sterminio Rodesiano. Per conquistare il posto nel Grande Parlamento ha ucciso suo zio, un fratello, quattro cugini. Misure estreme non dovrebbero causarti rimorsi.» Con fare meticoloso Sebastiani coprì lo schermo. «Il programma successivo l’abbiamo già discusso a lungo.» Aprì uno stipo e tirò fuori una malconcia valigia di fibra. «Ecco il tuo equipaggiamento. Sei a conoscenza di tutto ciò che contiene, tranne… queste.» Gli mostrò tre fiale, contenenti rispettivamente delle pastiglie bianche, gialle, e marroni. «Vitamine, secondo l’etichetta.» Considerò Keith con sguardo da gufo. «Le chiamiamo Pillole dell’Impopolarità. Non ingerirle, a meno che tu non voglia essere impopolare.» «Interessante,» disse Keith. «Come funzionano?» «Inducono un odore corporeo di natura estremamente sgradevole. Non tutti reagiscono in modo identico allo stesso odore; è coinvolto un alto grado di formazione sociale, ecco perché i tre colori.» Ridacchiò vedendo l’espressione scettica di Keith. «Non sottovalutare queste pillole. Gli odori creano uno sfondo subconscio alle nostre impressioni; un odore offensivo induce irritazione, avversione, diffidenza; osserva il colore delle pillole: indica i gruppi razziali più fortemente influenzati. Bianco per i Caucasici, giallo per i Cinesi, marrone per i Negri.» «Avrei pensato che la puzza è puzza,» disse Keith. Sebastiani strinse le labbra in un atteggiamento didattico. «Queste naturalmente non sono formule infallibili. I Cinesi del nord e i Cinesi del sud reagiscono in modo diverso, e così i Lapponi, i Francesi, i Russi e i Marocchini. I Negri americani sono culturalmente Caucasici. Ma non serve che dica altro; sono certo che il funzionamento delle pillole ti è chiaro. Una dose dura due o tre giorni, e la persona colpita è ignara del proprio stato.» Rimise le fiale nella valigia, e ripensandoci tirò fuori una torcia ammaccata. «E questa naturalmente è top-secret. Mi stupisco che ti permettano di usarla. Quando premi questo bottone, una torcia. Togli la sicura, premi di nuovo il bottone,» ributtò la torcia nella valigia «un raggio mortale. O se preferisci un laser che proietta raggi rossi e infrarossi ad alta intensità. Se cerchi di aprirla l’esplosione ti stacca il braccio. Si ricarica infilandola in una qualsiasi presa di corrente alternata. L’era dei proiettili è alla fine.» Chiuse la valigia con uno scatto, si alzò in piedi, fece un cenno brusco con la mano. «Aspetta Parrish nell’ufficio esterno; ti accompagnerà al tuo aeroplano. Conosci i tuoi obiettivi. Questo è un affare disperato, un affare sconsiderato. Deve piacerti, o finirai a lavorare all’ufficio postale.» A 6°34ʺ di Latitudine Nord, e 13°30ʺ di Longitudine Ovest, l’aereo si incontrò all’alba con un rollante sottomarino nero. Keith scese su un aggeggio composto da un sedile, un piccolo motore, e quattro eliche rotanti. Il sottomarino si inabissò con Keith a bordo, e riemerse ventitré ore dopo per lasciarlo a galla in una canoa a vela; poi si inabissò di nuovo. Keith era da solo nell’Atlantico Meridionale. L’alba cingeva l’orizzonte, e a Est si stendeva la massa scura dell’Africa. Keith orientò la vela al vento e la scia spumeggiò a poppa. Il sorgere del sole illuminò una costa arida e sabbiosa, sulla quale si vedevano poche capanne di pescatori. A Nord, sotto batuffoli di fogliame verde e nero, scintillavano i bianchi edifici di Dasai. Keith guidò la canoa sulla spiaggia, e arrancò in mezzo alle dune sabbiose fino alla strada costiera. C’era già un traffico considerevole: donne che camminavano faticosamente a fianco degli asini, giovani in bicicletta, di tanto in tanto una piccola automobile d’epoca, una volta un costoso idroscivolante Amphitrite, nuovo, con un soffice sibilo sussurrato. Alle nove, attraversando il fiume Dasa, marrone e lento, Keith entrò a Dasai, un piccolo porto costiero abbagliato dal sole, ancora intoccato dai cambiamenti che avevano trasformato Fejo. Edifici a due e tre piani di stucco bianco, sostenuti da arcate, si affacciavano sulla via principale, divisa in due da una striscia di palme, rododendri e oleandri. C’erano due hotel, una banca, un’autorimessa, negozi eterogenei e palazzi di uffici. Un depresso funzionario di polizia con un elmetto bianco dirigeva il traffico, che in quel momento consisteva in due cammelli condotti da un Beduino lacero. Un tozzo piedistallo sosteneva quattro enormi fotografie di Adoui Shgawe, il «Beneamato Premier della nostra Nazione, il Grande Faro dell’Africa». Sotto, vistosamente più piccole, c’erano le fotografie di Marx, Lenin e Mao Tse-Tung. Keith svoltò in una via laterale, camminò fino all’argine del fiume. Vide moli decrepiti, una mezza dozzina di ristoranti, birrerie giardino e cabaret costruiti sull’acqua, su piattaforme ombreggiate da tettoie ricoperte di foglie di palma. Chiamò con un cenno un ragazzo poco lontano, che gli si avvicinò con cautela. «Quando arriva la lancia che scende il fiume da Kotoba, e dove attracca?» Il ragazzo puntò un dito magro e storto. «Quello è il molo, signore, appena passato l’Hollywood Café.» «E quando deve arrivare, la lancia?» «Questo non lo so, signore.» Keith gli lanciò una moneta, e si diresse al molo, dove apprese che in verità la lancia sarebbe arrivata di sicuro alle due del pomeriggio, certamente non più tardi delle tre, e senza alcun dubbio prima delle quattro. Keith rifletté. Se Tamba fosse arrivato alle due, o anche alle tre, probabilmente avrebbe proseguito per Fejo, a sessanta miglia lungo la costa. Se l’imbarcazione avesse tardato avrebbe invece potuto decidere di fermarsi a Dasai per la notte, lì all’Hotel Grand Plaisir, distante solo pochi passi. Il Problema era: dove intercettare Tamba Ngasi? Lì a Dasai? All’Hotel Grand Plaisir? In viaggio verso Fejo? Nessuna di quelle possibilità allettava Keith. Ritornò sulla via principale. Un tabaccaio gli assicurò che non si potevano noleggiare altre automobili all’infuori dei tre antichi tassì cittadini. Gli indicò in fondo alla via una vecchia Citroen nera ferma all’ombra di un’enorme sapotiglia. L’autista, un vecchio sottile in calzoncini bianchi, maglietta azzurra sbiadita e scarpe di tela, poltriva accanto a una bancarella che vendeva ghiaccio tritato e sciroppo. La proprietaria, una donna enorme con un vestito sgargiante nero, oro e arancione, lo sollecitò con lo scacciamosche a rivolgere l’attenzione a Keith. L’uomo si mosse riluttante lungo il marciapiede. «Il signore desidera essere condotto a destinazione?» Keith, nella parte del barbaro proveniente da una terra di confine, si sfregò dubitoso il lungo mento. «Proverei il tuo veicolo, a patto che tu non provi a imbrogliarmi.» «I prezzi sono fissi,» disse l’autista senza entusiasmo. «Tre rupie per il primo giro di tassametro, una rupia per ogni giro successivo. Dove desideri andare?» Keith salì sul tassì. «Segui la strada lungo il fiume.» Uscirono sferragliando dalla città, per una strada in terra battuta che correva per lo più parallela al fiume. La campagna era arida e polverosa, infestata di rovi, con qua e là un massiccio baobab. Passarono le miglia, e l’autista divenne nervoso. «Dove intendi andare, signore,?» «Fermati qui,» disse Keith. Incerto, l’autista rallentò. Keith prese del denaro dalla borsa che portava alla cintura. «Desidero guidare il tassì. Da solo. Tu puoi aspettarmi sotto quell’albero.» L’autista protestò con veemenza. Keith lo costrinse ad accettare cento rupie. «Non discutere. Posso stare via parecchie ore, ma riavrai il tuo tassì sano e salvo e altre cento rupie se aspetti qui.» L’autista scese e zoppicò nella polvere fino all’ombra di un albero della gomma, alto e giallo, e Keith ripartì lungo la strada. La campagna diventava sempre più piacevole. I palmizi fiancheggiavano l’argine del fiume; di tanto in tanto c’erano delle macchie fertili, e attraversò tre villaggi di capanne rotonde con le pareti di fango e tetti conici ricoperti di paglia. Canoe occasionali si spostavano sulla torbida acqua marrone; vide una chiatta carica di una catasta di legna, rimorchiata da una barca a remi ridicolmente inadeguata con un motore fuoribordo. Proseguì per altre dieci miglia e di nuovo la campagna divenne inospitale. Il fiume, velato dal caldo, si snodava tra gli argini fangosi dove piccoli coccodrilli si crogiolavano al sole; le rive erano soffocate dai papiri e da boschetti di larici. Keith fermò l’auto e consultò una cartina. La prima città di qualche importanza dove l’imbarcazione avrebbe potuto scaricare passeggeri era Mbakouesse, altre venticinque miglia, troppo lontano. Rimise la cartina in valigia e ne trasse un vasetto di brillantina, o almeno così sosteneva l’etichetta. Lo considerò per un momento, e stabilì un piano d’azione. Adesso guidava lentamente, e in poco tempo trovò un punto dove il canale faceva un’ansa proprio sotto l’argine. Keith parcheggiò vicino a un grosso mucchio di bambù dalle giunture rosse, e fece i preparativi necessari. Tamponò poche once della supposta brillantina simile a cera attorno a una losanga stranamente pesante, che aveva preso da una confezione di pasticche per la tosse, e fissò il blocco a un legno asciutto con del nastro adesivo. Trovò una spoletta di corda sottile, legò un sasso a una estremità. Poi, facendo attenzione alle vipere palustri, ai coccodrilli, e alle enormi vespe che, rintanate lungo l’argine, sbattevano le ali con un crepitio secco si fece strada attraverso i larici fino alla riva del fiume. Srotolò cento piedi di corda, e lanciò legno e pietra quanto più possibile lontano in mezzo al fiume. La pietra andò a fondo, ormeggiando il bastone che adesso galleggi ava dalla parte opposta del canale, esattamente dove Keith voleva. Passò un’ora, due ore. Keith si sedette all’ombra dei larici, circondato dall’odore resinoso delle foglie, dalle esalazioni palustri del fiume. Finalmente: il pulsare di un pesante motore diesel. Lungo il fiume scendeva un’imbarcazione tipica dei fiumi africani, lunga circa settanta piedi, con cabine di prima classe sul ponte superiore, e cubicoli di seconda classe sul ponte principale; i restanti passeggeri erano seduti, in piedi, accucciati o pigiati dovunque ci fosse un po’ si spazio. L’imbarcazione si avvicinò, sbuffando in mezzo al canale. Keith raccolse la corda allentata, tirando il legno verso di sé. Sul ponte superiore era ritto un uomo alto, emaciato, dal volto scuro, ferino e intelligente sotto un turbante darshba: Tamba Ngasi? Keith non ne era sicuro. Quell’uomo camminava con la testa china in avanti, i gomiti sporgenti ad angolo acuto. Keith aveva studiato le fotografie di Tamba Ngasi, ma di fronte all’individuo vivo e reale… Non c’era tempo per le speculazioni. L’imbarcazione gli era quasi a fianco, la prua sollevava un’ondata gialla trasparente. Keith tirò a sé la corda, portando il bastone sotto la prua. Sollevò il palmo della mano destra, nel quale era stata arrotolata un’antenna direzionale. Allargò le dita, e un impulso andò a colpire il detonatore nella piccola losanga nera. Ci fu un’esplosione sorda e roboante, uno zampillo di spuma, scrosci di acqua marrone, grida stridule di sorpresa e paura. La prua dell’imbarcazione si abbassò nell’acqua, sbandò capricciosamente. Keith diede uno strattone alla corda e riavvolse ciò che ne restava. L’imbarcazione, già sovraccarica, stava per affondare. Virò verso riva, e si incagliò cinquanta iarde più a valle. Keith guidò il tassì a marcia indietro fuori dai larici, proseguì per mezzo miglio di strada, e attese guardando con il binocolo. Un gruppo di uomini e donne vestiti di bianco attraversò i folti di larici alla spicciolata, e poco dopo un uomo alto con un turbante darshba uscì a lunghi passi rabbiosi sulla strada. Keith mise a fuoco il binocolo e vide le fattezze che adesso erano le sue. Il portamento, la camminata, sembravano più spigolosi, più nervosi; doveva ricordarsi di duplicare quelle pose… E adesso, al lavoro. Tirò in avanti il cappuccio del mantello per nascondere il viso, inserì la marcia. Il tassì si avvicinò al capannello di gente ferma sul bordo della strada. Un uomo corpulento dalla carnagione olivastra in abiti europei balzò avanti e gli segnalò di fermarsi. Keith lo fissò fingendosi sorpreso e scrollò le spalle. «Ho già un cliente; sto andando adesso a prenderlo.» Tamba Ngasi gli si accostò a grandi passi. Spalancò la portiera. «Il cliente può aspettare. Io sono un funzionario governativo. Portami a Dasai.» L’Indù piccolo e corpulento fece il gesto di volere salire anche lui in tassì. Keith lo fermò. «Ho posto solo per uno.» Tamba Ngasi gettò la valigia sul sedile e saltò in auto. Keith ripartì, lasciando che il gruppo restasse a seguirlo sconsolato con lo sguardo. «Un incidente senza senso,» si lamentò Tamba Ngasi stizzito. «Stavamo viaggiando tranquillamente; l’imbarcazione urta uno scoglio; sembra che ci sia un’esplosione, e affondiamo! Chi l’avrebbe mai immaginato? E a bordo c’ero io, un importante membro del governo! Perché ti fermi?» «Devo badare all’altro mio cliente.» Keith deviò dalla strada, e prese un sentiero appena visibile che conduceva nella boscaglia. «Non mi importa del tuo cliente, non voglio ritardi. Prosegui.» «Devo anche caricare un barile di benzina, altrimenti rimarremo senza.» «Benzina qui, in mezzo ai rovi?» «Un nascondiglio conosciuto solo ai tassisti.» Keith si fermò, scese e aprì la portiera posteriore. «Tamba Ngasi, fatti avanti.» Tamba Ngasi fissò il proprio volto sotto il cappuccio di Keith. Sbottò in un’appassionata bestemmia, e scattò verso lo stiletto che portava alla vita. Keith fece un movimento rapido in avanti, e lo colpì alla fronte con le unghie di rame e argento. L’elettricità esplose in una scarica mortale attraverso il cervello di Ngasi, che si accasciò vacillando su un fianco e cadde sulla strada. Keith trascinò via il cadavere dal sentiero verso la boscaglia. Le gambe di Tamba Ngasi erano grosse e pesanti, sproporzionate rispetto al torace muscoloso. Questo era un particolare del quale Keith non era stato messo al corrente. Ma non importava; chi avrebbe mai saputo che le gambe di Keith erano lunghe e snelle? Gli sciacalli e gli avvoltoi avrebbero presto eliminato il cadavere. Keith trasferì il contenuto della borsa nella propria, cercò senza risultato una cintura porta denaro. Ritornò al tassì e guidò a ritroso fino all’alto albero della gomma. L’autista si era appisolato; Keith lo svegliò con un colpo di clacson. «Sbrigati, adesso, riportami a Dasai, devo essere a Fejo prima del calare della notte.» In tutta l’Africa, antica, medievale, e moderna, non c’era mai stata una città come Fejo. Sorgeva su un promontorio brullo a nord di Tabacoundi Bay, dove vent’anni prima nemmeno i pescatori si degnavano di vivere. Fejo era una città audace, sorprendente nelle forme, nelle strutture e nei colori. Gli Africani determinati a esprimere l’unicità del loro retaggio avevano progettato la città, rifiutando recisamente le tradizioni architettoniche dell’Europa e dell’America, sia classiche che contemporanee. La costruzione era stata finanziata grazie a un gigantesco prestito dell’URSS, e gli ingegneri sovietici avevano tradottogli schizzi dei ferventi studiosi di Lakhadi in spazio e solidità. Fejo era perciò una città notevole. Certi critici europei la liquidavano come uno scenario teatrale; alcuni ne erano affascinati, altri respinti. Nessuno negava che Fejo fosse irresistibilmente drammatica. «A confronto dell’impatto con Fejo, Brasilia sembra sterile, eclettica, affettata,» scriveva un critico inglese. «Fantasie di una mente malata, davanti alle quali stupirebbe lo stesso Gaudi,» sbottava uno Spagnolo. «Fejo è l’ardita provocazione del genio africano, e i suoi eccessi sono quelli della passione, piuttosto che dello stile,» dichiarava un Italiano. «Fejo,» scriveva un Francese, «è abominevole, sbalorditiva, involuta, pretenziosa, ignorante, oppressiva, e degna di nota solo per le forme torturate alle quali è stato destinato del buon materiale da costruzione.» Fejo aveva il suo centro nella guglia di cinquanta piani dell’Istituto Africano, accanto al quale il Grande Parlamento sorgeva su arcate di rame, con finestre ovali e un tetto smaltato di azzurro come una bombetta a tesa larga. Sei alti guerrieri di basalto levigato, rappresentanti le sei principali tribù di Lakhadi, fronteggiavano la piazza; più oltre c’era l’Hotel des Tropiques, il più sontuoso di tutta l’Africa, e in grado di competere con qualunque altro al mondo. L’Hotel des Tropiques era forse l’edificio più convenzionale del complesso centrale, ma anche lì gli architetti avevano insistito su un puro stile africano. La vegetazione scendeva dal giardino pensile lungo i muri bianchi e azzurri; l’atrio era arredato in padank, tek ed ebano; colonne di vetrocemento per costruzioni si levavano da tappeti azzurri e argento e da passatoie rosso porpora a sostenere un soffitto di acciaio inossidabile e smalto nero. Dall’altra parte della piazza c’era il palazzo ufficiale, e dietro i primi tre dei dodici condomini progettati a uso degli alti ufficiali. Di tutte le costruzioni di Fejo, erano state quelle accolte più favorevolmente dai critici stranieri, probabilmente in virtù della loro semplicità. Ogni pavimento consisteva di un unico disco alto dodici piedi, mantenuto separato dal pavimento sopra e da quello sotto da quattro puntelli che li attraversavano. Ogni disco serviva anche come ponte di volo, e il ponte alla sommità veniva utilizzato come eliporto. Sull’altro lato dell’Hotel des Tropiques si apriva un’altra piazza per soddisfare l’esigenza africana di un bazar. Lì c’erano bancarelle, venditori ambulanti e intrattenitori di ogni sorta che vendevano orologi da polso autocroni, potenziati e sincronizzati da un impulso a sessanta cicli avente origine in Greenwich, così come feticci, elisir, pozioni e talismani. Per la piazza si muoveva un allegro e volubile miscuglio di gente: donne di colore con abiti di cotone, seta e mussolina stampati a magnifiche tinte, Maomettani in bianche djellabas, Tuareg e Uomini Azzurri della Mauritania, Cinesi in antiquati abiti neri, onnipresenti negozianti indù, talvolta un Russo arcigno e isolato dalla folla. Oltre questa piazza c’era un quartiere di spogli cubicoli a tre piani suddivisi in appartamenti. Le persone affacciate alle finestre sembravano irresolute e incerte, come se il cambiamento dal fango e dalla paglia al vetro, alle piastrelle e all’aria condizionata fosse troppo grande per poter essere racchiuso nello spazio di una vita. A Fejo, alle cinque del pomeriggio, arrivò James Keith, con un biglietto di prima classe sul treno proveniente da Dasai. Dalla stazione attraversò il bazar fino all’Hotel des Tropiques, si diresse a grandi passi al banco, ignorò le numerose persone in attesa e batté il pugno sul tavolo per richiamare l’impiegato, un pallido Eurasiatico che si girò a guardarlo seccato. «Svelto!» scattò Keith. «È forse conveniente che un Parlamentare aspetti i comodi di quelli come te! Conducimi alla mia suite.» I modi dell’impiegato mutarono all’istante. «Il tuo nome, signore?» «Sono Tamba Ngasi.» «Non c’è la prenotazione, Compagno Ngasi. Non hai…» Keith fissò l’uomo con uno sguardo offeso. «Io sono un Parlamentare dello Stato. Non ho bisogno di prenotazioni.» «Ma tutte le suite sono occupate!» «Butta fuori qualcuno, e alla svelta.» «Si, Compagno Ngasi. Subito.» Keith si ritrovò in una sontuosa serie di stanze arredate con legni intagliati, vetri verdi, folti tappeti. Non aveva mangiato da quel mattino presto; una leggera pressione su un bottone fece illuminare il menù del ristorante su uno schermo. Non c’era nessuna ragione per cui un capo tribù non potesse gradire la cucina europea, pensò Keith e ordinò di conseguenza. Mentre aspettava il pranzo ispezionò pareti, pavimento, tendaggi, soffitto, mobili. Le cellule spia potevano anche fare normalmente parte dell’arredamento a Fejo, dominata com’era dagli intrighi. Ma non erano visibili, Né Keith si aspettava che lo fossero. Le migliori apparecchiature moderne non erano certamente individuabili. Uscì sul terrazzo, spinse la lingua contro un dente, parlò in un sussurro per diversi minuti. Riportò l’interruttore nella sua posizione precedente, e il suo messaggio venne trasmesso in una scarica codificata di un centesimo di secondo indistinguibile dai disturbi di origine elettrostatica. A mille miglia sopra la sua testa era sospeso un satellite che ruotava assieme alla Terra, il satellite intercettò il segnale, lo amplificò e lo ritrasmise a Washington. Keith attese, e i minuti passarono, tanti quanti erano necessari ad ascoltare il suo messaggio e formulare una risposta. Poi ci fu lo scatto quasi impercettibile che indicava l’arrivo del messaggio di ritorno, che gli si comunicò con la voce di Sebastiani attraverso la mandibola direttamente al nervo uditivo, senza il minimo suono ma con tutte le inflessioni caratteristiche di Sebastiani. «Fino a questo momento va tutto bene,» disse Sebastiani. «Ma ho cattive notizie. Non cercare di metterti in contatto con Corty. A quanto pare è stato scoperto, e i Cinesi gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Così devi arrangiarti da solo.» Keith si lasciò sfuggire un grugnito di depressione, poi ritornò in salotto. Gli venne servito il pranzo; mangiò, poi aprì la valigia che aveva preso a Tamba Ngasi. Era simile alla sua, persino nel contenuto: biancheria pulita, articoli da toeletta, effetti personali, un raccoglitore di documenti. I documenti, stampati nei fioriti caratteri neo africani, non erano di particolare interesse: una lista elettorale, varie notifiche ufficiali. Keith trovò una direttiva che diceva: «Quando arriverai a Fejo prenderai alloggio in Rue Arsabatte 453, dove è stata allestita una suite conveniente. Quanto prima possibile informerai della tua presenza il Capoufficio del Parlamento.» Keith sorrise debolmente. Avrebbe semplicemente dichiarato di preferire l’Hotel des Tropiques. E chi avrebbe discusso il capriccio del capo di una terra di confine, noto per il cattivo carattere? Mentre riponeva il contenuto della valigia di Tamba Ngasi, Keith si accorse di qualcosa di molto particolare. Gli oggetti gli davano un’impressione… strana. Quella scatola del feticcio, per esempio, pesava mezza oncia di troppo. La mente di Keith sfrecciò attraverso tutta una rete di speculazioni. Quella penna a sfera un po’ ammaccata… La esaminò attentamente, l’allontanò da sé, premette il pulsante estensore. Uno scatto, un sibilo, uno spruzzo di gas nebuloso. Keith balzò indietro, si spostò dall’altra parte della stanza. Era una pistola a gas in miniatura, progettata per soffiare del narcotico dentro e attraverso i pori della pelle. Una conferma ai suoi sospetti… e in quale strana direzione portavano! Keith rimise a posto la penna, chiuse la valigia. Passeggiò nervosamente avanti e indietro per alcuni minuti, poi chiuse a chiave la propria valigia e lasciò la stanza. Scese nell’atrio su uno scintillante ascensore di cristallo rosa e verde, e si fermò un momento a osservare la scena. Non si era aspettato nulla di così splendido; si chiese come Tamba Ngasi avrebbe guardato quella sala luccicante e i suoi ipersofisticati occupanti. Certo non con approvazione, decise Keith. Si diresse all’entrata contorcendo il volto in una smorfia di disgusto. Anche secondo i suoi gusti personali, l’Hotel des Tropiques era eccessivamente ricco, un po’ troppo fantasioso. Attraversò la piazza, percorse il Viale dei Sei Guerrieri Neri fino al grottesco ma insolitamente impressionante Grande Parlamento di Lakhadi. Una coppia di appariscenti guardie nere, con sandali di metallo e gambali, e tuniche di pelle bianca a pieghe, scattarono in avanti e incrociarono le lance di fronte a lui. Keith li esaminò altezzosamente. «Io sono Tamba Ngasi, Grande Parlamentare dalla Provincia di Kotoba.» Le guardie non contrassero un muscolo; avrebbero potuto essere scolpite nell’ebano. Da un cubicolo laterale uscì un uomo bianco, basso e grasso, in pantaloni e camicia flosci color marrone. Abbaiò: «Tamba Ngasi, guardie, fate passare!» Le guardie con un singolo movimento scattarono indietro. Il piccolo uomo grasso si inchinò cortesemente, ma sembrava non distogliere mai lo sguardo da Keith. «Sei venuto a iscriverti, Grande Parlamentare?» «Precisamente. Dal Capoufficio.» L’uomo basso chinò di nuovo la testa. «Io sono Vasif Doutoufsky, Capoufficio. Vuoi passare nel mio ufficio?» L’ufficio di Doutoufsky era caldo e soffocante, l’aria era dolciastra di incenso alla rosa. Doutoufsky offrì a Keith una tassa di tè. Keith rispose con una brusca scrollata di capo, caratteristica di Tamba Ngasi, e Doutoufsky apparve vagamente sorpreso. Parlò in russo. «Perché non sei andato in Rue Arsabatte? Ti ho aspettato là fino a dieci minuti fa.» La mente di Keith vorticò come sui cuscinetti a sfere. In un russo non certo troppo disinvolto disse cupamente: «Ho avuto i miei motivi… C’è stato un incidente all’imbarcazione sul fiume, forse un’esplosione. Ho preso un tassì e sono arrivato a Dasai.» «Ah,» disse Doutoufsky con voce sommessa. «Sospetti un’interferenza?» «Se è così,» disse Keith, «può venire solo da una fonte.» «Ah,» disse di nuovo Doutoufsky, con voce ancora più sommessa. «Vuoi dire…» «I Cinesi.» Doutoufsky studiò pensosamente Keith. «La trasformazione è stata eseguita bene,» disse. «La pelle è stata corretta con precisione, con toni e sfumature convincenti. Parli in modo un po’ strano.» «Come parleresti anche tu, se avessi la testa imbottita come la mia.» Doutoufsky arricciò le labbra come a una battuta riservata a loro due. «Ti trasferirai in Rue Arsabatte?» Keith esitò, tentando di percepire quale rapporto intercorresse tra sé e Doutoufsky: inferiore o superiore? Inferiore, probabilmente, con i poteri e le prerogative del contatto, dal quale venivano le istruzioni e attraverso il quale le valutazioni raggiungevano il Cremlino. Un pensiero lo raggelò: Doutoufsky, e lui che era entrato nel gioco sotto le spoglie di Tamba Ngasi, potevano essere entrambi rinnegati russi, entrambi agenti cinesi nella più fantastica guerra mai combattuta. Nel qual caso la vita di Keith era in una posizione addirittura più precaria rispetto a solo mezz’ora prima… Ma questa era un’ipotesi di minore probabilità. Con voce autoritaria, Keith disse: «È stata messa un’automobile a mia disposizione?» Doutoufsky sbatté le palpebre. «No, che io sappia.» «Avrò bisogno di un’automobile,» disse Keith. «Dov’è la tua auto?» «Di certo non è appropriato, signore…» «Spetta a me giudicare.» Doutoufsky sollevò il petto in un sospiro. «Farò venire una delle limousine parlamentari.» «Che senza dubbio è efficacemente monitorizzata.» «Naturalmente.» «Preferisco un veicolo dove poter compiere le necessarie transazioni senza timore di testimoni.» Doutoufsky annuì bruscamente. «Molto bene.» Gettò una chiave sul piano della scrivania. «Questa è la mia piattaforma aerea personale. Ti prego di usarla con discrezione.» «Non è monitorizzata?» «Sono certo di no.» «La controllerò comunque a fondo.» Keith parlò con un tono di pacata minaccia. «Spero di trovarla corrispondente alla tua descrizione.» Doutoufsky sbatté gli occhi, e con voce sottomessa gli spiegò dove avrebbe potuto trovare l’auto. «Domani a mezzogiorno il Parlamento si riunisce. Naturalmente ne sei al corrente.» «Naturalmente. Ci sono istruzioni supplementari?» Doutoufsky rivolse a Keith una fredda occhiata obliqua. «Mi domandavo quando le avresti chieste, dato che questa era specificamente l’unica ragione del nostro contatto. Non per fare lo spaccone, non per pretendere auto da diporto.» «Contieni la tua arroganza, Vasif Doutoufsky. «Io devo operare senza interferenze. Esistono già lievi dubbi riguardanti le tue capacità; risparmiami la necessità di corroborarli.» «Ah,» disse piano Doutoufsky. Aprì un cassetto e gettò sulla scrivania un piccolo chiodo di ferro. «Ecco le tue istruzioni. Hai la chiave della mia auto, hai rifiutato di usare l’alloggio a te destinato. Hai altre richieste?» «Sì,» disse Keith con il suo sorriso da lupo. «Fondi.» Doutoufsky gettò sulla scrivania un pacchetto di banconote. «Questi dovrebbero bastarti fino al nostro prossimo contatto.» Keith si alzò lentamente in piedi. Sarebbero sorte delle difficoltà se fosse mancato ai contatti prestabiliti con Doutoufsky. «Certe circostanze possono rendere indispensabile un cambiamento di programma.» «Davvero? E quali?» «Ho saputo — da una fonte che non sono autorizzato a rilevare — che i Cinesi hanno scoperto un agente occidentale e gli hanno fatto il lavaggio del cervello. È stato individuato a causa della periodicità delle sue azioni. È meglio non fare piani precisi.» Doutoufsky annuì gravemente. «C’è qualcosa di vero nelle tue parole.» Al chiaro di luna la strada costiera da Fejo a Dasai era bella oltre ogni immaginazione. A sinistra si allargava l’infinita estensione del mare, la spuma delle onde e la pallida sabbia desolata; a destra crescevano cespugli di rovi, baobab, cactus spinosi, che si componevano in schemi angolari su ogni tono di argento, grigio e nero. Keith aveva la sensazione ragionevolmente certa di non essere stato seguito. Aveva immerso con cura l’auto nelle radiazioni della sua torcia, per distruggere i delicati circuiti di una cellula spia con la corrente indotta. A metà strada per Dasai si fermò, spense le luci, e perlustrò il cielo con il radar nascosto negli amuleti che portava alle orecchie. Non riuscì a scoprire nulla; l’aria era limpida e deserta, e dietro a sé non sentiva nessuna auto. Colse l’occasione per inviare un messaggio al satellite. Dopo un’attesa di cinque minuti, udì lo scatto del collegamento di risposta. La voce di Sebastiani gli penetrò chiara e distinta nel cervello: «La coincidenza, tutto considerato non è stupefacente. I Russi hanno scelto Tamba Ngasi per la nostra stessa ragione: la sua reputazione di aggressività e indipendenza, la sua presumibile popolarità tra i militari, in opposizione al loro sospetto riguardo a Shgawe. «Per l’alloggio in Rue Arsabatte, credo che tu abbia preso la decisione giusta. All’Hotel sarai meno esposto. Su Doutoufsky non abbiamo niente di definito. Apparentemente è un emigrante polacco, ora cittadino di Lakhadi. Puoi avere esagerato nell’assumere un atteggiamento di forza. Se ti coglie in flagrante, mostra una certa dose di contrizione e fagli presente che hai ricevuto istruzioni di cooperare maggiormente con lui.» Keith perlustrò ancora una volta il cielo, ma ricevette solo il segnale di un gufo che volava a bassa quota. Fiduciosamente proseguì lungo la strada irreale, e in breve giunse a Dasai. La città era tranquilla, con pochi lampioni, un tintinnio di musica e risate dai cabaret. Keith svoltò sulla strada che costeggiava il fiume, e procedette verso l’interno. La regione divenne selvaggia e trascurata. Keith proseguì per venti miglia, poi rallentò. Ecco l’albero giallo della gomma dove aveva scaricato l’autista del tassì. Ecco dove aveva affondato il battello fluviale. Fece inversione di marcia, e ritornò lungo la strada. Ecco dove aveva deviato dalla strada con l’uomo che credeva essere Tamba Ngasi. Svoltò, avanzò per un tratto, poi si fermò e scese dall’auto. Nella boscaglia sei paia di occhi gialli rifletterono la luce dei fari, poi si allontanarono rapidamente. Gli sciacalli si erano dati da fare. Tre di loro giacevano a terra morti, cumuli di pellicce rancide, e Keith si trovò nell’imbarazzo di dover giustificare il loro stato. Diresse il raggio della torcia sul cadavere, esaminò la carne che gli sciacalli avevano lacerato. Si chinò più vicino, aggrottando la fronte perplesso. Una speciale imbottitura di tessuto differenziato era disposta lungo l’esterno delle cosce, spessa quasi un pollice. Era organizzata in fasce regolari, e copiosamente alimentata da grandi arterie; qua e là Keith scorse il luccichio del metallo. Improvvisamente indovinò la natura del tessuto, e seppe perché gli sciacalli erano morti. Si raddrizzò, si guardò attorno per la foresta di cactus e di rovi bagnata dalla luce lunare, e rabbrividì. La sola presenza della morte era spaventosa, tanto più per quella specie d’uomo che giaceva così lontano da casa sua, così stranamente alterato e migliorato. Quelle imbottiture di carne grigia dovevano essere un tessuto elettroorganico, simile a quello della murena, in qualche modo adattato alla carne umana dai biologi russi. Keith provò una sensazione di oppressione. I Russi li superavano di gran lunga: l’origine della sua energia era chimica, organica; l’energia di quell’uomo era controllata dal funzionamento del suo corpo, e restava a un potenziale talmente elevato che tre sciacalli erano rimasti fulminati nel tentativo di sbranarlo. Stringendo i denti si chinò sul cadavere, e si accinse a eseguire la sua ispezione. Mezz’ora dopo aveva finito, e se ne stava in posizione eretta con due pellicole metalloidi tolte dall’interno delle guance del cadavere: circuiti di comunicazione sicuramente sofisticati quanto i suoi. Sfregò le mani nella sabbia, ritornò all’auto e guidò a ritroso alla luce della luna ormai al tramonto. Arrivò nella buia città di Dasai, girò a sud verso la strada costiera, e un’ora più tardi era a Fejo. L’atrio dell’Hotel des Tropiques era illuminato soltanto da grandi sfere pallide, verdi e azzurre. Pochi gruppi di persone erano seduti a parlare e sorseggiare un drink; accompagnato dal sommesso mormorio delle loro conversazioni Keith si diresse all’ascensore che lo portò alla sua stanza. Entrò con cautela. Tutto sembrava in ordine. Le due valige non erano state manomesse; sul letto le coperte erano state ripiegate all’indietro, e un pigiama di seta purpurea era stato preparato per lui. Prima di dormire, Keith sfiorò un altro interruttore nella dentiera, e il radar montò la guardia. Qualunque movimento all’interno della stanza l’avrebbe destato. Sentendosi temporaneamente al sicuro si addormentò. Mancava un’ora alla prima seduta del Grande Parlamento, quando Keith fece visita a Vasif Doutoufsky che strinse le labbra a rosetta. «Prego. Non è conveniente che sembriamo amici intimi.» Keith sfoggiò lo sgradevole ghigno da lupo. «Niente paura.» Mostrò i congegni che aveva preso dal corpo del presunto Tamba Ngasi. Doutoufsky guardò incuriosito. «Questi sono circuiti di comunicazione.» Keith li gettò sulla scrivania. «Si sono guastati, e non posso presentare rapporto. Devi farlo tu per me, e fornirmi le istruzioni.» Doutoufsky scosse la testa. «Questo non doveva essere il mio compito. Non posso compromettermi, i Cinesi sospettano già dei miei rapporti.» E così, pensò Keith, Doutoufsky faceva il doppio gioco. I Russi sembravano fidarsi di lui, cosa che Keith riteneva alquanto ingenua. Meditò un momento, e poi infilò una mano nella borsa e ne trasse una scatoletta piatta. L’aprì e tirò fuori un piccolo oggetto di legno che somigliava a uno spicchio d’aglio. Lo lasciò cadere davanti a Doutoufsky. «Ingoialo.» Doutoufsky sollevò lentamente gli occhi, corrugando la fronte in una lamentosa protesta. «Ti comporti in modo molto strano. Ovviamente non ingoierò questo oggetto. Che cos’è?» «È un legame che unisce le nostre vite,» disse Keith. «Se vengo ucciso, uno dei miei organi emetterà un impulso che farà detonare questo oggetto.» «Tu sei pazzo,» borbottò Doutoufsky. «Farò rapporto in questo senso.» Keith si mosse in avanti, posò la mano sulla spalla di Doutoufsky, gli toccò il collo. «Sai che posso far smettere il battito del tuo cuore?» Inviò una scarica elettrica nelle unghie di rame e argento. Doutoufsky parve più perplesso che allarmato. Keith emise una corrente più forte, abbastanza da far trasalire qualunque uomo. Doutoufsky si limitò a liberarsi dalla stretta di Keith. Le sue dita afferrarono il polso di Keith. Erano fredde, e potenti come tenaglie di acciaio. E nel bracco di Keith si propagò un doloroso colpo di corrente. «Sei un idiota,» disse Doutoufsky disgustato. «Porto armi di cui non sai nulla. Vattene subito, o te ne pentirai.» Keith se ne andò in preda a una costernazione prossima al malessere. Doutoufsky era stato migliorato. La sua rotondità celava senza dubbio grandi fasce di tessuto elettrogenerativo. Aveva commesso un errore grossolano, e aveva fatto la figura dello sciocco. Suonò un gong; altri Parlamentari gli sfilarono accanto. Keith tirò un profondo respiro, ed entrò con sussiego nell’echeggiante sala a pannelli rossi, oro, e neri. Un usciere lo salutò. «Il tuo nome, signore?» «Tamba Ngasi, Provincia di Kotoba.» «Il tuo posto, Eccellenza, è il numero ventisette.» Keith si sedette, ascoltando senza interesse l’invocazione. Che cosa fare con Doutoufsky? Le sue riflessioni vennero interrotte dall’apparizione in tribuna di un uomo pesante, dalla faccia a luna piena, in una semplice veste bianca. La pelle era quasi nero azzurra, le palpebre scendevano pigramente sulle orbite sporgenti, la bocca era grande e carnosa. Keith riconobbe Adoui Shgawe, Premier di Lakhadi, benefattore dell’Africa. Parlò con voce risonante di banalità e considerazioni di carattere generale, facendo molti riferimenti alla Solidarietà Socialista. «Il futuro di Lakhadi è il futuro dell’Africa Nera! Mentre osserviamo questo salone magnifico, e notiamo i colori della raffinata decorazione, possiamo forse evitare di restare impressionati dall’esattezza del simbolismo? Rosso è il colore del sangue, che è lo stesso per tutti gli uomini, ed è anche il colore del Socialismo Internazionale. Nero è il colore della nostra pelle, ed è nostro orgoglioso dovere assicurare che la forza e il genio della nostra razza siano rispettati su tutto il globo. Oro è il colore del successo, della gloria, e del progresso; e dorato è il futuro di Lakhadi!» Il salone risuonò di applausi. Shgawe passò a problemi più immediati. «Seppure spiritualmente ricchi, siamo in un certo senso impoveriti. Il Compagno Nambey Faranah,» fece un cenno col capo verso un uomo tozzo dalla faccia quadrata in completo nero, «ha presentato un programma interessante. Suggerisce che un programma di immigrazione attentamente pianificato potrebbe garantirci un nuovo e prezioso assetto nazionale. D’altro canto…» Il Compagno Nambey Faranah balzò in piedi e si girò a fronteggiare l’assemblea. Shgawe levò una mano per trattenerlo, ma Faranah lo ignorò. «Ho conferito con l’Ambasciatore Hsia Lu-Minh della nazione amica, la Democrazia Popolare Cinese. Ha fornito la più valida rassicurazioni, e userà tutta la sua influenza per aiutarci. È del parere che un certo numero di abili tecnici agricoli possano essere di incommensurabile beneficio per il nostro popolo, e possano accelerare l’orientamento politico delle apolitiche regioni arretrate. Avanti verso il progresso!» Mugghiò Faranah. «Ben venga la possente avanzata delle razze di colore unite abbracciate sotto il rosso stendardo del Socialismo Internazionale!» Guardò per il salone in attesa dell’applauso, che fu però scarso e svogliato. Si sedette bruscamente. Keith lo osservò con nuova, cupa speculazione. Il Compagno Faranah era forse un Cinese migliorato? Adoui Shgawe aveva pacatamente ripreso la sua arringa. «…qualcuno ha messo in dubbio la praticità di questa mossa,» stava dicendo. «Amici e compagni, vi assicuro che per quanto leali e amichevoli siano le nazioni nostre sorelle, non possono offrirci il prestigio! Più ci affidiamo a loro per una guida, più diminuisce la nostra statura tra le nazione africane.» Nambey Faranah levò un dito vibrante. «Non è del tutto corretto, Compagno Shgawe!» Shgawe lo ignorò «Per questa ragione ho acquistato diciotto armi americane. Ammetto che sono ingombranti e sorpassate. Ma sono tuttora strumenti terribili, ed esigono rispetto. Con diciotto missili intercontinentali pronti contro qualsiasi attacco, noi consolidiamo la nostra posizione di leader dell’Africa Nera.» Ci fu un altro scroscio di applausi. Adoui Shgawe si sporse in avanti e fissò mitemente l’assemblea. «E questo conclude il mio discorso. Risponderò alle domande della platea… Ah, Compagno Bouassede.» Il Compagno Bouassede, un vecchio fragile con una vaporosa barba bianca, si levò in piedi. «Molto bene, queste grandi armi, ma contro chi desideriamo usarle? Di che utilità possono essere a noi che non conosciamo queste cose?» Shgawe annuì con enorme benevolenza. «Una domanda saggia, Compagno. Posso soltanto rispondere che non si può mai sapere da che direzione può colpire un insano militarismo.» Faranah scattò in piedi. «Posso rispondere io alla domanda, Compagno Shgawe?» «L’assemblea ascolterà le tue opinioni con rispetto,» dichiarò Shgawe cortesemente. Faranah si girò verso il vecchio Bouassede. «Gli imperialisti sono con le spalle al muro, si nascondono nelle loro fatiscenti roccaforti, ma possono ancora radunare le forze per un ultimo balzo febbrile, se dovessero vedere un’occasione di profitto.» Shgawe riprese la parola. «Il Compagno Faranah si è espresso con il suo abitudinale, instancabile entusiasmo.» «Ma non va completamente oltre le nostre capacità mantenere questi congegni?» Domandò Bouassede. Sghawe annuì. «Viviamo in un ambiente in continuo mutamento. In questo momento è così. Ma fino a quando non saremo in grado di agire da soli, i nostri alleati russi ci hanno offerto molti validi servizi. Ci porteranno grandi draghe aspiranti e collocheranno i tubi di lancio nella sabbia delle nostre coste soggette alla marea. Si sono anche impegnati a fornirci una nave appositamente progettata per le provviste di ossigeno liquido e carburante.» «Queste sono tutte sciocchezze,» ringhiò Bouassede. «Dobbiamo pagare per questa nave; non è un regalo. Lo stesso denaro potrebbe essere speso meglio per costruire strade e comprare bestiame.» «Il Compagno Bouassede non ha considerato i fattori immateriali coinvolti,» dichiarò Sghawe con serenità. «Ah, Compagno Maguemi. La tua domanda, prego.» Il Compagno Maguemi era un giovane serio e occhialuto in abito nero. «Esattamente, quanti immigranti cinesi sono previsti?» Sghawe guardò verso Faranah con la coda dell’occhio. «La proposta è fino a ora puramente teorica, e probabilmente…» Faranah saltò in piedi. «È un programma di grande urgenza. Qualunque sia il numero di Cinesi necessari, daremo loro il benvenuto.» «Questo non risponde alla mia domanda,» insistette freddamente Maguemi. «Cento tecnici capaci potrebbero infatti essere utili. Centomila contadini, una colonia di alieni in mezzo a noi, potrebbero solo arrecarci danno.» Shgawe annuì gravemente. «Il Compagno Maguemi ha messo in luce una difficoltà molto importante.» «Niente affatto,» esclamò Faranah. «I presupposti del Compagno Maguemi sono scorretti. Cento, centomila, un milione, dieci milioni, qual è la differenza? Siamo tutti Comunisti, e stiamo lottando per lo stesso scopo!» «Non sono d’accordo,» gridò Maguemi. «Dobbiamo evitare soluzioni dottrinali ai nostri problemi.» Se veniamo sommersi dalla marea asiatica, la nostra voce sarà soffocata.» Un altro giovane, magro come un uccello affamato, con il volto sottile e il naso affilato, si alzò. «Il Compagno Maguemi non ha il senso della proiezione storica. Ignora gli insegnamenti di Marx, Lenin, e Mao. Un vero Comunista non bada alla razza e alla geografia.» «Io non sono un vero Comunista,» dichiarò Maguemi freddamente. «Non ho mai fatto un’ammissione tanto umiliante. Considero gli insegnamenti di Marx, Lenin, e Mao, ancora più obsoleti delle armi americane delle quali il Compagno Shgawe ci ha poco saggiamente gravati.» Adoui Shgawe sorrise. «Possiamo tranquillamente procedere oltre l’argomento dell’immigrazione cinese, poiché con ogni probabilità non avverrà mai. Poche centinaia di tecnici, come suggerisce il Compagno Maguemi, naturalmente saranno benvenute. Un programma più esteso creerebbe certamente delle difficoltà.» Nambey Faranah guardò torvo il pavimento. Shgawe continuò a parlare con voce suadente, e di lì a poco rinviò il Parlamento a due giorni dopo. Keith ritornò nella sua stanza al des Tropiques, si mise comodo sul divano e rifletté sulla sua posizione. Non poteva essere soddisfatto delle sue prestazioni fino a quel momento. Aveva commesso un grave errore con Doutoufsky, un errore che poteva benissimo avere destato i suoi sospetti. Di certo aveva poche ragioni per essere ottimista. Due giorni dopo Adoui Shgawe riapparve nella Grande Camera, per parlare di una faccenda ordinaria connessa all’industria di conserve alimentari amministrata dallo Stato. Nambey Faranah non poté trattenere un’allusione maligna: «Finalmente vediamo un utilizzo per gli impianti missilistici smessi dagli Americani: possono facilmente venire convertiti in impianti per la lavorazione del pesce, e possiamo sparare gli scarti nello spazio.» Shgawe levò le mani contro il mormorio delle risate di apprezzamento. «Questa non è altro che stupidità; ho spiegato l’importanza delle armi. Chi non ha esperienza in tali faccende non dovrebbe criticarle.» Faranah non era disposto a farsi sottomettere così facilmente. «Come possiamo non essere inesperti? Non conosciamo nulla di questi rifiuti americani, se ne stanno non visti a galleggiare nell’oceano. Non sappiamo nemmeno se esistono.» Shgawe scosse la testa con compassionevole disgusto. «Non ci sono estremi ai quali non arriveresti? Gli impianti sono a portata di chiunque voglia esaminarli. Domani farò uscire il Lumumba, e richiedo ora che l’insieme di tutti i membri faccia un viaggio di ispezione. Non ci saranno ulteriori giustificazioni per lo scetticismo, sempre che ora ce ne siano.» Faranah era stato ridotto al silenzio. Diede una petulante scrollata di spalle e si accomodò al suo posto. Quasi due terzi della Camera risposero all’invito di Shgawe, e il mattino seguente si imbarcarono sull’unica nave da guerra della marina di Lakhadi, un vecchio cacciatorpediniere francese. Suonarono le campane, sibilarono i fischietti. L’acqua ribollì a poppa e il Lumumba uscì da Tabacoundi Bay, per dirigersi a sud su lunghe onde azzurre. Il cacciatorpediniere percorse venti miglia restando parallelo alla costa battuta dal vento; poi all’orizzonte apparvero diciassette gobbe pallide, i tubi di lancio galleggianti. Ma il Lumumba virò verso la costa, dove il diciottesimo impianto era stato innalzato su cisterne galleggianti, spinto verso la spiaggia e calato sulla sabbia sotto il livello della marea. A fianco era ormeggiata una draga russa che pompava getti d’acqua sotto il tubo di lancio, spostando la sabbia e permettendo all’impianto di assestarsi. I Parlamentari erano in piedi sul ponte di prua del Lumumba, e fissavano l’indiscutibilmente impressionante cilindro. Tutti furono costretti ad ammettere che gli impianti esistevano. Il Premier Shgawe uscì sull’ala del ponte, con accanto il Grande Maresciallo dell’Esercito, Achille Hashembe, un uomo di sessant’anni duramente temprato, con i capelli grigi tagliati molto corti. Mentre Shgawe si rivolgeva ai Parlamentari, Hashembe li studiava con attenzione, un volto dopo l’altro. «L’elicottero assegnato a questo particolare impianto, è in riparazione,» disse Shgawe. «Visitare il missile stesso sarebbe scomoda impresa. Ma non importa; la nostra immaginazione ci sarà d’aiuto. Figuratevi diciotto di questi grandi armi disposte a intervalli regolari lungo le coste della nostra madrepatria; possiamo forse concepire una difesa più impressionante?» Keith, in piedi vicino a Faranah, lo udì mormorare qualcosa a quelli più vicini. Lo osservò con grande attenzione. Due ore prima i camerieri di bordo avevano servito tazze di caffè nero, e Keith, fermandosi quattro posti prima di Faranah, aveva lasciato cadere una Pillola dell’Impopolarità nella quarta coppa. Il cameriere aveva proseguito lungo la fila; ogni Parlamentare presente aveva preso una tazza, e Faranah aveva ricevuto la tazza con la pillola. Adesso il pubblico di Faranah lo guardava con infastidito disgusto e si allontanava. Una zaffata di odore raggiunse lo stesso Keith: i biochimici americani avevano fatto un lavoro efficace, pensò. Faranah puzzava davvero miseramente. E si guardava intorno sbalordito e perplesso. Il Lumumba circumnavigò lentamente l’impianto, che ormai aveva raggiunto una collocazione permanente nella sabbia. A bordo della draga gli ingegneri russi stavano sbloccando le pompe, prima di effettuare la stessa operazione sul secondo impianto. Un cameriere si avvicinò a Keith. «Adoui Shgawe desidera parlarti.» Keith seguì il cameriere al circolo ufficiali, e mentre entrava incontrò uno dei suoi colleghi sul punto di uscire. Adoui Shgawe si alzò in piedi e si inchinò gravemente. «Tamba Ngasi, siediti, prego. Gradisci un bicchiere di brandy?» Keith scosse bruscamente la testa per una frequente idiosincrasia di Ngasi. «Conosci il Grande Maresciallo Hashembe?» chiese Shgawe educatamente. Keith era stato istruito esaurientemente per quanto possibile, ma su quel punto non aveva alcuna informazione. Eluse la domanda. «Ho un’alta stima delle capacità del Grande Maresciallo.» Hashembe gli rispose con un breve cenno del capo, ma non disse nulla. «Colgo l’occasione,» disse Shgawe, «per sapere se sei solidale con il mio programma, ora che hai avuto l’opportunità di osservarlo più da vicino.» Keith si prese un momento per riflettere. Nelle parole di Shgawe si nascondeva l’implicazione di un precedente disaccordo. Si immedesimò nella parte di Tamba Ngasi, e parlò esprimendo le opinioni che ci si sarebbe aspettati da lui. «C’è troppo spreco, troppa influenza straniera. Abbiamo bisogno di acqua per le terre aride, abbiamo bisogno di medicine per il bestiame. Queste cose mancano, e interi tesori vengono sperperati per le costruzioni idiote di Fejo.» Con la coda dell’occhio vide Hashembe stringere appena gli occhi. Approvazione? Shgawe rispose, con studiata affabilità. «Rispetto la tua argomentazione, ma c’è altro da considerare: i Russi ci hanno prestato il denaro per costruire Fejo come simbolo di progresso. Non avrebbero permesso che il denaro venisse usato a scopi meno drammatici. Abbiamo accettato, e sento che ne abbiamo beneficiato. Oggi giorno il prestigio è altamente importante.» «Importante, per chi? A quale fine?» Borbottò Keith. «Perché dobbiamo aspirare a una gloria che non è nostra?» «Dichiari la sconfitta prima che la battaglia cominci,» disse Shgawe con maggior vigore. «Sfortunatamente questo è il nostro retaggio africano, e deve essere superato.» Keith, sempre recitando la parte di Ngasi, disse: «La mia patria è Kotoba, sulle acque stagnanti del Dasa, e la mia gente vive in capanne di fango. Non è ridicola l’idea della gloria per il popolo di Kotoba? Dateci acqua, bestiame e medicine.» La voce di Shgawe calò di tono. «Per il popolo di Kotoba, anch’io voglio acqua, bestiame e medicine. Ma voglio più di questo, e gloria forse è una ben misera parola da usare.» Hashembe si alzò in piedi, si inchinò rigidamente a Shgawe e a Keith, e lasciò la stanza. Shgawe scosse la testa rotonda. «Hashembe non può capire la mia visione. Lui vuole che scacci gli stranieri: i Russi, i Francesi, gli Indù, soprattutto i Cinesi.» Keith si alzò. «Io non sono del tutto contrario ai tuoi punti di vista. Forse hai dei documenti che posso leggere?» Mosse con disinvoltura un passo all’interno della stanza. Shgawe scrollò le spalle e guardò tra le sue carte. Keith sembrò inciampare, e con le nocche sfiorò la parte posteriore del collo grassoccio di Shgawe. «Ti chiedo perdono, Eccellenza,» disse Keith. «Sono maldestro.» «Non importa,» disse Shgawe. «Ecco: questo e questo, carte che spiegano le mie idee per lo sviluppo di Lakhadi e della Nuova Africa.» Sbatté le palpebre. Keith prese le carte, le esaminò. Gli occhi di Shgawe si chiusero pesantemente mentre la droga iniettatagli sottopelle da Keith si diffondeva nel suo corpo. Keith si mosse in fretta. Shgawe portava i capelli cosparsi di olio a ricci grossi e corti; alla base di uno dei ricci Keith fissò una pallottolina nera non più grande di un granello di riso, poi si tirò indietro e si rimise a leggere le carte. Hashembe rientrò nella stanza. Si fermò, spostò lo sguardo da Shgawe a Keith. «Sembra che si sia appisolato,» disse Keith e continuò a leggere. «Adoui Shgawe!» lo chiamò Hashembe. «Stai dormendo?» Le palpebre di Shgawe vibrarono; tirò un profondo sospiro, alzò gli occhi. «Hashembe… Devo avere sonnecchiato. Ah, Tamba Ngasi. Quelle carte, puoi tenerle, e spero che in Parlamento ti comporterai in modo solidale riguardo alle mie proposte. Sei un uomo influente, e dipendo dal tuo supporto.» «Terrò a cuore le tue parole, Eccellenza.» Lasciando il circolo ufficiale Keith salì rapidamente sul ponte volante. Il Lumumba adesso stava risalendo la costa verso Fejo. Keith toccò uno degli interruttori interni, e la voce di Shgawe attraversò il suo canale uditivo: «…è cambiato, e in complesso è diventato un uomo più ragionevole. Non ho prove al riguardo, oltre a ciò che percepisco in lui.» La voce di Hashembe gli giunse più debolmente: «Sembra che non si ricordi di me, ma molti anni fa, quando apparteneva alla Società degli Uomini Leopardo, ho catturato lui e una dozzina dei suoi compagni a Engassa. Ha ucciso due dei miei uomini ed è scappato, ma non gli porto rancore.» «Ngasi è un uomo che merita un’attenta considerazione,» disse Shgawe. «È più acuto di quanto sembri, e non ha molto del capotribù di una terra di confine, come vorrebbe farci credere.» «Forse no,» disse Hashembe. Keith interruppe la connessione, parlò per il codificatore: «Sono a bordo del Lumumba, siamo appena andati a dare un’occhiata agli impianti missilistici. Ho attaccato la mia trasmittente numero uno alla persona di Adoui Shgawe; adesso state intercettando le conversazioni di Shgawe. Io non mi azzardo ad ascoltare; potrebbero scoprirmi a causa della risonanza. Se capita qualcosa di interessante, fatemelo sapere.» Fece scattare l’interruttore; l’impulso dell’informazione sfrecciò fino al satellite e rimbalzò giù a Washington. Il Lumumba entrò a Tabacoundi Bay e attraccò. Keith ritornò all’Hotel des Tropiques, si fece portare al secondo piano dall’ascensore scintillante, percorse a lunghi passi il corridoio di seta e marmo e arrivò alla porta della sua stanza. Due circostanze gli salvarono la vita: l’abitudine inveterata di non oltrepassare mai incautamente una porta, e il radar negli amuleti alle orecchie. La prima lo mise in guardia; la seconda lo scagliò di lato e indietro, mentre il punto occupato prima dalla sua faccia veniva attraversato da una pioggia di piccoli aghi di vetro che colpirono tintinnando la parete opposta e caddero a terra in frammenti. Keith si rimise in piedi, guardò attentamente nella stanza. Era vuota. Entrò e chiuse la porta. Una catapulta aveva lanciato gli aghi, un meccanismo piuttosto semplice. Qualcuno nell’Hotel sarebbe stato nei paraggi per controllare l’accaduto e per rimuovere la catapulta, necessariamente in brevissimo tempo. Keith corse alla porta, l’aprì piano, guardò nel corridoio. Vuoto, ma già si sentiva rumore di passi. Lasciò la porta aperta e si appiattì contro la parete. I passi si fermarono. Keith udì respirare. Sulla soglia apparve la punta di un naso; si mosse interrogativamente a destra e a sinistra. Poi ecco tutto il volto che si girò e guardò in faccia a Keith. La bocca si aprì in un sussulto, poi si contrasse in una smorfia quando le mani di Keith si alzarono a stringere il collo. La bocca aperta non emise alcun suono. Keith tirò l’uomo nella stanza e chiuse la porta. Era un mulatto, di circa quarant’anni. Le guance grasse erano gonfie e cadenti, il naso un becco pieno di protuberanze. Keith lo riconobbe: Corty, il suo contatto originario a Fejo. Lo guardò profondamente negli occhi; erano arrossati e le pupille erano punte di spillo; lo sguardo sembrava velato. Keith trasmise una scarica di elettricità nel corpo simile a gomma. Corty aprì la bocca in agonia, ma non gridò. Keith fece per parlare, ma Corty lo indusse al silenzio con un gesto disperato. Prese la matita dalla tasca di Keith e scribacchiò in inglese: «Cinesi, mi hanno messo un circuito nella testa, mi fanno impazzire.» Keith lo fissò. Corty improvvisamente spalancò gli occhi. Lanciando un urlo afono portò le mani ad artiglio alla gola di Keith, tentando di stringerla. Keith lo uccise con una scarica elettrica e rimase a guardare il corpo afflosciato a terra. Che il cielo aiuti gli agenti americani che cadono in mano ai Cinesi, pensò Keith. Gli avevano fatto passare dei fili nel cervello, nella sede dei processi connessi al dolore; poi impartendo ordini e ascoltando attraverso dei transistor, potevano punzecchiare, punire, o condurre alla frenesia furiosa secondo la loro volontà. Quell’uomo era più felice da morto. I Cinesi avevano scoperto la sua identità. Forse qualcuno lo aveva visto piazzare l’intercettatore su Shgawe? O Doutoufsky aveva fatto un’allusione esplicita? Oppure — ma era la cosa meno probabile — i Cinesi desideravano semplicemente toglierlo di mezzo, come Africano isolazionista? Keith guardò nel corridoio, e vide che era deserto. Fece rotolare fuori il cadavere, e ispirato da un macabro capriccio lo trascinò per i piedi fino all’ascensore e lo spedì giù nell’atrio. Ritornò nella sua stanza in preda alla depressione. Nord contro Est contro Sud contro Ovest: una guerra a quattro poli. Il pensiero gli corse a tutte le battaglie, le campagne, le tragedie: sofferenze superiori a ogni calcolo. E a quale scopo? La finale pacificazione della Terra? Improbabile, considerando in milioni di anni ancora a venire. E allora perché lui, James Keith, cittadino americano, era mascherato da Tamba Ngasi, e correva il rischio di perdere la vita e di ritrovarsi i centri del dolore del cervello attraversati da fili elettrici? Le riflessioni riportarono Keith a una risposta evidente: tutta la storia umana è condensata nello spazio vitale di ogni individuo. Ogni uomo può godere dei trionfi o patire le sconfitte di tutta la razza umana. Carlo Magno era morto da grande eroe, anche se il suo impero si era immediatamente diviso in frammenti. Ogni uomo deve vincere la sua vittoria personale, conquistare la sua meta unica ed egoistica. Altrimenti, la speranza non poteva esistere. Il cielo sopra il fantastico profilo di Fejo si tinse di un porpora fumoso. Luci colorate ammiccavano nella piazza. Keith andò alla finestra, guardò fuori il fantastico cielo al crepuscolo. Non voleva avere più niente a che fare con quella faccenda; se fosse volato subito a casa, avrebbe potuto salvarsi la vita. Altrimenti… pensò a Corty. Nella sua mente scattò un collegamento. La voce di Carl Sebastiani parlò senza emettere il minimo suono ma aspra e pressante: «Adoui Shgawe è morto… assassinato due minuti fa. La notizia ci è giunta grazie alla tua trasmittente numero uno. Vai a palazzo, agisci con decisione. Questo è un evento critico.» Keith si alzò, provò gli accumulatori. Fece scorrere indietro la porta, guardò nel corridoio. Due uomini nella tunica bianca della Milizia di Lakhadi erano vicino all’ascensore. Keith uscì e si diresse verso di loro. I due uomini tacquero e lo osservarono avvicinarsi. Keith fece un cenno con austera cortesia; si dispose a scendere ma lo fermarono. «Signore, hai avuto una visita questa sera? Un mulatto di mezza età?» «No. Cosa significa tutto questo?» «Stiamo cercando di identificare quest’uomo. È morto in strane circostanze.» «Non so niente di lui. Fatemi passare; sono il Parlamentare Tamba Ngasi.» Gli uomini della Milizia si inchinarono educatamente; Keith scese nell’atrio con l’ascensore. Attraversò di corsa la piazza, passò davanti ai sei guerrieri di basalto, si avvicinò alla facciata del palazzo. Salì i bassi gradini, entrò nel vestibolo. Un usciere in uniforme rossa e argento, con un copricapo piumato munito di nasale d’argento, gli si fece incontro. «Buona sera, signore.» «Sono Tamba Ngasi, Parlamentare. Devo vedere Sua Eccellenza, immediatamente.» «Spiacente, signore, il Premier Shgawe ha dato ordine di non essere disturbato questa sera.» Keith puntò un dito verso l’atrio. «E allora chi è quello?» L’usciere guardò, Keith gli batté le nocche contro la gola, gli premette le giunture nervose sotto le orecchie fino a che smise di lottare, poi lo trascinò nel suo cubicolo. Sbirciò nell’atrio. Alla scrivania della reception era seduta una giovane donna attraente in un lava-lava polinesiano. Aveva la pelle dorata, e i capelli erano raccolti in una soffice piramide nera. Keith entrò, e la giovane gli sorrise cortesemente. «Il Premier Shgawe mi sta aspettando,» disse Keith. «Dove posso trovarlo?» «Spiacente, signore, ha appena dato ordine che non vuole essere disturbato.» «Appena dato ordine?» «Sì, signore.» Keith annuì assennatamente, poi indicò il telefono sulla scrivania. «Sii così gentile da chiamare il Grande Maresciallo Achille Hashembe, per una questione urgente.» «Il tuo nome, signore?» «Sono il Parlamentare Tamba Ngasi. Fai in fretta.» La ragazza si chinò sul telefono. «Chiedigli di raggiungere subito me e il Premier Shgawe,» ordinò Keith brevemente. «Ma, signore…» «Il Premier Shgawe mi sta aspettando. Chiama subito il Maresciallo Hashembe.» «Sì, signore.» La ragazza premette un bottone. «Il Grande Maresciallo Hashembe dal Palazzo di Stato.» «Dove posso trovare il Premier?» chiese Keith avviandosi. «È nel salotto del secondo piano, con i suoi amici. Un fattorino ti accompagnerà.» Keith attese; meglio pochi secondi di ritardo che un’addetta alla reception isterica. Arrivò il fattorino, un ragazzo di sedici anni con una lunga tunica di velluto nero. Keith lo seguì su per una rampa di scale fino a due battenti di legno intagliato. Il fattorino fece per aprire la porta, ma Keith lo fermò. «Ritorna ad aspettare il Grande Maresciallo Hashembe e portalo subito qui.» Il fattorino si ritirò esitante, guardando da sopra la spalla. Keith non gli fece più attenzione. Spinse piano il saliscendi. La porta era chiusa a chiave. Keith premette una minima quantità di esplosivo plastico sullo stipite della porta, vi attaccò un detonatore e si appiattì contro la parete. Simultaneamente all’esplosione, Keith si gettò tra le schegge di legno, spalancò la porta con una spinta, ed entrò. Tre uomini sbigottiti lo guardarono. Uni di essi era Adoui Shgawe. Gli altri due erano Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese, e Vasif Doutoufsky, Capoufficio del Grande Parlamento di Lakhadi. Doutoufsky era fermo con il pugno destro chiuso, leggermente sporto in avanti. Sul dito medio scintillava la pietra di un grosso anello. Dei passi risuonarono per il corridoio: l’usciere e un guerriero nell’uniforme di cuoio nero della Guardia Eletta Corvina. Shgawe chiese mitemente: «Che cosa significa tutto questo?» L’usciere esclamò con ardore: «Quest’uomo mi ha aggredito; è venuto con propositi malvagi!» «No,» protestò Keith confuso. «Temevo che Tua Eccellenza fosse in pericolo; adesso vedo che ero stato male informato.» «Gravemente male informato,» disse Shgawe. Fece un cenno con le dita. «Ora vattene, ti prego.» Doutoufsky si chinò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Shgawe. Lo sguardo di Keith si soffermò sulla mano del Premier, anch’essa adorna di un pesante anello. «Tamba Ngasi, rimani se vuoi; desidero conferire con te.» Congedò l’usciere e il guerriero. «Quest’uomo è degno di fiducia. Potete andare.» I due uomini si inchinarono e scomparvero. La confusione nella mente di Keith era svanita. Shgawe fece per alzarsi in piedi, Doutoufsky avanzò furtivamente in atteggiamento pensoso. Keith si gettò sul tappeto; il raggio laser della sua torcia attraversò la faccia di Doutoufsky e proseguì contro la tempia di Shgawe. Con un urlo gracchiante Doutoufsky si premette le mani contro gli occhi devastati; il raggio del suo stesso anello gli bruciò un solco sulla faccia. Shgawe era caduto sulla schiena. Il corpo grasso tremava, si contraeva e fremeva. Keith li colpì di nuovo col raggio della torcia, e morirono entrambi. Hsia Lu-Minh, schiacciato contro la parete, se ne stava immobile, con gli occhi sgranati per l’orrore. Keith balzò in piedi, corse avanti. Hsia Lu-Minh non oppose resistenza quando Keith gli iniettò dell’anestetico nel collo. Keith si ritrasse ansimando, e ancora una volta il radar incorporato gli salvò la vita. Un impulso, nemmeno registrato dal suo cervello, gli fece contrarre i muscoli e lo scagliò di lato. Il proiettile gli attraversò la veste scalfendogli la pelle. Un altro proiettile gli passò accanto fischiando. Keith vide Hashembe in piedi sulla soglia, e dietro di lui il fattorino sconvolto. Hashembe prese con comodo la mira. «Aspetta,» gridò Keith. «Non sono stato io!» Hashembe sorrise debolmente, e il dito premette il grilletto. Keith si buttò a terra e diresse il raggio laser sul polso di Hashembe. La pistola cadde e Hashembe rimase fermo, eretto, un po’ stordito. Keith corse avanti e lo gettò sul pavimento; afferrò il fattorino e gli iniettò del gas anestetico nella nuca, poi lo tirò nella stanza e chiuse la porta con un colpo. Si girò e vide Hashembe che tentava di raggiungere la pistola con la mano sinistra. «Fermo!» gridò Keith con voce rauca. «Ti ho detto che non sono stato io.» «Hai ucciso Shgawe.» «Questo non è Shgawe.» Raccolse la pistola. «È un agente cinese, a cui hanno plasmato la faccia in modo che avesse lo stesso aspetto di Shgawe.» Hashembe era scettico. «È difficile da credere.» Abbassò gli occhi sul cadavere. «Adoui Shgawe non era grasso come quest’uomo.» Si piegò, sollevò le dita grassocce del morto, poi si raddrizzò. «Questo non è Adoui Shgawe!» Esaminò Doutoufsky. «Il Capoufficio, un rinnegato polacco.» «Pensavo che lavorasse per i Russi. Un errore che mi è quasi costato la vita.» «Dov’è Shgawe?» Keith girò lo sguardo per la stanza. «Dev’essere qui vicino.» Nel bagno trovarono il cadavere di Shgawe. Un foglio di plastica al fluorosilicio rivestiva la vasca, nella quale era stato versato acido fluoridrico da due grandi damigiane per liquidi corrosivi. Il corpo di Shgawe giaceva supino nella vasca, ormai liquefatto, irriconoscibile. Soffocati dalle esalazioni, Hashembe e Keith uscirono barcollando e sbatterono la porta. La compostezza di Hashembe era svanita. Vacillò verso una sedia, e stringendosi il braccio ferito mormorò: «Io non capisco nulla di questi delitti.» Keith diresse lo sguardo sulla forma accasciata dell’Ambasciatore cinese. «Shgawe era troppo forte per loro. O forse era venuto a sapere del grande piano.» Hashembe scosse la testa intontito. «I Cinesi vogliono l’Africa,» disse Keith. «È molto semplice. L’Africa ha spazio sufficiente per un bilione di Cinesi. Tra cinquant’anni potrebbe starcene comodamente un altro bilione.» «Se è vero,» disse Hashembe, «è mostruoso. E Shgawe, che non avrebbe tollerato nulla di tutto ciò, è morto.» «Di conseguenza,» disse Keith, «dobbiamo sostituire Shgawe con un leader che intenda perseguire gli stessi scopi.» «E dove lo troviamo un leader così?» «Qui. Io sono quel leader. Tu controlli l’esercito; non può esserci opposizione.» Hashembe restò seduto due minuti a fissare nel vuoto. Poi si alzò in piedi. «Va bene. Tu sei il nuovo Premier. Se sarà necessario scioglieremo il Parlamento. Ad ogni modo non è altro che un recinto per galline starnazzanti.» L’assassinio di Adoui Shgawe sconvolse la nazione e l’Africa intera. Quando il Grande Maresciallo Achille Hashembe comparve davanti al Parlamento, e annunciò che i suoi membri potevano scegliere se eleggere Tamba Ngasi Premier di Lakhadi, oppure sottomettersi allo scioglimento e alla legge marziale, Tamba Ngasi venne eletto senza esitazione. Keith, indossando l’uniforme nera e oro dei Leoni Eletti, si rivolse alla Camera. «In generale, la mia politica è identica a quella di Adoui Shgawe. Egli sperava in una forte Africa Unita; questa è anche la mia speranza. Egli tentava di evitare la dipendenza dalle potenze straniere, accettando in compenso l’aiuto sincero che gli veniva offerto. Questa è anche la mia politica. Adoui Shgawe amava la sua terra natia, e cercava di fare di Lakhadi un lume ispiratore di tutta l’Africa. Io spero di fare altrettanto. Gli impianti missilistici verranno piazzati esattamente come Adoui Shgawe aveva progettato, e i nostri tecnici di Lakhadi continueranno a imparare come funzionano quei congegni.» Le settimane passarono. Keith rinnovò il personale del palazzo, e fece passare ogni pollice quadrato di pavimenti, pareti, soffitti, mobili e impianto eliminando tutte le cellule spia. Sebastiani gli aveva mandato tre nuovi operativi che funzionassero come collegamenti e provvedessero alla consulenza tecnica. Keith non comunicava più direttamente con Sebastiani; senza la diretta connessione con il suo superiore, la distinzione tra James Keith e Tamba Ngasi talvolta sembrava sfocare. Keith era consapevole di questa tendenza, e faceva esercizi pratici contro la confusione. «Ho assunto il nome di quest’uomo, la sua faccia, la sua personalità. Devo pensare come lui, devo agire come lui. Ma non posso essere quell’uomo!» Ma qualche volta, quand’era particolarmente stanco, l’incertezza lo angustiava. Tamba Ngasi? James Keith? Quale era la vera personalità? Due mesi trascorsero tranquillamente, e anche un terzo. La calma nell’occhio del ciclone, pensò Keith. Di tanto in tanto il protocollo esigeva che si incontrasse e conferisse con Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese. Nel corso di tali occasioni, prevalevano il decoro e la formalità; l’assassinio di Adoui Shgawe non sembrava altro che il residuo di un sogno spiacevole. «Un sogno,» pensava Keith, e la parola gli riecheggiava nella mente. «Sto vivendo in un sogno.» In un subitaneo spasmo di terrore chiamò Sebastiani. «Mi sto esaurendo, sto perdendo me stesso.» La voce di Sebastiani era fredda e ragionevole. «Sembra che tu stia facendo un bel lavoro.» «Uno di questi giorni,» disse Keith cupamente, «mi parlerai in Inglese e io risponderò in Swahili. E allora…» «E allora?» ribatté Sebastiani. «Niente di importante,» disse Keith. E allora saprai che quando James Keith e Tomba Ngasi si sono incontrati tra i cespugli di rovi sulla sponda del fiume Dasa, Tamba Ngasi se ne è andato vivo, e gli sciacalli hanno divorato il corpo di James Keith. Sebastiani diede a Keith un suggerimento lievemente inopportuno: «Trovati una di quelle belle ragazze di Fejo, e consuma un po’ della tua energia nervosa.» Keith respinse cupamente l’idea. «Sentirebbe i collegamenti scattare e ronzare, e si chiederebbe che cosa l’ha corteggiata.» Arrivò il giorno in cui finalmente gli impianti missilistici furono piazzati. Diciotto grandi cilindri di cemento, lambiti dalle lunghe onde dell’Atlantico, erano allineati lungo la costa di Lakhadi. Keith istituì un giorno di festa nazionale per celebrare l’installazione, e presiedette a un banchetto all’aperto nella piazza davanti alla Casa del Parlamento. I discorsi si susseguirono per ore, inneggiando alla nuova grandezza di Lakhadi. «Una nazione un tempo soggetta al crudele giogo imperialistico, e ora in possesso di una cultura superiore a qualunque altra a occidente della Cina!» furono le parole di Hsia Lu-Minh, accompagnate da un’occhiataccia a Leon Pashenko, l’Ambasciatore russo. Pashenko, a sua volta, si espresse con parole altrettanto mordaci. «Con l’aiuto dell’Unione Sovietica, Lakhadi si trova assolutamente al sicuro dalle manovre offensive dell’Occidente. Raccomandiamo ora che tutti i tecnici, eccettuati quelli attualmente impegnati nei programmi di addestramento, vengano ritirati. La manodopera africana deve foggiare il futuro dell’Africa!» James Keith ascoltava le loro voci solo parzialmente, e, senza che ne avesse l’intenzione, nella sua mente si formò uno schema dalla prospettiva così magnifica da sorprenderlo. Era una questione politica; poteva gire senza prima consultare Sebastiani? Ma era Tamba Ngasi almeno quanto era James Keith. E quando si alzò per rivolgersi all’assemblea, fu Tamba Ngasi a parlare. «I Compagni Pashenko e Hsia hanno parlato, e io ho ascoltato con interesse. Soprattutto mi sono graditi i sentimenti espressi dal Compagno Pashenko. I cittadini di Lakhadi devono operare in maniera eccellente in ogni campo, senza ulteriori controlli dall’estero. Tranne per quanto riguarda una faccenda critica. Non siamo ancora in grado di fabbricare le testate per il nostro nuovo sistema di difesa. Colgo quindi questa felice occasione per richiedere ufficialmente all’Unione Sovietica i materiali esplosivi necessari.» Gli applausi si levarono alti, e mentre Hsia Lu-Minh batteva le mani con zelo, Leon Pashenko mostrava molto meno entusiasmo. Dopo il banchetto fece visita a Keith, e si espresse con molta schiettezza. «Mi rincresce, ma la politica stabilita dall’Unione Sovietica è di mantenere il controllo su tutti i suoi congegni nucleari. Non possiamo aderire alla tua richiesta.» «Peccato,» disse Keith. Leon Pashenko parve sorpreso, essendosi aspettato proteste e discussioni. «Peccato, perché adesso sono costretto a rivolgere la stessa richiesta ai Cinesi.» Leon Pashenko sottolineò i pericoli contingenti. «I Cinesi sono padroni duri!» Keith congedò con un inchino il perplesso Russo. Inviò immediatamente un messaggio all’Ambasciata cinese, e mezz’ora dopo apparve Hsia Lu-Minh. «Le idee espresse questa sera dal Compagno Pashenko mi sembravano valide,» disse Keith. «Suppongo che tu sia d’accordo.» «Di tutto cuore,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «Naturalmente però il programma per la riforma agricola di cui abbiamo discusso a lungo non verrebbe sottoposto a tali restrizioni.» «Assolutamente sì,» disse Keith. «Comunque potrebbe venire iniziato un limitatissimo programma sperimentale a condizione che la Democrazia Popolare Cinese fornisca le testate, immediatamente e rapidamente, per i nostri diciotto missili.» «Devo comunicare con il mio governo,» disse Hsia Lu-Minh. «Sei pregato di fare presto,» disse Keith, «sono impaziente.» Hsia Lu-Minh ritornò il giorno seguente. «Il mio governo è d’accordo di armare i missili, a condizione che il programma sperimentale previsto consista di almeno duecentomila tecnici agricoli.» «Impossibile! Come possiamo sopportare un’incursione tanto numerosa?» La cifra fu infine stabilita a centomila, con solo sei missili forniti delle testate nucleari. «Questo accordo segnerà un’epoca,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «È l’inizio di un processo rivoluzionario,» confermò Keith. Ci furono ulteriori dispute per concordare la consegna delle testate contemporaneamente all’arrivo dei tecnici, e le negoziazioni quasi saltarono. Hsia Lu-Minh si mostrò afflitto di scoprire che Keith esigeva un’effettiva e immediata consegna delle testate, e non si accontentava di una dichiarazione meramente simbolica dell’intento. Keith, a sua volta, espresse un moto di sorpresa quando Hsia Lu-Minh sollevò delle obiezioni alla clausola condizionale che concedeva ai «tecnici» che sarebbero arrivati un visto di soli sei mesi, contrassegnato TEMPORANEO, con opzione di rinnovo a discrezione del governo di Lakhadi. «Come possono i tecnici identificarsi con i problemi? Come possono imparare ad amare il suolo che devono coltivare?» Le difficoltà furono infine appianate; Hsia Lu-Minh si accomiatò. Quasi subito Keith ricevette una chiamata da Sebastiani, che aveva soltanto allora appreso della trattativa in corso tra Cina e Lakhadi. La voce di Sebastiani era prudente, titubante, indagatrice. «Non capisco bene i risvolti razionali di questo progetto.» Quando Keith era stanco, l’elemento Tamba Ngasi della sua personalità esercitava un’influenza maggiore. La voce che rispose a Sebastiani risuonò impaziente, aspra e rude alle orecchie dello stesso Keith. «Non ho dato il via a questo progetto con razionalità, ma con intuito.» La voce di Sebastiani si fece ancora più prudente. «Non riesco a vedere i vantaggi di questo affare.» Keith, o Tamba Ngasi, qualunque fosse la personalità dominante, rise. «I Russi stanno lasciando Lakhadi.» «Mai Cinesi mantengono il controllo. In confronto ai Cinesi, i Russi sono garbati conservatori.» «Ti sbagli. Io ho il controllo!» «Benissimo, Keith,» disse Sebastiani meditabondo. «Capisco che dobbiamo avere fiducia nel tuo giudizio.» Keith — o Tamba Ngasi — diede una risposta brusca, e se ne andò a letto. Lì la tensione lo abbandonò, e James Keith restò sdraiato a fissare nel buio. Passò un mese. I Cinesi consegnarono due testate, trasportandole via aria dagli impianti di produzione di Ulan Bator. Elicotteri da carico le misero in posizione, e Keith rivolse un discorso trionfante a Lakhadi, all’Africa, e al mondo. «Da questo giorno in poi, Lakhadi, il timone dell’Africa, avrà diritto a un posto tra i consigli del mondo. Abbiamo ricercato il potere, non soltanto per il desiderio di potere, ma per assicurare all’Africa la rappresentanza di cui il nostro popolo godeva solo nominalmente. Il Sud non deve più sottomettersi all’Ovest, al Nord, o all’Est!» Il primo contingente di «tecnici» cinesi arrivò tre giorni dopo: mille giovani uomini e donne, uniformemente vestiti in tuta blu e scarpe di tela bianca. Marciarono in plotoni disciplinati fino agli autobus, e vennero convogliati a una tendopoli vicina alle terre dove si sarebbero dovuti insediare. Quel giorno Leon Pashenko fece visita a Keith per consegnare una comunicazione confidenziale da parte del Presidente dell’URSS. Pashenko attese che Keith scorresse rapidamente lo scritto. «È necessario sottolineare,» diceva la comunicazione, «che il governo dell’URSS non vede positivamente l’espansione dell’influenza cinese a Lakhadi, e si ritiene libero di prendere le misure indispensabili a proteggere gli interessi dell’URSS.» Keith annuì lentamente. Levò gli occhi su Pashenko, che lo osservava con le labbra tirate in un sorriso inespressivo. Keith premette un bottone e parlò attraverso una griglia. «Fate entrare le telecamere della televisione, sto per trasmettere un comunicato importante.» Una squadra arrivò in fretta con tutto l’equipaggiamento. Il sorriso di Pashenko si fece ancora più immobile, la pelle parve rammollirsi. Il regista fece un segnale a Keith. «Siamo in onda.» Keith guardò dentro l’obiettivo. «Cittadini di Lakhadi, e Africani. Seduto accanto a me c’è Leon Pashenko, Ambasciatore dell’URSS. Mi ha appena omaggiato di una comunicazione ufficiale che tenta di interferire con la politica interna di Lakhadi. Colgo l’occasione per esprimere un pubblico rimprovero all’Unione Sovietica. Dichiaro che il governo di Lakhadi verrà influenzato solo da provvedimenti tesi a beneficiare i suoi cittadini, e che ogni ulteriore interferenza da parte dell’Unione Sovietica può condurre alla rottura delle relazioni diplomatiche.» Keith si inchinò cortesemente a Leon Pashenko, che per tutto il tempo in cui era stato inquadrato dalla telecamera aveva mantenuto una smorfia congelata sulla faccia. «Prego, accetta quest’annuncio come risposta ufficiale alla comunicazione di questa mattina.» Senza dire una parola, Pashenko si alzò in piedi e lasciò la stanza. Alcuni minuti più tardi Keith ricevette una comunicazione da Sebastiani. La voce silenziosa era più pungente di quanto Keith l’avesse mai sentita. «Cosa diavolo hai intenzione di fare? Pubblicità? Hai umiliato i Russi, forse hai messo fine alla loro presenza in Africa, ma hai considerato i rischi? Non per te stesso, non per Lakhadi, nemmeno per l’Africa, ma per il mondo intero?» «Non ho considerato tali rischi. Essi non concernono Lakhadi.» La voce di Sebastiani si incrinò per la rabbia. «Lakhadi non è il centro dell’universo solo perché tu vi sei stato assegnato! Da adesso in poi — questi sono ordini, bada — non muoverti senza prima consultare me!» «Ho sentito tutto quello che mi interessava,» disse Tamba Ngasi. «Non chiamarmi di nuovo, non cercare di interferire con i miei piani.» Staccò il ricevitore, sospirò, e si lasciò cadere nella poltrona. Poi sbatté gli occhi, e si drizzò a sedere mentre il ricordo della conversazione gli echeggiava nel cervello. Per un momento pensò di richiamare per cercare di spiegarsi, poi rinunciò all’idea. Di certo Sebastiani avrebbe pensato che era impazzito, quando invece era semplicemente troppo stanco, troppo teso. Così Keith si rassicurò. Il giorno seguente ricevette un rapporto da un gruppo di tecnici svizzeri, e fu preso dalla collera, sebbene le scoperte non facessero che confermare quello che si era aspettato. L’Ambasciatore cinese sfortunatamente scelse proprio quel momento per fargli visita, e venne fatto accomodare nell’ufficio del Premier. Con la faccia rotonda, cerimonioso, traboccante di affabilità, Hsia Lu-Minh si fece avanti. Mi prende per il capotribù di una terra sperduta, pensò l’uomo che ormai era interamente Tamba Ngasi, un uomo spietato come un caimano, astuto come uno sciacallo, oscuro come la giungla. Hsia Lu-Minh era pieno di complimenti benevoli. «Con quanta chiarezza hai compreso il corso del futuro! Non è solo un truismo affermare che le razze di colore di tutto il mondo condividono un comune destino.» «Davvero?» «Davvero! E io reco l’autorizzazione del mio governo a permettere il trasferimento a Lakhadi di un altro gruppo di lavoratori capaci e altamente addestrati!» «E cosa mi dici delle altre testate per i missili?» «Verranno sicuramente consegnate e imballate secondo il previsto.» «Ho cambiato idea,» disse Tamba Ngasi. «Non voglio più immigranti cinesi. Parlo a nome di tutta l’Africa. Coloro che si trovano già in questo paese devono andarsene, e così anche le missioni cinesi di Mali, Ghana, Sudan, Angola, della Federazione Congolese, praticamente di tutta l’Africa. I Cinesi devono lasciare l’Africa, completamente e irrevocabilmente. Questo è un ultimatum. Avete una settimana per acconsentire. Altrimenti Lakhadi dichiarerà guerra alla Repubblica Popolare Cinese.» Hsia Lu-Minh lo ascoltò esterrefatto, con la bocca spalancata a forma di ciambella per lo stupore. «Stai scherzando?» chiese con voce tremolante. «Credi che stia scherzando? Ascolta!» Di nuovo Tamba Ngasi fece chiamare la squadra televisiva, e di nuovo fece una dichiarazione pubblica. «Ieri ho ripulito il mio paese dai Russi; oggi caccio i Cinesi. Ci hanno aiutato a uscire dal caos post-coloniale, ma perché? Per perseguire i loro vantaggi. Non siamo gli sciocchi che credono.» Tamba Ngasi puntò un dito contro Hsia Lu-Minh. «Parlando a nome del suo governo, Hsia Lu-Minh ha graziosamente acconsentito. Partiranno subito. Lakhadi ora ha una robusta difesa, e non ha più bisogno della protezione di nessuno. Se qualcuno dovesse cercare di opporsi all’epurazione dell’influenza straniera, queste armi verranno usate all’istante, senza remore. Non posso parlare più chiaramente.» Si rivolse all’inerte Ambasciatore cinese. «Compagno Hsia, a nome dell’Africa ti ringrazio per la promessa di cooperazione, e mi impegno a fartela rispettare.» Hsia Lu-Minh uscì barcollando dalla stanza. Ritornò all’Ambasciata cinese e si sparò un colpo in testa. Otto ore dopo un aereo cinese arrivò a Fejo, carico di ministri, generali e assistenti. Tamba Ngasi li ricevette immediatamente. Ting Sieuh-Ma, principale teorico cinese, parlò con veemenza. «Ci mettete in una posizione intollerabile. Dovete revocare la vostra decisione!» Tamba Ngasi rise. «Avete solo una strada da percorrere. Dovete obbedire. Credete che i Cinesi trarrebbero vantaggio da una guerra con Lakhadi? Tutta l’Africa insorgerebbe contro di voi; vi trovereste di fronte a un disastro. E non dimenticate le nostre nuove armi. In questo momento sono puntate sulle zone più nevralgiche della Cina.» La risata di Ting Sieuh-Ma era beffarda. «È l’ultima delle nostre preoccupazioni. Credete che ci saremmo fidati a darvi delle testate attivate? Le vostre ridicole armi sono innocue come topolini.» Tamba Ngasi mostrò il rapporto svizzero. «Lo so. I detonatori: novantasei per cento piombo, quattro per cento scorie radioattive. L’idruro di litio, comunissimo idrogeno. Ci avete ingannato. Per questo intendiamo cacciarvi dall’Africa. In quanto alle testate, ho trattato con una potenza europea; proprio in questo momento stanno installando il materiale attivo in quei missili che voi sostenete di disprezzare. Non avete scelta. Andatevene dall’Africa entro una settimana, o preparatevi al disastro.» «È un disastro comunque,» disse Ting Sieuh-Ma. «Ma rifletti. Tu sei un uomo solo, noi siamo l’Est. Puoi davvero sperare di batterci?» Tamba Ngasi scoprì i denti di acciaio inossidabile in un ghigno da lupo. «Questo è ciò che spero.» Keith si appoggiò allo schienale della poltrona. La delegazione se n’era andata, e lui era seduto da solo nella sala delle conferenze. Si sentiva svuotato di ogni energia, fiacco e svogliato. Tamba Ngasi, almeno temporaneamente, era stato escluso. Keith pensò agli ultimi giorni, e sentì una fitta di terrore per la propria sconsideratezza. Era stata la sconsideratezza, piuttosto che Tamba Ngasi, ad avere umiliato e confuso due delle grandi potenze mondiali. Non l’avrebbero perdonato. Adoui Shgawe, un avversario relativamente mite, era stato dissolto in acido. Tamba Ngasi, fautore di una politica assolutamente intollerabile, difficilmente poteva aspettarsi di sopravvivere. Keith si accarezzò il mento, lungo e ruvido, e tentò di formulare un piano di sopravvivenza. Forse per una settimana poteva considerarsi al sicuro, mentre i suoi nemici decidevano un piano di attacco… Keith balzò in piedi. Perché avrebbe dovuto esserci una qualunque dilazione? Adesso i minuti erano preziosi, sia per i Russi che per i Cinesi; dovevano avere provveduto a ogni possibile eventualità. Lo schermo di comunicazione ronzò, e comparve il volto aggrottato del Grande Maresciallo Achille Hashembe, che parlò brevemente. «Non capisco i tuoi ordini. Perché dovremmo esitare adesso? Sbarazziamoci dei parassiti, rimandiamoli nella loro terra…» «Di che ordini stai parlando?» chiese Keith. «Di quelli che hai impartito cinque minuti fa davanti al palazzo, relativi agli immigrati cinesi.» «Capisco,» disse Keith. «Hai ragione. C’è stato un equivoco. Ignora quegli ordini, procedi come d’accordo.» Hashembe annuì con brusca soddisfazione; lo schermo si oscurò. Non ci sarebbe stata alcuna dilazione, pensò Keith. I Cinesi stavano già attaccando. Girò una manopola sullo schermo, e l’impiegata della reception alzò lo sguardo. Sembrava sorpresa. «Qualcuno è entrato nel palazzo negli ultimi cinque minuti?» «Solo tu stesso, signore… come hai fatto a salire così in fretta?» Keith interruppe la comunicazione. Andò alla porta, rimase in ascolto, e sentì il ronzio dell’ascensore in salita. Corse nella sua camera privata, aprì in fretta un cassetto. Le sue armi… sparite. Tradito da uno dei suoi servitori. Keith andò alla porta che dava sul giardino pensile. Dal giardino poteva arrivare fino alla piazza e fuggire, se avesse deciso così. Alle sue orecchie giunse il sommesso fluttuare di un suono. Keith uscì nel buio, scrutò il cielo. La notte era nuvolosa; si vedeva solo la tenebra. Ma il suo radar lo avvertì di un oggetto che stava scendendo, e il rilevatore di raggi infrarossi nella mano ne sentì il calore. Da dietro di lui, nella camera da letto, venne un altro rumore sommesso. Si girò, e vide se stesso attraversare prudentemente la soglia e guardarsi attorno nella stanza. Avevano fatto un buon lavoro, pensò Keith, considerato il breve tempo a disposizione. Quella versione di Tamba Ngasi era forse mezzo pollice più bassa di lui, la faccia era più piena, la pelle un’ombra più scura e non troppo abilmente sfumata. Si muoveva senza il naturale dondolio africano, su gambe più grosse e più corte di quelle di Keith. Illogicamente Keith pensò che per simulare un Negro, era meglio partire da un Negro. A quel riguardo, almeno, gli Stati Uniti avevano un vantaggio. Il nuovo Tamba lasciò la sua camera da letto. Keith scivolò vicino alla porta con l’intenzione di seguirlo e di attaccarlo a mani nude, ma proprio in quel momento scese dal cielo l’oggetto che aveva percepito con il radar: un mini-aereo, poco più di un seggiolino, oscillava sospeso a quattro aviolamine di metallo rotanti. L’oggetto atterrò delicatamente nel giardino buio; Keith si appiattì contro il muro, e sporse la testa da dietro un’anfora di coccio. L’uomo sceso dal cielo si avvicinò alla porta scorrevole, scivolò furtivo nella camera da letto. Keith osservava stupito. Ancora Tamba Ngasi, più snello e spigoloso del primo intruso. Questo Tamba sceso dal cielo girò rapidamente lo sguardo per la stanza, sbirciò dalla porta nel corridoio, e l’attraversò fiduciosamente. Keith lo seguì con cautela. Il Tamba sceso dal cielo avanzò a scatti lungo il corridoio, si fermò all’arcata che dava nello studio disposto su tre livelli. Keith non poté trattenere una silenziosa risata al pensiero della farsa di mortali equivoci che di lì a poco sarebbe necessariamente seguita. Tamba dal cielo balzò nello studio come un gatto. Istantaneamente ci fu un’esclamazione frenetica, il crepitio di un rumore mortale. Poi silenzio. Keith corse alla porta, e restando nell’ombra sbirciò nello studio. Tamba dal cielo teneva una specie di pistola o proiettore in una mano e un disco luccicante nell’altra, e procedeva rasente alla parete. Tamba gambe corte si era nascosto dietro una libreria, dove Keith poteva udirlo mormorare sottovoce. Tamba dal cielo fece un rapido balzo in avanti; da dietro la libreria uscì una scintillante linea di luce e ioni. Tamba dal cielo deviò il raggio con lo scudo e lanciò una granata che Tamba gambe corte gettò contro la libreria; la libreria esplose in avanti, e Tamba dal cielo balzò indietro per evitarla. Inciampò e cadde goffamente. Tamba gambe corte gli fu addosso, colpendolo con un’accetta che faceva scaturire fumo e scintille dovunque affondasse. Tamba dal cielo giaceva morto, la sua missione era stata un fallimento, la sua vita conclusa. Tamba gambe corte si alzò trionfante. Vide Keith e si lasciò sfuggire una gutturale imprecazione di sorpresa. Scese al secondo pianerottolo rimbalzando come una palla di gomma, con l’intenzione di aggirarlo. Keith corse fino al corpo di Tamba dal cielo, diede uno strattone alla sua arma, ma era intrappolata sotto il pesante corpo. Una linea di luce ionizzante gli passò sfrigolando davanti al viso. Si buttò a terra. Tamba gambe corte salì correndo gli scalini; Keith tirò furiosamente l’arma, ma non avrebbe fatto in tempo: la sua fine era giunta. Tamba gambe corte si arrestò di colpo. Sulla porta di fronte c’era un uomo snello dall’aspetto duro, in veste bianca: ancora un altro Tamba. Questo era uguale a Keith, pelle, fattezze e peso, identico tranne che per un’indefinibile differenza di espressione. Tutti e tre si fissarono reciprocamente stupefatti; Tamba gambe corte puntò il raggio elettrico. Il nuovo Tamba scivolò di lato come un’ombra, fendendo l’aria con il laser. Tamba gambe corte si gettò a terra, rotolò su se stesso, avanzò accovacciato. Il nuovo Tamba lo aspettò e ingaggiarono un corpo a corpo. Le scintille scoccavano dai piedi, mentre ognuno cercava di fulminare l’altro; entrambi erano stati equipaggiati di circuiti a massa, e l’elettricità si dissipava senza fare danni. Tamba gambe corte si divincolò, roteò l’accetta. Il nuovo Tamba la schivò, puntò il laser. Tamba gambe corte lanciò l’accetta e colpì il rotante del laser. I due uomini scattarono assieme. Keith raccolse accetta e laser e si preparò ad affrontare il superstite. «Un genere di assassinio davvero peculiare,» rifletté. «Tutti vengono uccisi, tranne la vittima.» Tamba gambe corte e il nuovo Tamba erano avvinghiati in un intrico fremente. Si udì il rumore di uno scatto, un rantolo. Uno dei due uomini si raddrizzò, si voltò verso Keith: il nuovo Tamba. Keith puntò il laser. Il nuovo Tamba alzò le mani, indietreggiò. Gridò: «Non colpirmi, James Keith. Io sono il tuo sostituto.» LA SELEZIONE Jarvis scese lungo Riverview Way dal magazzino della stazione, dove aveva passato una notte scomoda. All’angolo di Sion Novack Way inserì la sua penultima monetina di rame nel distributore di Pegasus, il bollettino dell’industria agricola e mineraria; prese l’involucro di tessuto rosa e continuò il cammino attraverso la sporcizia della strada verso l’Original Blue Man Café. Scelse un tavolo con precisione e accuratezza, in modo da volgere la schiena a un angolo e avere sottocchio tutta la via. Apparve il cameriere, guardò Jarvis dall’alto in basso, e Jarvis rispose fissandolo con durezza. «Un anice caldo e un visore.» Il cameriere si allontanò. Jarvis si rilassò, massaggiandosi l’anca dolorante e osservando la sagoma scura che di quando in quando si profilava frettolosa contro la foschia. Le strade erano ancora buie; era sorto solo uno dei soli Procrusteani, e non poteva certo contrastare le nebbie dell’Idle River. Il cameriere ritornò con un boccale di metallo opaco e il visore. Jarvis si separò dall’ultima moneta, scaldò le mani sul boccale, introdusse la pellicola, e sorseggiò la bevanda dedicando la propria attenzione al giornale. Una pagina dopo l’altra gli scattarono davanti le bazzecole delle notizie dalla Terra, le notizie dagli agglomerati, le notizie locali, discussioni di attualità, meccanica pratica. Trovò le inserzioni suddivise per categoria, le opportunità di impiego, e scorse gli annunci, questi erano piuttosto scarsi: scavatore di pozzi cercasi, rimestatori di vetro, raccoglitori di bacche, diserbatori. Si chinò in avanti; eccone uno che lo interessava di più: Selezione: quattro viaggiatori massima efficienza. Enormi profitti per lavoratori capaci; fini ben determinati in vista. Solo uomini di ingegno e disponibilità; presentarsi alle ore 10.00 meridiane alla Old Solar Inn e chiedere di Belisario. Jarvis lesse di nuovo il paragrafo, traducendo le frasi ambigue in significati più precisi. Guardò l’orologio: ancora tre ore. Lanciò un’occhiata alla via, al cameriere, bevve un sorso dal boccale, e si dispose a studiare il giornale dell’industria agricola e mineraria. Due ore più tardi il secondo sole, una sfera bianca azzurrognola, sorse in fondo a Riverview Way, brillando di luce incerta attraverso la foschia; e la popolazione della città cominciò ad apparire. Jarvis lasciò silenziosamente il Café e si avviò lungo Riverview Way, al sole. Il caldo e il moto sciolsero il pulsare all’anca; quando raggiunse la passeggiata sul fiume camminava senza difficoltà. Girò a destra, oltre la Memorial Fountain, ed ecco la Old Solar Inn, che si affacciava sull’acqua verso le rive scoscese di marmo grigio. Jarvis la esaminò con cura. Aveva un aspetto dispendioso ma non elaborato, emanante dignità piuttosto che eleganza. Si sentì meno scettico; gli annunci del bollettino talvolta promettevano più di quanto mantenessero; non poteva essere troppo prudente. Si avvicinò alla locanda. L’entrata era una porta di legno massiccio con un vetro dipinto, dove il Vecchio Sole ridente scoccava un raggio dorato su una Terra verde e azzurra. La porta si aprì; Jarvis entrò e si chinò allo sportello. «Sì, signore?» chiese l’impiegato. «Il signor Belisario,» disse Jarvis. L’impiegato esaminò Jarvis con un’espressione molto simile a quella del cameriere al Café. Con un’impercettibile alzata di spalle, disse: «Suite B, in fondo al corridoio.» Jarvis attraversò l’atrio. Come avanzò nel corridoio udì aprirsi la porta d’ingresso; un uomo biondo, grande e grosso, vestito di pelle scamosciata verde, entrò nella locanda e si soffermò come Jarvis allo sportello. Jarvis proseguì per il corridoio. La porta della Suite B era socchiusa; Jarvis l’aprì ed entrò. Si trovò in un’ampia stanza rivestita di pannelli scuri verde alga, arredata con semplicità: un tappetino di un colore bruno, sedie e divani lungo le pareti, un lampadario a bracci adorno di piccoli oggetti scintillanti, tanto elaborato che Jarvis sospettò un sistema di cellule spia. Fatto che in sé non significava nulla: in effetti poteva essere spiegato come una lodevole cautela. Altri cinque stavano già aspettando: uomini di diversa età, taglia, colore. In comune avevano una sola caratteristica, un modo di guardare apparentemente da tutte le parti nello stesso momento. Jarvis prese posto e si appoggiò allo schienale; un attimo dopo entrò il biondo grande e grosso in pelle scamosciata verde. Girò lo sguardo per la stanza, fissò il lampadario e si sedette. Un uomo trasandato, con i capelli grigi, la pelle scura e rugosa, e un sorriso scaltro e sprezzante, disse: «Omar Gildig! Perché sei qui, Gildig?» Gli occhi dell’uomo grande e grosso divennero vacui per un istante; poi rispose: «Per motivi simili ai tuoi, Tixon!». Il vecchio tirò indietro la testa di scatto e sbatté le palpebre. «Mi confondi con qualcun altro; il mio nome è Pardee, Capitano Pardee.» «Come dici tu, Capitano.» Nella stanza si fece silenzio; poi Tixon, o Pardee, si diresse nervosamente dov’era seduto Gildig e gli parlò a bassa voce. Gildig annuì come un placido leone. Entrarono altri uomini. Ognuno di loro girò lo sguardo per la stanza, fissò il lampadario e si sedette. Ormai la stanza ne. conteneva forse più di venti. Ci furono altre conversazioni. Jarvis era vicino a un uomo basso e robusto, con una faccia rotonda da luna piena, una piccola pancia bulbosa, un piccolo naso a uncino e occhi scuri da gufo. Sembrava incline a parlare, e Jarvis fece i commenti che ritenne opportuni. «Una notte fredda, la notte scorsa, per chi di noi ha visto tramontare il sole rosso.» Jarvis assentì. «Questo pianeta porta fortuna a chi riesce a liberarsene,» continuò l’uomo dalla faccia rotonda. «Sono tre settimane che guardo il bollettino; se non mi metto con Belisario, ebbene, per il succo di Jonah, accetterò qualsiasi lavoro, basta che paghino un sacco di soldi.» «Chi è questo Belisario?» chiese Jarvis. L’uomo dalla faccia rotonda spalancò gli occhi. «Belisario? È conosciutissimo… è Belson!» «Belson?» Jarvis non poté trattenere una nota di sorpresa; la contusione all’anca si mise a pulsargli dolorosamente. «Belson?» L’uomo dalla faccia rotonda aveva voltato la testa, ma lo stava fissando oltre il dorso del piccolo naso a becco. «Belson è un vero viaggiatore, molto rispettato.» «Così ho sentito dire,» disse Jarvis. «Gira voce che abbia subito dei rovesci, uno in particolare due mesi fa, nelle paludi di Fenn.» «E cosa dice la voce?» chiese Jarvis. «Molte parole, pochi fatti,» replicò gentilmente l’uomo dalla faccia rotonda. «E hai mai riflettuto sulla concentrazione di talento in una stanza così piccola? Ci sei tu, e i miei umili talenti; Omar Gildig, muscoloso come un toro di Beshauer, con un cervello insidioso. Laggiù c’è il giovane Hancock McManus, un vero lavoratore, e là quello che si fa chiamare Lachesi, una metafora. E scommetto che in tutte le nostre tasche messe assieme non ci sono venti corone Juillard!» «Certo non nelle mie,» ammise Jarvis. «Questa è la nostra vita,» disse l’uomo dalla faccia rotonda. «Viviamo senza riserve, ogni minuto è un’entità da spremere al massimo; il denaro, le corone, i crediti, ci permettono di comprare grandi dolcezze, ma finiscono presto. Poi Belisario accenna a fini temerari, ed eccoci qua, come falene intorno a una fiamma!» «Mi meraviglia,» meditò Jarvis. «Cosa ti meraviglia?» «Di certo Belisario ha dei luogotenenti fidati… quando ricerca dei viaggiatori tramite il bollettino agricolo, c’è sempre la possibilità che le Autorità vi prendano parte.» «Forse non conoscono la convenzione, il codice.» «È più probabile il contrario.» L’uomo dalla faccia rotonda scosse la testa, sospirò. «Un agente temerario verrebbe alla Old Solar Inn, un tal giorno!» «Ci sono uomini temerari.» «Ma non verranno alle selezioni, e sai perché?» «No, perché?» «Supponi che lo facciano, supponi che intrappolino sei uomini, una dozzina.» «Dodici in meno a cui tenere testa.» «Ma la prossima volta che verrà indetta una selezione, i viaggiatori dimostreranno la loro identità con la Prova Suprema.» «E cioè?» domandò Jarvis disinvolto, pur sapendolo benissimo. L’uomo dalla faccia rotonda spiegò con entusiasmo: «Ogni individuo uccide alla presenza di un arbitro. Le Autorità non vogliono rischiare la riesumazione di simili prove; e così consentono ai viaggiatori di incontrarsi e adunarsi in pace.» Poi sbirciò Jarvis. «Questa non è certo un’informazione nuova.» «Ne ho sentito parlare,» disse Jarvis. «La cautela è ammirevole quando non viene portata all’eccesso,» disse l’uomo dalla faccia rotonda. Jarvis rise, mostrando i denti lunghi e appuntiti. «Perché non usare una cautela eccessiva, quando non costa nulla?» «Già, perché no?» assentì l’uomo dalla faccia rotonda, e non disse più una parola. Pochi minuti più tardi la porta interna si aprì; un vecchio smilzo, gobbo come un uncinetto, in un completo nero attillato, giacca e pantaloni, si affacciò. Aveva gli occhi miti, la faccia lunga, cerea, malinconica; la voce era adeguatamente grave. «La vostra attenzione, se non vi dispiace.» «Per Crokus,» borbottò l’uomo dalla faccia rotonda, «Belson ha assoldato dei becchini per condurre i suoi abboccamenti!» Il vecchio in nero continuò a parlare. «Vi chiamerò uno alla volta, nell’ordine del vostro arrivo. Vi saranno proposte alcune prove, vi sottoporrete ad alcuni interrogatori… Chiunque ritenga la prospettiva troppo pericolosa può andarsene adesso.» Attese. Nessuno si alzò per uscire, ma molti si scurirono in volto, e Omar Gildig disse: «Nessuno si risente per richieste ragionevoli. Se mi sembrerà che l’interrogatorio sia troppo inquisitorio, allora protesterò.» Il vecchio annuì. «Molto bene, come desiderate. Avanti il primo, allora, tu, Paul Pulliam.» Un uomo snello ed elegante con un giubbotto color vino e pantaloni aderenti si alzò in piedi, ed entrò nella stanza interna. «E così quello è Paul Pulliam,» sussurrò l’uomo dalla faccia rotonda. «Sono sei anni che mi chiedo chi sia, dai tempi della faccenda di Myknosis.» «Chi è quel vecchio, il becchino?» chiese Jarvis. «Non ne ho idea.» «In effetti,» chiese Jarvis, «chi è Belson? Qual è l’aspetto di Belson?» «In verità,» disse l’uomo dalla faccia rotonda, «ne so ancora meno, a questo riguardo.» Venne chiamato il secondo uomo, poi il terzo, il quarto, e infine: «Gilbert Jarvis!» Jarvis si alzò in piedi, chiedendosi, per mille saette, come facessero a conoscere il suo nome proprio. Attraversò la soglia e si trovò in un’anticamera il cui unico mobilio era una bilancia. Il vecchio in nero disse: «Se non ti dispiace, vorrei conoscere il tuo peso.» Jarvis salì sulla bilancia; sul quadrante si illuminò la cifra 163, che il vecchio registrò su un libro. «Molto bene, ora ti pungo l’orecchio» Jarvis afferrò lo strumento, il vecchio strillò: «Calma, calma, calma!» Jarvis esaminò lo strumento di vetro e metallo, poi lo restituì con un ghigno da lupo. «Io sono un uomo prudente; non intendo farmi sparare droghe nell’orecchio.» «No, no,» protestò il vecchio, «mi serve solo una goccia per determinare le caratteristiche del sangue.» «Perché è importante?» chiese Jarvis cinicamente. «Secondo la mia esperienza, se un uomo sanguina, ebbene tanto peggio, e che sanguini fin quando non smette, oppure resta a secco.» «Belisario è un padrone sollecito.» «Non voglio padroni» disse Jarvis. «Un mentore allora, un mentore sollecito.» «Io penso da solo,» disse Jarvis. «Che il diavolo mi trascini alla morte!» esclamò il vecchio. «Sei un uomo difficile da accontentare.» Mise la goccia prelevata dall’orecchio di Jarvis in un analizzatore, scrutò il quadrante. «Tipo 0… Indice 96… Granuli B… Molto bene, Gilbert Jarvis, molto bene davvero!» «Bah,» disse Jarvis, «sono queste tutte le prove a cui Belisario sottopone un uomo, il peso e il sangue?» «No, no,» disse il vecchio con serietà. «Questi sono solo i preliminari; ma permettimi di farti le mie congratulazioni, per ora sei assolutamente adatto. Adesso vieni con me e aspetta; tra un’ora andremo a pranzo e discuteremo il resto del problema.» Dei candidati originari ne rimanevano solo otto dopo l’eliminazione preliminare. Jarvis notò che tutti e otto erano approssimativamente del suo stesso peso, con l’eccezione di Omar Gildig che pesava duecentocinquanta o forse più. Il vecchio in nero li convocò per il pranzo; in otto sfilarono in un salone verde e rotondo e presero posto a un tavolo ugualmente verde e rotondo. Il vecchio diede un segnale e nelle fessure di servizio apparvero vino e stuzzichini. Assunsero un’aria di cordialità. «Dimentichiamo il motivo della nostra presenza qui,» disse. «Godiamoci il buon cibo e quanto cameratismo possiamo arrecare a questa occasione.» Omar Gildig sbuffò, un’ampia smorfia che gli fece abbassare il naso sulla bocca. «E a chi interessa il cameratismo? Vogliamo conoscere quello che ci riguarda. Cos’è questa faccenda che Belson ha in programma?» Il vecchio scosse serenamente la testa. «Siete ancora in otto… e a Belisario ne servono solo quattro.» «Allora vai avanti con le prove; ci sono cose migliori da fare invece di saltare attraverso questi cerchi da bellimbusti.» «Fino a ora non ci sono stati cerchi,» disse il vecchio gentilmente. «Sopportate insieme a me un’ora ancora; nessuno di voi otto se ne andrà senza ricompensa, in un modo o nell’altro.» Jarvis girò lo sguardo di volto in volto. Gildig; il vecchio Tixon, scaltro e sprezzante, o Capitano Pardee, come si faceva chiamare; l’uomo dalla faccia rotonda e gli occhi da gufo; un giovane biondo e sorridente, come una ragazza in abiti maschili; due anonimi silenziosi; un negro alto e sottile come una matita, che per quanto parlava avrebbe potuto essere muto. Venne servito il cibo: bistecchine di selvaggina locale, un piccolo vassoio di baccelli tostati con salsa di erbe e mitili tritati. Effettivamente le porzioni erano così piccole che stimolarono appena l’appetito di Jarvis. Poi fu la volta di bicchieri di ponce rosso ghiacciato e di mezzelune di carne bianca brasata, ognuna con una protuberanza color rosso acceso a entrambe le estremità, che nuotavano in una salsa piccante. Jarvis sorrise tra sé e diede un’occhiata attorno al tavolo. Gildig ci si era buttato con gusto, così come il sottile uomo di colore; uno o due degli altri stavano mangiando con maggiore diffidenza. Jarvis pensò che non si sarebbe lasciato cogliere di sorpresa altrettanto facilmente, e giocherellò col cibo; e vide con la coda dell’occhio che Tixon, il giovane biondo e l’uomo dalla faccia rotonda si astenevano come lui. Il loro ospite li guardò con espressione addolorata. «Vedo che questo piatto non è popolare.» L’uomo dalla faccia rotonda disse con voce lamentosa: «Certo sono delle insolite cattive maniere, avvelenarci con i granchiolini di palude di Fenn.» Gildig sputò il boccone. «Veleno!» «Tranquillo, Conrad, tranquillo,» disse il vecchio sogghignando. «Questi non sono ciò che pensi.» Allungò una forchetta, ne infilzò uno sul piatto di Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, e lo mangiò. «Vedi, ti sbagli. Forse questi somigliano ai granchiolini di palude di Fenn, ma non lo sono.» Gildig fissò sospettoso il piatto. «E cosa pensavi che fossero?» chiese a Conrad. Conrad prese un boccone e lo esaminò minuziosamente. «Su Fenn, quando un uomo vuole averne un altro in proprio potere per un giorno o una settimana si procura questi — o granchiolini come questi — nelle paludi. Il principio tossico è in queste sacche rosse.» Allontanò il piatto. «Granchiolini di palude oppure no, mi tolgono comunque l’appetito.» «Eliminiamoli, allora,» disse il vecchio. «Alla prossima portata, ad ogni modo… un’infornata di capponi, se ben ricordo.» Il pasto proseguì; il vecchio non fece servire altro vino. «Perché,» spiegò, «ci attende una prova di abilità; è indispensabile che siate in possesso di tutte le vostre facoltà.» «Un sistema complicato per riempire un ruolo di ingaggio,» borbottò Gildig. Il vecchio si strinse nelle spalle. «Io agisco per conto di Belisario.» «Belson, vuoi dire.» «Chiamatelo col nome che vi pare.» Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, disse pensosamente: «Belson non è un padrone facile.» Il vecchio parve sorpreso. «Forse Belson — come lo chiamate voi — non vi frutta grossi profitti?» «Belson non accetta l’interferenza di nessuno, e Belson non dimentica mai un torto.» Il vecchio rise di un risolino lugubre. «Questo fa di lui un uomo facile da servire. Obbeditegli, non fategli torti, e non temerete mai la sua collera.» Conrad alzò le spalle, Gildig sorrise. Jarvis teneva gli occhi ben aperti. In quella faccenda c’era molto più di un ruolo da riempire, più di un profitto da ottenere. «Ora,» disse il vecchio, «se non vi dispiace uno alla volta, per questa porta. Omar Gildig, tu sarai il primo.» Gli altri sette restarono a tavola, fissandosi a disagio con la coda dell’occhio. Conrad e Tixon — o Capitano Pardee — parlavano con leggerezza; il giovane biondo si unì alla conversazione; poi un tonfo fece sollevare a tutti lo sguardo, e la conversazione si interruppe bruscamente, per riprendere dopo una pausa, alquanto zoppicante. Apparve il vecchio. «Adesso tu, Capitano Pardee.» Il Capitano Pardee — o Tixon — lasciò la stanza. I sei rimasti restarono in ascolto; non ci fu più alcun suono. Il vecchio convocò poi il giovane biondo, poi Conrad, poi uno degli anonimi, il negro alto, l’altro anonimo, e finalmente ritornò dove Jarvis sedeva da solo. «Le mie scuse, Gilbert Jarvis, ma credo che stiamo effettuando un’eliminazione soddisfacente. Se vuoi seguirmi…» Jarvis entrò in una stanza lunga e buia. Il vecchio disse: «Questa, come ho anticipato, è una prova di abilità, agilità, ingegno. Presumo che tu abbia con te le tue armi preferite.» Jarvis sorrise. «Naturalmente.» «Osserva,» disse il vecchio, «lo schermo in fondo a questa stanza. Immagina che dietro ci siano due uomini armati e all’erta che sono tuoi nemici, e che non sono ancora consapevoli della tua presenza.» Fece una pausa; fissò Jarvis che manteneva il suo sorriso privo di umorismo. «Allora, ti stai immaginando la situazione?» Jarvis ascoltava; aveva sentito respirare? Nella stanza c’era una sensazione di segretezza, di tensione crescente, di aspettativa. «Te la stai immaginando?» chiese il vecchio. «Ti uccideranno se ti trovano… Ti uccideranno…» Un rumore, un trambusto, non dal fondo della stanza, ma di lato, una sfrecciante sagoma scura. Il vecchio si abbassò di scatto; Jarvis saltò indietro, tirò fuori rapidamente la sua arma, uno sputaschegge Parnassiano… La sagoma scura cadde con un tonfo e tre esplosioni interne. «Eccellente,» disse il vecchio. «Hai buoni riflessi, Gilbert Jarvis, e con uno sputaschegge per di più. Non sono armi difficili?» «Non per un uomo che sappia usarli; nel qual caso sono molto efficaci.» «Un’interessante diversità di opinioni,» disse il vecchio. «Gildig, per esempio, ha usato una mazza pieghevole. Dove l’avesse nascosta non ne ho idea; un miracolo di velocità. Conrad è un esperto con la spada a getto, quasi quanto te con lo sputaschegge, e Noel, il giovincello biondo, ha preferito un raggio dammel.» «Ingombrante,» disse Jarvis. «Ingombrante e delicato, con capacità limitata.» «Sono d’accordo,» disse il vecchio. «Ma a ogni uomo i suoi metodi.» «Sono perplesso,» disse Jarvis. «Dove tiene l’arma? Non ho notato nessun rigonfiamento voluminoso quanto un raggio dammel, sulla sua persona.» «L’aveva sistemato bene,» disse il vecchio con un’espressione enigmatica. «Da questa parte, se non ti dispiace.» Ritornarono all’originaria sala d’attesa. Invece dei venti uomini iniziali, ce n’erano soltanto quattro: Gildig, il vecchio Tixon, il giovane biondo Noel, e Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda e gli occhi da gufo. Jarvis osservò Noel con aria critica per capire dove tenesse la sua arma, ma non ne vide alcuna traccia, nonostante i suoi abiti a disegni rosa, gialli, e neri, fossero attillatissimi. Il vecchio sembrava al massimo del morale; le mascelle funeree vibravano e si contraevano. «Ora, signori, ora siamo al termine dell’eliminatoria. Cinque uomini quando ne servono solo quattro. Dobbiamo fare a meno di uno di voi; nessuno è in grado di proporre un mezzo a questo fine?» I cinque uomini si irrigidirono, si guardarono attorno di traverso con prudente circospezione, mentre la stessa idea si affacciava alla mente di ognuno. «Beh,» disse il vecchio, «sarebbe stato un modo per uscire dal vicolo ceco, ma potrebbero risultarne diverse eliminazioni simultanee, e ciò metterebbe Belisario in una situazione di considerevole disturbo.» Nessuno parlò. Il vecchio rifletté. «Credo di poter risolvere il dilemma. Ammettiamo che siamo tutti assoldati da Belisario.» «Io non ammetto niente,» ringhiò Gildig. «O sono assoldato, oppure non lo sono! E se sono assoldato voglio un onorario.» «Molto bene,» disse il vecchio. «Allora siete tutti assoldati da Belisario.» «Da Belson.» «Sì, da Belson. Ecco…» distribuì cinque buste. «Ecco qui una caparra. Mille corone. Ora, ognuno di voi è un uomo di Belson. Capite questo cosa implica?» «Implica lealtà,» intonò Tixon guardando soddisfatto nella busta. «Una lealtà assoluta, ceca, incrollabile,» echeggiò il vecchio. «Cosa c’è?» chiese sentendo il brontolio di Gildig. «Non permette che un uomo abbia una propria mente,» disse Gildig. «Quando è al servizio di Belson, un uomo ha bisogno della sua mente solo per servirlo. Prima, e dopo, è libero come l’aria. Durante il suo impiego, deve essere un uomo di Belson, un’estensione della mente di Belson. Le ricompense sono grandi, ma le punizioni sono certe.» Gildig emise un grugnito di rassegnazione. «E allora, adesso?» «Adesso… cerchiamo di eliminare l’unico uomo superfluo. Credo che adesso possiamo farlo.» Guardò i volti ad uno ad uno. «Gildig… Tixon…» «Capitano Pardee, mi chiamo. Questo è il mio nome!» «…Conrad… Noel… e Gilbert Jarvis.» «Bene,» disse Conrad brevemente, «andiamo avanti.» «Il concetto della situazione,» disse il vecchio in tono didattico, «è che ora siamo tutti leali seguaci di Belson. Supponiamo di trovare un traditore, un nemico di Belson. Cosa facciamo allora?» «Lo uccidiamo!» disse Tixon. «Esattamente.» Gildig si sporse in avanti, e i muscoli voluminosi mossero piani di luce tenue sul giubbotto di pelle scamosciata verde. «Come possono esserci dei traditori se siamo appena stati assoldati?» Il vecchio si guardò con aria lugubre le dita pallide. «In realtà, signori, la situazione è assai più complessa di quanto possiate immaginare. Capita che questo superfluo quinto uomo — l’uomo da liquidare — abbia violato la fiducia di Belson. L’eliminazione di quest’uomo,» disse severamente, «costituirà una dimostrazione pratica per i restanti quattro.» «Bene,» disse Noel con disinvoltura, «vogliamo procedere? Chi è il traditore?» «Ah,» disse il vecchio, «ci siamo riuniti qui oggi per apprendere appunto questo.» «Vuoi dire,» scattò Conrad, «che tutto questa tiritera non è a nostro beneficio, ma esclusivamente a beneficio vostro?» «No, no!» protestò il vecchio. «I quattro selezionati avranno un impiego, per così dire un impiego immediato. Ma lasciatemi spiegare; gli antefatti sono questi: in un campo isolato, nelle paludi di Fenn, Belson aveva depositato un tesoro, un tesoro raro! Al campo lasciò tre uomini di guardia. Due già li conosceva, il terzo era una nuova recluta, uno sconosciuto proveniente da qualche parte dell’universo. «Allo spuntare dell’alba questa nuova recluta si alzò, uccise i due uomini, e portò il tesoro attraverso l’acquitrino fino alla città portuale di Momart, dove lo vendette. Il leale luogotenente di Belson — io stesso — era sul pianeta. Mi affrettai a investigare. Trovai delle tracce nell’acquitrino. Stabilii che il tesoro era stato venduto. Appresi per quale pianeta era stato acquistato un passaggio e lo seguii. Ora, signori,» il vecchio si appoggiò allo schienale, «siamo tutte persone dotate di buon senso. Viviamo per il piacere del momento. Guadagniamo denaro, e spendiamo denaro a un ritmo abbastanza prevedibile. Conoscendo il valore del tesoro di Belson, sono stato in grado di determinare esattamente quando il traditore avrebbe sentito la stretta della povertà. E allora ho piazzato l’esca nella trappola; ho pubblicato l’annuncio: la trappola è scattata. Non è ingegnoso? Ammettetelo!» E li guardò uno dopo l’altro. Jarvis si mosse con cautela sulla sedia per garantirsi maggiore possibilità di movimento, e per sollevare l’anca, che ora gli pulsava dolorosamente. «Vai avanti,» disse Gildig, passando come lui lo sguardo da faccia a faccia. «Misi all’opera la mia abilità. Tagliai delle zolle della palude, quelle che conservavano le tracce, i giunchi spezzati, il muschio schiacciato. In laboratorio trovai che una pressione di 170 libbre, più o meno, produceva simili tracce. Il peso…» si sporse in avanti come per fare una confidenza «formò la base della prima eliminazione. Ognuno di voi è stato pesato, come ricorderete, e chi si trova qui — a eccezione di Omar Gildig — soddisfa tale esigenza.» Noel domandò con tono leggero: «Perché Gildig è stato incluso?» «Non è chiaro?» chiese il vecchio. «Non può essere il traditore, ma è ottimo come funzionario addetto alla cerimonia.» «In altre parole,» disse seccamente Conrad, «il traditore può essere solo Tixon — cioè il Capitano Pardee — Noel, Jarvis, oppure io.» «Esatto,» disse lugubremente il vecchio. «Il nostro problema è ridurre i quattro a uno, e poi ridurre l’uno a niente. A questo scopo abbiamo qui il nostro zelante cerimoniere, Omar Gildig.» «Sono lieto di farvi cosa grata,» disse Gildig ormai rilassato, quasi apatico. Il vecchio fece scorrere un pannello, e scrisse col gesso su una lavagna. «Facciamo una tabella… così: Peso Cibo Sangue Arma Cap. Pardee Noel Conrad Jarvis e parlando segnò le cifre accanto ad ogni nome: «Capitano Pardee: 162; Noel: 155; Conrad: 166; Jarvis: 163. Poi… tutti e quattro conoscevate bene i granchiolini di palude di Fenn, e ciò indica familiarità con le paludi di Fenn. Quindi… un asterisco accanto ai vostri nomi.» Fece un passo per guardarsi attorno. «Stai seguendo, Gildig?» «Al tuo servizio.» «Dunque,» disse il vecchio, «c’era del sangue sul terreno, e ciò indica una ferita. Il sangue non apparteneva ai due uomini uccisi, e non proveniva dal tesoro. Di conseguenza deve essere il sangue del traditore; e oggi ho prelevato del sangue da ognuno di voi. Lascio questa colonna in bianco. Passiamo alle armi. Gli uomini sono stati uccisi in modo rapido e preciso, con una scheggia Parnassiana. Tixon usa una pistola tipo JAR; Noel un raggio dammel; Conrad una lama perforante, e Jarvis uno sputaschegge. Quindi, una X vicino al nome di Jarvis!» Jarvis fece per alzarsi. «Stai comodo,» disse Gildig. «Ti tengo d’occhio, Jarvis.» Jarvis si rilassò sorridendo come un lupo. Il vecchio, guardandolo con la coda dell’occhio, disse: «Questo ovviamente non è affatto conclusivo. Veniamo al sangue. Nel sangue ci sono delle cellule. Le cellule contengono un nucleo e dei geni, e i geni di ogni uomo sono diversi. Perciò, riguardo al sangue…» Jarvis parlò, continuando a sorridere: «Hai scoperto che è il mio?» «Esatto.» «Vecchio, tu menti. Io non ho ferite sul mio corpo.» «Le ferite guariscono in fretta, Jarvis.» «Vecchio, tu hai fallito come fidato servitore di Belson.» «Eh? E come?» «Per stupidità, forse peggio.» «Sì? E precisamente?» «Le tracce… In laboratorio hai compresso zolle della palude. Hai scoperto che ci voleva un peso di 160 libbre per ottenere l’effetto delle impronte su Fenn.» «Sì. Esattamente.» «La gravità di Fenn è sei decimi della media terrestre. La compressione di 160 libbre su Fenn è più facilmente ottenuta da un uomo di 240 o 250 libbre, come Gildig.» Gildig si sollevò a metà. «Osi accusare me?» «Sei colpevole?» «No.» «Non puoi provarlo.» «Non ho bisogno di provarlo! Quelle tracce potrebbero essere state lasciate da un uomo più leggero carico del tesoro. Quanto pesava?» «Un tesoro leggero come la seta,» disse il vecchio. «Non più di cento libbre.» Tixon indietreggiò in un angolo. «Jarvis è colpevole!» Noel spalancò la giacca sgargiante, rivelando uno stupefacente congegno: la bocca di una pistola gli sporgeva dal petto, un’arma sorprendentemente adatta al suo corpo. Adesso Jarvis sapeva dove Noel teneva il suo raggio dammel. Noel rise. «Jarvis… il traditore!» «No,» disse Jarvis, «ti sbagli. Io sono l’unico servitore leale di Belson in questa stanza. Se Belson fosse qui, glielo direi.» Il vecchio parlò in fretta: «Ne abbiamo avuto abbastanza di queste risposte evasive. Uccidilo, Gildig.» Gildig distese il braccio; da sotto il polso, fuori dalla manica, spuntò un tubo di metallo lungo tre piedi, che già oscillava alla trazione del polso di Gildig. Jarvis balzò all’indietro, il tubo lo colpì sull’anca contusa; lo sputaschegge sparò. La mano di Gildig era sparita, esplosa. «Uccidi, uccidi,» cantilenava il vecchio ritirandosi. La porta si aprì; entrò un uomo pacato, di bell’aspetto. «Io sono Belson.» «Il traditore, Belson,» gridò il vecchio. «Jarvis, il traditore!» «No, no,» disse Jarvis. «Posso spiegarvi.» «Parla, Jarvis. È il tuo ultimo momento.» «Ero su Fenn, sì! Ero la nuova recluta, sì! Era il mio sangue, sì! Ma traditore no! Io ero l’uomo che è stato creduto morto quando il traditore se n’è andato.» «E chi è questo traditore?» «Chi era su Fenn? Chi è stato svelto a levare la voce contro Jarvis? Chi sapeva del tesoro?» «Bah!» disse il vecchio, mentre lo sguardo mite di Belson si spostava su di lui. «Chi ha parlato poco fa del levare del sole all’ora del misfatto?» «Un errore!» «Un errore, davvero!» «Sì, Finch,» disse Belson rivolto al vecchio, «come mai conoscevi con tanta precisione l’ora del furto?» «Una stima, un’ipotesi, un’intelligente deduzione.» Belson si girò verso Gildig, che era rimasto fermo stringendosi stupidamente il moncone del braccio. «Vai, Gildig; fatti mettere una mano nuova alla clinica. Dai loro il nome di Belisario.» «Sì, signore.» Gildig uscì barcollando. «Tu, Noel,» disse Belson. «Prenota un passaggio per Achernar; vai a Pasatiempo, e aspetta istruzioni all’Auberge Bacchanal.» «Sì, Belson.» Noel se ne andò. «Tixon…» «Il mio nome è Capitano Pardee, Belson.» «…Non ho bisogno di te, adesso, ma terrò a mente le tue rinomate capacità.» «Grazie, signore, buona giornata.» Anche Tixon se ne andò. «Conrad, ho un pacco da portare alla città di Sudanapolis, sulla Terra; aspettami nella Suite RS, di sopra.» «Va bene, Belson.» Conrad si voltò e uscì a passo di marcia dalla porta. «Jarvis.» «Sì, Belson.» «Intendo parlarti ancora, oggi. Aspettami nell’atrio.» «Va bene.» Jarvis si girò e uscì dalla stanza. Udì Belson dire quietamente al vecchio: «E adesso, Finch, in quanto a te…» e poi altre parole e suoni, interrotti dal chiudersi della porta. IL SIFONE PLAGIANO Il barista era l’uomo più grande e grosso dell’Hub. Aveva una faccia lunga e sottile, un torace e una pancia come un barile di carne e ossa. Buttava fuori gli ubriachi sospingendoli verso la porta a colpi di pancia, saltando loro attorno, facendoli avanzare come un danzatore del ventre sgraziato ed elefantesco. Notizie degne di fiducia paragonavano i colpi ai calci di un mulo. Marvin Allixter, un magro nervoso prossimo ai quaranta, avrebbe voluto dirgli che era una canaglia, uno sleale mangiasoldi, ma frenava prudentemente la lingua. Il barista rigirò la bolla avanti e indietro, esaminando da ogni lato la piccola creatura imprigionata. Splendeva e luccicava come un prisma, giallo sole, smeraldo, malva struggente, vermiglio, tutti i colori più puri. «Venti franchi,» disse senza entusiasmo. «Venti franchi?» Allixter batté entrambi i pugni sul banco con fare drammatico. «Adesso tu stai scherzando.» «Nessuno scherzo,» borbottò il barista. Allixter si sporse in avanti con serietà, pensando di appellarsi alla ragione di quell’uomo. «Adesso, Buck, guarda qui. La bolla è un puro cristallo di roccia, vecchio di forse un milione di anni. E bada, i Kickerjee scavano per un anno intero, si ritengono fortunati se ne trovano uno o due, e anche allora solo in un grosso pezzo di quarzo. Sgobbano e lucidano girano e voltano, e uno scivola di mano e va in frantumi, la bolla si spacca, il piccolo cola lentamente fuori e muore.» Il barista si girò per versare due whisky lisci a una coppia di sogghignanti magazzinieri. «Troppo fragile. Se lo comprassi e uno di questi ubriachi lo rompesse, avrei perso venti franchi.» «Venti franchi?» chiese Allixter costernato. «Non è cifra da pronunciare assieme a questo gioiellino. Diamine, per venti franchi venderei prima il mio orecchio.» «D’accordo.» Buck il barista agitò giocosamente un coltello. Allora Allixter pensò di fare leva sulla cupidigia dell’uomo. «Questo stesso oggetto mi costa cinquecento franchi alla fonte.» Il barista gli rise in faccia. «Voi ragazzi della squadra teletrasporto cantate tutti la stessa canzone. Trovate un gingillo da qualche parte vicino alle stazioni, lo riportate indietro di contrabbando attraverso il teletrasporto, raccontate una frottola fantasiosa su quanto vi costa, e lo rifilate al primo babbeo che vi ascolta.» Si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve strizzando l’occhio ai magazzinieri. «Già una volta sono stato fregato. Ho comprato un animaletto da Hank Evans, diceva che sapeva ballare, diceva che conosceva tutte le danze dei nativi di Kalong, e davvero sembrava che sapesse ballare. Ho dato come anticipo quarantadue franchi per quell’animale. Poi ho scoperto che aveva i piedi piagati per la nuova gravità, e stava saltellando da un piede all’altro per alleviare il dolore. Erano queste le danze.» Allixter si mosse a disagio, gettò un’occhiata alla porta da sopra la spalla. Sam Schmitz, lo spedizioniere, già da un’ora stava facendo ronzare il suo distintivo, e Sam era un uomo impaziente. Si riappoggiò al banco, sfoggiando un’aria indifferente. «Guarda attraverso quali colori passa questo birbantello… ecco! Quel rosso! Hai mai visto niente di così luminoso? Pensa che effetto farebbe al collo di una signora!» Kitty, la bionda e fasciatissima entraîneuse, disse in un contralto mozzafiato: «Credo che sia incantevole. Io sarei orgogliosa di portarlo.» Il barista prese di nuovo in mano la bolla. «Io non ne conosco di signore.» La esaminò dubbioso. «È davvero un gingillo grazioso. Bene, forse sgancerò venti franchi.» Lo schermo alle sue spalle ronzò. Accese audio e doppio visore assieme senza aspettare prima l’identificazione dell’autore della chiamata, poi spostò di fianco la propria mole. Allixter non ebbe il tempo di abbassare la testa. Sam Schmitz lo fissò faccia a faccia. «Allixter!» latrò Schmitz. «Hai cinque minuti per venire a rapporto. Dopo, me ne infischio!» Lo schermo rimase vuoto. Allixter osservò da sotto le scure sopracciglia aggrottate il barista che lo guardava placidamente. «Visto che vai di fretta,» disse Buck, «facciamo venticinque franchi. È un ciondolo carino.» Allixter si alzò, continuando a fissare il barista. Fece passare la bolla da una mano all’altra. Buck tese le braccia allarmato. «Piano… potrebbe rompersi.» Affondò una mano nella cassa. «Ecco i tuoi venticinque franchi.» «Cinquecento,» disse Allixter. «Non posso,» disse il proprietario del bar. «Fai quattrocento.» Buck scosse la testa, fissando Allixter con occhi astutamente stretti. Allixter si voltò, uscì dal bar senza una parola. Il barista aspettò immobile come una statua. La faccia lunga e scura di Allixter si affacciò alla porta. «Trecento.» «Venticinque franchi.» Allixter contorse la faccia in un’espressione di agonia e se ne andò. Nella via si fermò. Il deposito, un edificio enorme a forma di cubo, si levava a picco nel sole invernale, dominando i quartieri periferici piuttosto malfamati dell’Hub. Dalla sua base si dipartivano i magazzini, scintillanti massicciate di alluminio lunghe ognuna un quarto di miglio. Camion e rimorchi strofinavano il muso contro le campate laterali come sanguisughe rosse e azzurre. I tetti dei magazzini servivano da ponti di carico, dove caricatori flessibili stipavano le stive delle navi spaziali con prodotti provenienti da un centinaio di mondi. Allixter rimase a guardare un momento l’attività, sapendo che per tutta l’attività visibile, nove decimi del traffico passavano non visti sul teletrasporto, diretti a stazioni terrestri continentali, a stazioni tra i pianeti, tra le stelle. «Accidenti!» disse Allixter. Andò senza fretta al transito sull’angolo considerando la piccola bolla. Forse avrebbe dovuto venderla, venticinque franchi significavano ventiquattro franchi di guadagno. Respinse l’idea. Un uomo poteva portare solo tanto così sul teletrasporto, e gli spettava un profitto decente per la sua impresa. La bolla era in effetti una sorta di creatura marina che era stata buttata dal mare sulle spiagge rosa di… Allixter non ricordava il nome del pianeta, ma il codice della stazione era 9-3-2. La rimise nella sacca, entrò nel vano del transito, sterzò, salì e sbucò d’un tratto sul ponte del deposito amministrativo. A pochi passi c’era il cubicolo di vetro dove Sam Schmitz, il Caposervizio e Spedizioniere, sedeva su un alto sgabello. Allixter fece scivolare indietro un pannello, e disse: «Salve, Sam,» con voce gentile. Schmitz aveva una faccia tonda e grassoccia, rossa e feroce. Aveva la mandibola sporgente e l’espressione generale di un bulldog. «Allixter,» disse Schmitz, «sarai sorpreso. Qui attorno stiamo diventando più severi. Voi ragazzi della squadra riparazioni vi siete messi in testa l’idea di essere un pugno di aristocratici, responsabili solo davanti a Dio. Questo è un errore. Tu dovevi essere in servizio di emergenza tre ore fa. Per due ore il Capo mi ha masticato il fondoschiena perché voleva un meccanico. Ti trovo nel bar di Buck. Io voglio essere buono con voi ragazzi, ma dovete rigare diritto.» Allixter ascoltava senza concentrazione, annuendo al momento giusto. Dove avrebbe potuto provare a vendere la bolla? Forse avrebbe dovuto aspettare di avere una settimana di ferie, e portarla giù a Edmonton o a Chicago. O meglio ancora l’avrebbe messa da parte fino a quando avesse accumulato qualche altro oggetto, e poi sarebbe andato a Parigi, o a Città del Messico, dove girava un sacco di soldi. Schmitz si fermò per riprendere fiato. «C’è niente sul ruolino di marcia, Sam?» chiese Allixter. La reazione lo fece trasalire. Il mento di Sam tremolò per la collera. «Dannazione! Di cosa credi che abbia parlato negli ultimi cinque minuti?» Allixter riandò indietro disperatamente con la memoria, racimolando una parola qui, una frase là. Si massaggiò la guancia e la mascella sottile, e disse: «Non ho afferrato proprio tutto, Sam. Forse se provassi e ripetermelo… Esattamente qual è la lamentela?» Sam levò le braccia al cielo, disgustato. «Vai a trovare il Capo. Ti farà lui il quadro della situazione. Io sono esausto.» Allixter attraversò il ponte, girò per un corridoio, si fermò davanti a un’alta porta verde con lettere di bronzo che dicevano: DIRETTORE DI SERVIZIO E MANUTENZIONE. AVANTI. Spinse il bottone. La porta si aprì e Allixter entrò nell’ufficio esterno. La segretaria alzò lo sguardo. «Il Capo mi sta aspettando,» disse Allixter. «Non è un segreto.» Poi disse nella griglia: «Scotty Allixter è qui.» Ascoltò all’auricolare, fece cenno ad Allixter, e fece scattare la serratura della porta interna. Allixter la fece scivolare indietro ed entrò nell’ufficio. L’aria, come sempre, aveva un odore acre di medicinali che irritava il naso di Allixter. Il Capo era un uomo di bassa statura, costruito secondo uno schema angolare. La sua pelle era grinzosa e gialla, disseccata come un limone vecchio. Gli occhi erano delle palline nere che scattavano come per una sorta di elettricità interna. Rade ciocche di capelli crespi gli crescevano sulla testa, alcune bianche, alcune nere, senza ordine apparente. La pelle del collo era rugosa come quella di un alligatore, e il lato destro era deturpato fino al mento bitorzoluto da una spessa striscia di tessuto cicatriziale. Allixter non aveva mai visto il Capo ridere, non l’aveva mai sentito parlare se non con una secca, monotona voce nasale. Senza preliminari, il Capo disse: «Schmitz probabilmente ti ha già fatto il quadro d questo lavoro.» Allixter si sedette. «A essere franco, Capo, non ho afferrato bene.» Il Capo parlò come se dovesse spiegare a un idiota le buone maniere a tavola, piano, con enunciazioni attente. «Sei già stato alla Stazione Rhetus?» «Codice sei meno quattro meno nove. Certamente. Hanno una nuova installazione Mammut.» «Ebbene, sei meno quattro meno nove arriva fuori fase.» Le folte sopracciglia diritte di Allixter si levarono ad arco. «Così presto? Diamine, abbiamo appena…» «La storia è questa,» disse il Capo seccamente. «Il teletrasporto è arrivato, raschiando appena sullo spigolo terminale del sintonizzatore. Ho calcolato una diminuzione di trentuno centesimi per cento nella fase.» Allixter si grattò il mento. «Ha l’aria di esserci una perdita nel selettore.» «È possibile,» convenne il Capo. «O forse hanno un nuovo spedizioniere che sta giocando con le rettifiche.» «Per essere certi di cogliere in pieno nel segno voglio mandarti su sei meno quattro meno nove, con una diminuzione della stessa percentuale con cui è arrivato.» Allixter sussultò. «Sembra pericoloso. Se il codice non colpisce direttamente i contatti arriverò su Rhetus in condizioni ben misere.» Il Capo si spinse all’indietro nella poltrona. «È lavoro per un uomo di servizio. Tu sei di emergenza. Quindi tocca a te.» Allixter guardò corrucciato fuori dalla finestra, oltre le distese nebbiose del Grande Lago Slave. «Qui c’è qualcosa di sospetto. Quello è un Mammut nuovo, e lavorano di precisione.» «Vero.» Allixter scoccò al Capo un’occhiata rigorosa. «Sicuro che era Rhetus?» «Innanzitutto non ho mai detto che lo fosse. Ho detto che il codice era sei meno quattro meno nove.» «Hai un quadro di quel codice?» Senza parlare il Capo gli buttò uno schema dell’oscillografo. «Ampiezza sei, frequenze quattro e nove,» disse Allixter accigliato. «Quasi sei, quasi quattro e nove. Non sono precise. Ma sono abbastanza prossime da colpire i contatti.» «Esatto. Bene, prendi la tua attrezzatura, sali nel teletrasporto, revisiona quella installazione.» Preoccupato, Allixter si tirò il mento gaelico a forma di cuneo. «Forse…» Fece una pausa. «Forse cosa?» «Sai cosa penso?» «No.» «Mi sembra che potrebbe essere una stazione amatoriale, oppure una banda di dirottatori. Il teletrasporto di Rhetus tratta carichi di valore. Ora se una banda riuscisse a deviare il teletrasporto verso la propria stazione…» «Se pensi così puoi portarti una pistola.» Allixter si sfregò le mani nervosamente. «Mi sembra un lavoro per la polizia, Capo.» Il Capo lo scrutò con gli scattanti occhi neri. «A me sembra che il codice abbia un calo di trentuno centesimi percento. Forse uno sciocco sta schiacciando i bottoni sbagliati su quel Mammut. Voglio che tu vada a spianare la faccenda. Per che cosa credi di ricevere mille franchi al mese?» Allixter bofonchiò qualcosa sull’infinito valore della vita umana. Il Capo disse: «Se non ti piace, conosco meccanici migliori di te a cui piacerebbe.» «Mi piace,» disse Allixter. «Metti il Tipo X.» Le folte sopracciglia nere di Allixter divennero due punti interrogativi. «Rhetus ha una buona atmosfera. Il Tipo X è anti-alogeno…» «Metti il Tipo X. Non corriamo rischi superflui. Supponiamo che sia una installazione illegale. Portati anche il Linguaid. E una pistola.» «Vedo che siamo della stessa opinione,» disse Allixter. «Non dimenticare l’accumulatore di riserva, e controlla il tuo erogatore. Evans ha riferito di un tubo che perde sull’unità supplementare. L’ho fatta dichiarare inagibile, ma forse non è l’unica.» Lo spogliatoio dei meccanici era deserto. In un cupo silenzio Allixter indossò il Tipo X: prima una spessa tuta intera connessa a elementi termici, poi una guaina sottile di pellicola inerte per isolarlo da un’atmosfera forse pericolosa, alti stivali di metallo e gomma al silicone intrecciati, impenetrabili al caldo, al freddo, all’umidità e ai danni meccanici. Una cintura assicurata con cinghie attorno alla vita e alla spalla fungeva da supporto per la borsa degli attrezzi, un erogatore e l’unità di controllo umidità, due accumulatori nuovi, un coltello a lama fissa con fodero, una pistola tipo JAR, e una torcia termica. In corridoio incontrò Sam Schmitz. «Carr è ai bottoni. Sta verificandoti la taratura del codice…» Una porta scorrevole con la scritta PERICOLO, VIETATO ENTRARE si aprì per loro, ed entrarono nel deposito centrale, uno stanzone lungo pieno di suoni, attività, polvere, e soprattutto di mille odori insoliti, zaffate di aromi speziati, balsami e afrori di mille prodotti extraplanetari che arrivavano sulla vicina cinghia. Il soffitto luminoso emanava un bagliore bianco e freddo che fugava ogni ombra. In quella luce non c’era riverbero né occultamento; ogni articolo sulle cinghie si esponeva minuziosamente agli occhi dei controllori. Le pareti, suddivise in blocchi dal soffitto al pavimento, erano dipinte a colori differenti per meglio distinguere le campate dove varie partite, temporaneamente accatastate, attendevano la rispedizione. Una stretta piattaforma chiusa da vetrate tagliava il deposito in due. Avanti e indietro dalla piattaforma alle cinghie, gli impiegati in camiciotti da lavoro azzurri e bianchi scattavano a controllare le merci in arrivo su un lato e in partenza sul lato opposto, ceste, sacchi, casse, balle, borse, rastrelliere e scatole. Macchinari, parti metalliche in lingotti e sagome stampate, invii di frutta e verdura dalla Terra venivano inoltrati alle colonie, alle fattorie, alle miniere. Altri invii esotici da altri mondi arrivavano per allettare e stimolare i sofisticati di Parigi, Londra, Benares, Sahara City. Taniche d’acqua, botti di quercia di whisky, bottiglie verdi di vino, case prefabbricate, aeromobili, motoscafi per i laghi delle Tanagra Highlands. Legni bellissimi, riccamente venati e caratterizzati, dalle paludi di latifoglie di un pianeta giungla; metalli preziosi, minerali, cristalli, vetri, sabbie, tutto passava sulle cinghie, avvicinandosi o allontanandosi dalle cortine gemelle di oro brunito, colpite da tremolanti raggi di luce, all’estremità opposta dello stanzone. A un capo della cortina della cinghia in uscita, un omone biondo sedeva in una cabina sopraelevata, masticando nervosamente della gomma. Allixter e Schmitz scansarono la cinghia in entrata, oltrepassarono la piattaforma degli impiegati, e approfittarono della cinghia in uscita per raggiungere la cabina dell’operatore. Carr tirò indietro una leva e la cinghia si fermò lentamente. «Tutto pronto per la partenza?» «Sì, tutto sistemato,» disse Schmitz allegramente. Saltò su nella cabina mentre Allixter se ne stava incupito a fissare la cortina. «Come va tua moglie, Carr?» chiese Schmitz. «Ho sentito che si è presa una dermatite da qualcosa che hai portato a casa sui vestiti.» «Sta bene,» disse Carr. «È stato quel kapok di Deneb Kaitos. Adesso vediamo, devo stabilire questo codice falso. Ehi, Scotty,» gridò rivolto a Allixter, «hai già fatto testamento? È come saltare giù da un aeroplano stringendosi il naso e sperando di cadere in acqua.» Allixter fece un gesto noncurante. «Roba di tutti i giorni, Carr, ragazzo mio. Regola quei quadranti, ho intenzione di tornare, stasera.» Carr scosse la testa in contrita ammirazione. «Ti pagano mille franchi per questo, fratello, tocca a te. Ho visto qualche cosa venire fuori dal teletrasporto quando le registrazioni sono un po’ fuori fase. Pannelli di legno compensato arrivano come fazzoletti di mussolina, un agitatore a turbina diventa circa un gallone di ruggine dall’aspetto buffo.» Allixter strinse le labbra sui denti, e fece schioccare le nocche. «Eccolo,» disse Carr. Una lampadina rossa sul pannello si accese, tremolò, ondeggiò in un arancione fumoso, passò a un bianco abbagliante. «È arrivato.» Schmitz si sporse dalla cabina. «Okay, Allixter, è tutto tuo.» Allixter si infilò il casco, lo chiuse ermeticamente, gonfiò la tuta. Carr ridacchiò nell’orecchio di Schmitz: «Scotty è cupo forte per questa faccenda.» Schmitz sogghignò. «Ha paura di sbucare nel magazzino di qualche dirottatore.» Carr gli rivolse uno sguardo blandamente curioso. «È vero?» Schmitz sputò. «Diavolo, no. Sta andando su Rhetus, a regolare la taratura del codificatore. Così è come la vedo io.» Sputò ancora. «Naturalmente potrei sbagliarmi.» Allixter sollevò il casco e urlò a Schmitz: «Farai meglio a portarmi giù il Linguaid.» Schmitz gli rispose con un ghigno. «Non sai parlare Inglese? È tutto quello che sentirai su Rhetus.» «Il Capo dice di prendere il Linguaid. Perciò tiralo fuori.» Un ronzio risuonò sul pannello di Carr. Carr grugnì. «Dagli il suo analizzatore. Non posso tenere ferma la cinghia tutto il giorno. Il vecchio Hannegan sta strillando che deve far partire la sua uva per Centauri.» Schmitz disse bruscamente poche parole in una griglia e pochi secondi dopo uscì un corriere dall’officina facendo rotolare davanti a sé il Linguaid, una scatola nera sospesa tra due ruote. «Fai attenzione con quel congegno,» disse Schmitz. «Costa un occhio, ed è l’unico equipaggiamento decente che abbiamo da quando Olson ha fuso il Semantalizzatore. Non lasciarlo su Rhetus.» «Ti preoccupi maledettamente per quel Linguaid,» borbottò Allixter, «e nemmeno un soldo per il vecchio Scotty Allixter.» Riabbassò il casco, e facendo rotolare il Linguaid davanti a sé, attraversò la cortina. Allixter si trovò su una piattaforma bianca come un osso, scoperta sotto il cielo. Sentì un rimescolio di tetro trionfo. «Sono ancora vivo. Non sono un fazzoletto di mussolina, e nemmeno un gallone di ruggine. Suppongo che il Capo abbia visto giusto, devo dargliene atto. Ma…» Allixter guardò il paesaggio, una pianura grigia e nera. A precisi intervalli, da terra si levavano massicce rotonde di cemento, molte delle quali erano in frantumi come a causa di un’esplosione interna. «Questo non è Rhetus, non è nessun luogo vicino a Rhetus. E quelli non sono uomini e non sono Rhetulani…» Rivolse uno sguardo ansioso all’impianto del teletrasporto, un tipo che non aveva mai visto, un cilindro di nebbia dorata marrone scuro. Sembrava turbinare lentamente attorno a un vortice. Dove si trovava, in tutto l’universo? Guardò il cielo, viola caliginoso risplendente di una miriade di soli lontani, fortuite gocce di fuoco colorato. Era giorno, oppure notte? Scrutò l’orizzonte con occhi angosciati, sudando dentro la pellicola ad aria. Le prospettive erano strane, l’illuminazione era strana, le ombre erano strane. Ovunque guardasse, ogni cosa era strana, nello stato selvaggio e non umano tipico dei mondi remoti. «Sono nei guai,» pensò Allixter. «Sono perduto.» Era un paesaggio squallido, una pianura offuscata tempestata di enormi rovine grigie. Dov’erano crollati i muri si vedevano dei macchinari, ruote, assi, file di ingranaggi e circuiti complessi, custodie e scatole schiacciate. Tutto era rotto, silenzioso, corroso. Allixter riportò l’attenzione sul cilindro di dorata nebbia marrone. Quella era la cortina di arrivo, ma dov’era l’impianto per rimandarlo indietro? Di solito le due cose stavano assieme. Le creature allineate intorno al brodo esterno della piattaforma bianca si avvicinarono, apparentemente con indecisione e perplessità. Allixter non fece alcun movimento per prendere la pistola tipo JAR. Pensava che se fosse stato possibile incrociare una foca e un uomo, e piantare una palma nana di penne rosse e verdi sullo scalpo della prole, quello sarebbe stato il risultato. Nell’avvicinarsi, osservandolo con grandi occhi dalla superficie opaca, emettevano dei suoni per comunicare, squittii, toni che ricordavano il fischiare del vento, sibili, che producevano intrappolando una sacca d’aria sotto le ascelle, e comprimendola fino a farla uscire da un lembo di pelle. «Salute a voi, amici,» disse Allixter. «Io sono il rappresentante della Manutenzione Teletrasporto, e ho l’impressione di essere stato trasportato in una griglia totalmente differente, un milione di anni luce dalla Terra, se non di più. Temo di essere completamente separato dalle stazioni che conosco, e nemmeno il diavolo in persona saprebbe dirmi come tornare a casa.» Mentre parlava i nativi smisero di emettere suoni, poi cominciarono di nuovo. Allixter si morse le labbra, rise per un amaro divertimento. Fece rotolare avanti e indietro il Linguaid con affetto, mormorando: «E Sam Schmitz voleva spedirmi qua fuori mezzo nudo!» Abbassò un paio di gambe per stabilizzare il Linguaid, e tolse l’otturatore dallo schermo. «Vieni avanti, Joe,» disse facendo cenno alla creatura che stava leggermente davanti alle altre. «Proviamo a capirci l’un l’altro.» Joe lo fissava senza rispondere. Allixter ripeté il gesto con maggiore cura. Joe scivolò avanti su gambe sinuose. «Joe, vedo che sei una creatura intelligente,» disse Allixter. «Andremo d’accordo.» Regolò i comandi sul Ciclo A. Lo schermo si accese, dapprima bianco; poi apparvero delle figure geometriche, un cerchio, un quadrato, un triangolo, una linea e un punto. Joe guardava intensamente, e gli altri gli si affollarono alle spalle. Allixter indicò il cerchio e disse: «Cerchio,» poi il quadrato e disse: «Quadrato,» e così via per le altre forme. Poi, facendo segno a Joe, premette il tasto di registrazione e indicò il cerchio. Joe taceva. Allixter lasciò andare il tasto, ripeté la serie di frettolosi insegnamenti. Di nuovo premette il tasto per la registrazione, e indicò il cerchio. Joe spremette un suono di cornamusa da sotto l’ascella. Allixter indicò le altre figure e Joe emise altri suoni. Incoraggiato, Allixter procedette al Grado Due, l’Enumerazione. Lo schermo mostrò dei simboli che rappresentavano i numerali agglomeranti: una serie di linee, un puntino nella prima linea, due puntini nella seconda linea, tre nella terza, quattro nella quarta, e così fino a venti. Joe, attento al suo compito, emise dei suoni per i numeri. Poi lo schermo mostrò una moltitudine casuale di puntini, e Joe emise un altro suono. Poi Allixter provò i colori. Joe fissò impassibile lo schermo. Rosso: nessuna risposta. Verde: nessuna risposta. Viola: nessuna risposta. Allixter scrollò le spalle. «Qui non ci intenderemo mai. Voi vedete a raggi infrarossi, o forse ultravioletti.» Il ciclo passò a situazioni più complicate. Un puntino si spostava velocemente per lo schermo, seguito da un puntino che si spostava lentamente. La sequenza venne ripetuta, e Allixter indicò il primo puntino. Joe emise un suono. Allixter indicò il puntino lento e Joe emise un altro suono. Dalla base dello schermo una linea si levò fino quasi in cima. Un’altra linea si sollevò di circa un pollice. Joe emise dei suoni che Allixter sperò fossero «lungo» e «corto», oppure «alto» e «basso». Un cerchio si gonfiò fino quasi oltre il bordo dello schermo, e accanto vi apparve un cerchio minuscolo. I suoni di Joe per «grande» e «piccolo» entrarono nel dispositivo di memoria. Di lì a poco le situazioni comparative si esaurirono, e lo schermo mostrò oggetti da designare con un nome: montagne, un oceano, un albero, una casa, una fabbrica, fuoco, acqua, un uomo, una donna. Poi fu la volta di oggetti più complicati: una turbina in una struttura di plastica per dare l’idea di un macchinario; il disegno convenzionale di una dinamo con un circuito esterno arrotolato su una sbarra, dal quale si irradiava un campo magnetico, poi lo stesso circuito interrotto, e lampi come di fulmine che attraversavano l’interspazio. Allixter indicò i lampi, e il Linguaid registrò il suono di Joe per l’elettricità. Duecento nomi fondamentali vennero così registrati. Poi il ciclo passò alle relazioni interpersonali. La macchina era stata progettata per essere usata dagli uomini, e il totale delle situazioni raffigurava uomini. Allixter sperò che non insorgesse confusione. Prima venne mostrato un uomo che aggrediva un altro uomo, colpendolo con un bastone. La vittima cadeva con il cranio fracassato. Allixter indicò; l’analizzatore archiviò la parola per morto, o cadavere. Poi l’assassino rivolse una faccia inferocita fuori dallo schermo, corse avanti con il bastone levato pronto a colpire. Joe fece un salto indietro, squittendo. Allixter, sogghignando, ripeté la sequenza, e l’analizzatore annotò la parola per nemico o assalitore, o forse aggressione. Passò un’ora; una ventina di situazioni venne rappresentata e analizzata. Con il passare del tempo Allixter ebbe la sensazione che i nativi mostrassero segni di nervosismo. Gettavano occhiate inquiete in ogni direzione, gesticolavano con agitati svolazzamenti dell’appendice che avevano sulla testa. Allixter scrutò l’orizzonte, ma nel perimetro della sua visione non si scorgeva alcuna minaccia. Comunque, per una sorta di simpatia, sentì i propri nervi tendersi, e trovò difficile concentrarsi sul Linguaid. Il Ciclo A venne completato. Tutte le parole e le situazioni del vocabolario fondamentale erano state registrate, sebbene astrazioni utili e forse essenziali, come interrogativi e pronomi, fossero ancora assenti dall’archivio. Allixter commutò la macchina dal Ciclo A in Conversazione. Parlò nel microfono, attento ad usare solo le parole del vocabolario fondamentale. «Desiderare ritorno attraverso macchina. Condurre macchina per uscire.» Il Linguaid assorbì le parole, trovò la loro controparte negli squittii, nei sibili, nei suoni sgraziati registrati e diede loro voce attraverso l’altoparlante. Joe ascoltò concentrato, poi guardò Allixter senza espressione. Le sue spalle fremettero. L’aria passò stridendo e crepitando dalla pelle sotto le ascelle. Il Linguaid consultò gli archivi, diede voce alle parole: «Chiamare macchina… Desiderare… Uomo macchina… Macchina rotta… Uomo venire attraverso macchina… Male…» Ovviamente Joe aveva detto più parole, ma il Linguaid traduceva soltanto i suoni che poteva confrontare sugli schemi registrati. Allixter disse: «Usare parole date macchina.» Joe lo fissò con i grandi occhi opachi. L’alto pennacchio di piume rosse e verdi si accasciò con aria scoraggiata. Fece un ulteriore sforzo. «Uomo chiamare lontano costruttore macchina. Uomo venire. Desiderare amico costruire macchina.» Allixter guardò frustrato l’orizzonte scialbo, guardò il risplendente cielo viola dove non c’era mai né notte né giorno. Pensò di far scorrere il Ciclo B sul Linguaid, un processo che avrebbe messo a dura prova sia la sua pazienza che quella di Joe, ma che avrebbe potuto consentirgli di localizzare l’impianto per ritornare sulla Terra. Tentò ancora una volta. «Desiderare ritorno attraverso macchina. Condurre a macchina per uscire.» Indicò la dorata cortina marrone. «Vedere macchina entrare. Desiderare macchina uscire.» Qualcosa non andava. Il nervosismo che già prima Allixter aveva notato si accentuò. I nativi si acquattarono sulla piattaforma bianca in palle lisce, con la cresta avvolta tutt’attorno come un ombrello chiuso a metà. Allixter cercò Joe. Joe era ai suoi piedi, rannicchiato e compatto come i suoi compagni. In preda a un’improvvisa angoscia, con uno scatto Allixter fece sparire l’iride dallo schermo, e chiuse il coperchio sui controlli. Un edificio poco lontano attirò il suo sguardo. Il macchinario all’interno si muoveva, frantumando, pestando, schiantando. L’elettricità, o comunque un flusso di energia, formò un arco tra i vecchi contatti. Assi corrosi tremarono e si contorsero, si tesero fino al limite di rottura. Le ruote gemettero e fischiarono sui supporti asciutti. Senza preavviso l’edificio esplose. Pezzi di cemento e di metallo volarono via in un folle groviglio, e caddero fragorosamente in tutte le direzioni. Rottami più piccoli si sparsero per la piattaforma, e i nativi emisero dei suoni sgraziati per il terrore. Alcuni frammenti colpirono Allixter, rimbalzarono sulla pellicola elastica. Gli venne in mente che non sapeva ancora nulla dell’atmosfera, che se la pellicola fosse stata perforata avrebbe potuto essere avvelenato. Dalla borsa tirò fuori uno spettrometro, e lasciò entrare dell’aria nella camera a vuoto. Premette il pulsante di radiazione e lesse le linee scure sullo sfondo riflettersi su una scala standard. Fluoro, cloro, bromo, fluoruro di idrogeno, biossido di carbonio, vapore acqueo, argo, xeno, cripto, certo un ambiente poco salubre per i suoi simili, pensò. Osservò con attenzione le strutture. Se avesse potuto ottenere qualche analisi di quei metalli, avrebbe rivoluzionato l’industria anticorrosiva, e avrebbe guadagnato un milione di franchi in una notte. Guardò ancora l’edificio esploso, ormai in completa rovina. D’un tratto divenne bianco incandescente, e il calore non sembrava disperdersi ma aumentare. I rottami contorti si fusero in una pozza di scorie ribollenti. Il terreno nelle immediate vicinanze fumò, riarse, crollò nella pozza di lava che si andava ingrandendo. Allixter pensò: Quella è energia pura, e se è fortemente radioattiva, per me è tempo di schizzare via. Spinse il Linguaid di fronte a sé fino al bordo della piattaforma, pronto a saltare giù sulla superficie grigia e nera due piedi più in basso. Dietro di lui i nativi erano ancora rannicchiati, palle di soffice pelle di foca, ordinatamente ricoperte dal pennacchio. Joe si mosse, alzò gli occhi, vide Allixter. Avanzò saltellando sulle corte gambe flessibili, emettendo suoni incalzanti. Allixter girò l’interruttore sul Linguaid. «Pericolo, pericolo, male, profondo, morte,» disse il Linguaid con intonazioni calme ed efficienti. Allixter balzò indietro dal bordo. Joe gli si fermò a fianco, gettò un frammento di roccia a terra. Il frammento sollevò uno sbuffo di polvere soffice, e subito sparì alla vista. Allixter sbatté le palpebre. Se non fosse stato per la grazia di Dio anche Scotty Allixter sarebbe finito lì dentro, pensò. Là fuori era un oceano di ceneri, un morbido batuffolo. Con occhi diversi guardò la pianura grigia e livellata, dalla quale gli edifici esplosi sorgevano come isole. Scrollò le spalle. Superava la sua comprensione. Sapeva di molti uomini che avevano perso la ragione tentando di comprendere i paradossi e le peculiarità delle stazioni esterne. Un’improvvisa intuizione lo colpì. Scorse con lo sguardo la circonferenza della piattaforma bianca come un osso. Era come una zattera sul mare grigio, con al centro il cilindro che vorticava lentamente. Ma allora come ci erano arrivati i nativi? Poteva essere che anch’essi fossero arrivati attraverso il cilindro da un altro mondo? Le dita morbide di Joe si mossero stentatamente sul suo braccio. Squittì muovendo le spalle in un movimento sciolto ed esperto a pompa, e il Linguaid tradusse: «Via. Venire. Condurre grande macchina.» Allixter disse, speranzoso: «Desiderare macchina uscire. Desiderare ritornare. Condurre macchina uscire.» Joe spremette altri suoni. «Venire… seguire. Amico venire cadavere grande macchina. Grande macchina distruggere amico. Grande macchina desiderare amico. Venire… seguire. Costruire grande macchina.» Allixter pensò che qualunque cosa fosse, non poteva essere peggio che starsene fermo su quella piattaforma. Joe armeggiò con una grata, la scostò, e discese per una ripida fuga di scalini. Spingendo il Linguaid davanti a sé, Allixter lo seguì. Il corridoio si fece buio. Allixter accese la lampada frontale. Più avanti vide due dorate cortine marroni, l’entrata distinta dall’uscita grazie a una lieve differenza nel dorato tremolio interno. Joe attraversò la cortina di uscita, scomparve. Mentre Allixter esitava, fece capolino dalla cortina di entrata, lo chiamò con un cenno che denotava una certa querula insistenza, e di nuovo scomparve attraverso la cortina di uscita. Allixter sospirò. Spingendo avanti il Linguaid, passò. Allixter si trovò in un ampio corridoio piastrellato di bianchi quadri vetrosi. Davanti a lui Joe scivolò attraverso un’alta arcata vagamente romanica. Lo seguì e uscì in un padiglione a cielo aperto. Il pavimento era costituito dalle stesse piastrelle vetrose, quadrati di sei piedi di lato. Era privo di mobilio e suppellettili. Lungo il bordo del pavimento, colonne sottili come cannucce di pipa sostenevano un frontone sproporzionatamente pesante, e Allixter si fermò trepidante, aspettandosi quasi che tutta la costruzione si incurvasse e cadesse in frantumi ai suoi piedi. Si diresse cautamente verso il centro del padiglione, notando sotto il pavimento un tremore come per un enorme macchinario. Con rinnovata apprensione valutò la stabilità delle colonne, e non fu rassicurato nel vederle vibrare e ondeggiare. Joe sembrava ignaro del pericolo. Guardingo Allixter si avvicinò al bordo del padiglione, aspettandosi a ogni istante che il frontone collocato tanto precariamente sui suoi sostegni gli atterrasse sulla testa. La veduta era diversa da quella che spaziava sullo scialbo mare di cenere. Da lì il panorama, sebbene strano e ultraterreno, possedeva un certo fascino ossessionante. Una lunga vallata tenebrosa giaceva annidata tra due basse colline. A due o tre miglia di distanza, in fondo alla valle, c’era un lago calmo come vetro, e lo specchio della superficie rifletteva lo sciame di soli multicolori. Sulle colline crescevano arbusti purpurei simili alle vigne terrestri, e nella valle risaie verde scuro divise in blocchi rettangolari si stendevano a perdita d’occhio. A circa metà lago scorse quello che gli parve un villaggio, una fila di ordinati casotti aperti sia di fronte che sul retro, sotto una linea di verdi alberi affusolati colore del vischio, simili ai pioppi di Lombardia. Ci fu un rumore improvviso, un terrificante fragore che riecheggiò per tutta la valle. Joe stridette, indietreggiò, si rannicchiò tremando in mezzo al padiglione. Allixter, sebbene con la pelle d’oca per paura che il frontone crollasse e lo schiacciasse, non riuscì a strapparsi dallo spettacolo nella valle. La collina alla sua destra si era aperta in una vasta frattura lunga almeno un miglio e larga forse cento iarde. Un sipario di fuoco bianco si levò dal baratro ed esplose obliquamente proprio in mezzo alla vallata. Il calore disseccò la pelle della faccia di Allixter, che si rifugiò dietro a una delle sottili colonne. La colonna vacillò e ondeggiò davanti ai suoi occhi. «Puah!» si disse Allixter. «Questo pianeta è un misero posto per organizzarci una vacanza. Non mi stupisco che sia in rovina!» Joe, fattosi piccolo per il timore, gli si avvicinò come un cane impaurito in cerca di conforto. Allixter sogghignò suo malgrado. «Adesso capisco perché questi ragazzi si comportano come se fossero spaventati a morte. Non si può sapere dove capiterà la prossima esplosione.» Osservò Joe con maggiore concentrazione: una faccia rotonda dagli occhi opachi, sotto un ridicolo copricapo, una faccia priva di espressione, umana per caso; braccia rotonde frangiate di peli neri, rotonde gambe sinuose collegate al tronco come tubi a una caldaia. Allixter rifletté sui motivi che potevano spingere Joe. Quali che fossero, quali pensieri attraversassero gli organi del pensiero di quella creatura, erano certamente indescrivibili in termini terrestri. «Abbiamo qualcosa in comune, Joe,» disse Allixter. «Nessuno di noi due vuole venire ridotto a pezzettini.» Da quella situazione si poteva trarre un’ombra di buonumore, pensò Allixter. Gli schemi mentali di Joe non erano quelli di un predatore evoluto. Secondo il Teorema di Gram i carnivori che si evolvevano in una civiltà mantenevano la ferocia e la durezza del loro prototipo. Gli erbivori tendevano alla placidità, alla disciplina e alla convenzione, mentre gli onnivori erano stravaganti, soggetti a disturbi nervosi e imprevedibili emozioni. Joe tirò Allixter per un braccio. Allixter resistette un momento, poi si rilassò e lo seguì. «Non c’è scopo a ostacolarti; non arriverò mai a casa. Forse persino adesso mi stai guidando al teletrasporto, e, ora che mi ricordo, devo dare un’occhiata se trovo qualche piccolo gingillo da riportare indietro. Un uomo non può diventare ricco con mille franchi al mese.» Percorse il cielo risplendente con occhi curiosi. «Devo essere nel cuore di un ammasso stellare, forse oltre la Via Lattea. Sono molto lontano da casa. È la cupidigia che mi ha portato qua fuori, il vecchio difetto. Oh, insomma, andiamo a vedere cosa vuole il vecchio Joe.» Joe lo condusse attorno al padiglione lungo un vialetto di sottili lastre di pietra. Allixter le sentì vibrare e pulsare sotto i piedi come per l’impulso di un potente macchinario vicino. Dietro al padiglione si levava una collina. Da essa sporgeva un edificio di pietra, con la parte inferiore dentro il fianco della stessa. I muri erano masse enormi e rugginose di muratura gialla grigiastra, tempestata e fasciata da barre di metallo come una fortezza. Il vialetto di lastre di pietra giunse alla fine. Si incamminarono sulla terra nuda, che pulsava e batteva ancora più pesantemente. Joe si fermò davanti a una spessa porta, leggermente socchiusa, che vibrava sui cardini. Joe squittì, e Allixter accese il Linguaid. «Grossa macchina male. Costruire bene. Pericolo. Grossa macchina distruggere amico uno. Amico due,» e così dicendo batté il petto di Allixter. «Amico due. Uomo costruire venire attraverso buco. Andare vedere grossa macchina. Pericolo. Distruggere amico. Grosso pericolo. Grossa macchina nemica. Fare grosso distruggere.» Allixter si avvicinò prudentemente alla porta. «Non fai sembrare il programma molto invitante.» Sbirciò dalla fessura in una grande stanza spoglia. Il pavimento era lastricato a grandi quadrati di lucida pietra rossa di otto piedi di lato. Le pareti erano rivestite dal pavimento al soffitto con pannelli rettangolari, evidentemente rimovibili. Nel punto in cui uno dei pannelli era stato tolto, Allixter scorse masse di meccanismi squisitamente complicati e delicati. Una guida sembrava fare il giro della stanza; sul limitare del campo visivo di Allixter un carrello sosteneva un’alta scatola nera. Dai comandi e dal montaggio dei quadranti su un lato, la scatola mobile era apparentemente un altro massiccio meccanismo. Tali erano gli aspetti inorganici della stanza, e Allixter li notò con un’unica occhiata. Poi dedicò l’attenzione a un altro oggetto, a un tempo più interessante e maggiormente carico di implicazioni riguardanti il suo futuro. Era un cadavere sul pavimento, un uomo con il cranio fracassato. La faccia dell’uomo morto era scarna e di colore giallo verdastro. Il corpo era sottile, la pelle molto tesa sulle ossa puntute. L’effetto generale era quello di un uccello esotico cui fossero state crudelmente strappate tutte le piume, ammazzato e gettato in un mucchio. Pareva che il corpo fosse rimasto a terra in quello stato per diversi giorni, e Allixter fu contento, grazie alla pellicola ad aria, di non essere costretto a respirare l’aria della stanza. Respirare… esaminò ancora una volta il cadavere. Non si vedeva nessuna apparecchiatura per la respirazione, né un casco. L’uomo aveva potuto respirare gli alogeni che rendevano il pianeta velenoso per un Terrestre. Strano, rifletté Allixter. Joe lo spinse avanti. «Andare. Grossa macchina distruggere. Pericolo.» Allixter si tenne indietro. «Desiderare vivere. Desiderare evitare pericolo. Paura.» Joe disse: «Vedere.» Aprì la porta, scivolò dentro muovendosi lateralmente. Mentre faceva il giro della stanza pompava furiosamente con le spalle, spremendo un costante flusso di suoni acuti. «Joe,» disse Allixter ammirato. «Se fossimo sulla Terra ti porterei in Scozia, e ti arruolerei con le Guardie della Regina, dove suoneresti la cornamusa solista senza la cornamusa. Accidenti, che figurone faresti con il kilt di Cameron.» Joe non smise un momento di emettere suoni fino a quando raggiunse di nuovo Allixter fuori dalla porta. «Andare,» disse Joe. «Parlare, pericolo assente. Silenzio, pericolo.» Batté sul petto di Allixter. «Uomo costruire grossa macchina venire attraverso buco, costruire grossa macchina.» I primi barlumi dell’illuminazione raggiunsero Allixter. «Credo di capire. Là dentro c’è una specie di macchina che vuoi farmi aggiustare. È pericolosa se non viene aggiustata, ed è pericolosa mentre sono là dentro, a meno che non continui a parlare.» Gli sfuggì una risata acuta che sembrava più un latrato. «Schmitz dovrebbe vedermi adesso. Mi chiama il Silenzioso Scot, e adesso mi metterò a chiacchierare e blaterare come una ghiandaia. Oh, insomma.» Sospirò. «Mille franchi al mese sono una sicurezza per la mia vecchiaia, finché sopravvivo al mio lavoro. E non morirò mai di fame…» Guardò di nuovo nella stanza, mordendosi un labbro in frustrato silenzio, e desiderando di aver posto le domande nel linguaggio dei nativi. «Potrei essere il migliore meccanico del mondo,» disse Allixter, «ma arrivare fresco fresco su una macchina extraterrestre, senza sapere cosa non funziona, senza nemmeno sapere cosa dovrebbe fare, questo è il modo in cui è morto il vecchio Willy Johnson.» Joe lo sollecitò ansiosamente. In lontananza udì un grande tonfo, lo scoppio di un’esplosione enorme. Joe rabbrividì, squittì in preda all’agitazione, aprì a ventaglio le penne del copricapo in tutte le direzioni. «Un uomo non muore che una volta,» rifletté Allixter, «e se è il mio turno, almeno il Capo e Schmitz non avranno la soddisfazione di saperlo.» Spalancò la porta con una spinta, e stava per entrare nella stanza quando Joe indicò sopra la sua testa e squittì: «Pericolo.» Allixter guardò in alto. Vide un grande martello, che oscillando dall’articolazione composta da una superficie sferica posta in una cavità in mezzo al soffitto, era rimasto inclinato contro la parete; apparentemente era lo strumento che aveva fracassato il cranio al cadavere sul pavimento. «Pericolo,» disse Joe. «Parlare molto.» Allixter entrò nella stanza, spingendo il Linguaid davanti a sé. «Vorrei essere a casa,» disse ad alta voce. «Vorrei sapere dove mi ha portato il teletrasporto. Così vicino eppure così lontano, ed eccomi qui a dipendere dalla mia voce per mantenermi in vita, come un canarino.» Il Linguaid, selezionando le parole traducibili, squittiva e rantolava così che la stanza risuonava di un miscuglio di suoni. Allixter pensò: «Perché dovrei parlare, quando c’è un parlatore meccanico perfettamente efficiente qui a portata di mano?» Spinse il Linguaid in mezzo alla stanza, spostò l’indice in modo che ripetesse il Ciclo A, assieme alle interpolazioni registrate di Joe. Adesso, pensò, ci sarebbero stati suoni sufficienti da distrarre chiunque. Occhieggiando diffidente il martello sospeso, Allixter studiò la stanza. Era fuori di dubbio che c’erano in corso delle riparazioni al macchinario quando la morte aveva fermato la mano del meccanico. I pannelli erano stati rimossi dalla parete, e la facciata dell’unità mobile era stata smontata. Camme varie, ingranaggi, assi, assemblaggi di indescrivibile natura montati in piccole scatole, erano ordinatamente disposti su un vassoio accanto a una rastrelliera di attrezzi. A quanto pareva il meccanico aveva appena cominciato quando — Allixter rivolse uno sguardo ansioso al martello immobile. No, pensò Allixter, troppo precario, troppo rischioso. Si arrampicò sull’unità mobile. Appollaiato sulla sommità prese dalla cintura la torcia termica che gli serviva sia come arma che come attrezzo. Allungandosi sull’apertura diresse la torcia sull’asse. L’asse prese fuoco, il metallo si fuse in uno spruzzo di scintille, il martello cadde con gran fracasso, mancando il Linguaid per pochi pollici. Allixter si batté una mano sulla fronte, incastrò di nuovo la torcia nella cintura. Una voce emise dei suoni nella lingua nativa, strillando, sibilando, gemendo, protestando. Allixter ridiscese in fretta sul pavimento, si guardò attorno cercando l’origine della voce. Il sudore gli scendeva giù per la schiena, formando rivoletti lungo la spina dorsale. Era solo nella stanza. La voce continuò, e dopo un momento ne localizzò la provenienza: un diaframma di metallo dalla parte opposta della stanza. Direttamente sopra di esso una lente sfaccettata di circa sei pollici di diametro era montata in modo da sporgere leggermente all’interno della stanza. Spinse il Linguaid lì vicino, disse: «Amico, amico. Venire fuori, vedere.» Doveva essere un compagno del cadavere, pensò Allixter, forse qualcuno che osservava a distanza attraverso la lente sfaccettata. Chiunque fosse, disse in inglese: «Costruire molte parole incrociate. Costruire parole attraverso macchina.» Evidentemente l’osservatore era un essere intelligente, pensò Allixter. Benissimo, Ciclo B. Diede inizio alla sequenza ma la voce non fece alcun tentativo di fornire parole per l’automa. Disse invece: «Uomo parlare. Uomo parlare.» «Ha…hmm,» disse Allixter rivolto a se stesso. «Il ragazzo è piuttosto ragionevole, vuole imparare l’inglese. Sembra che tocchi a me parlare, invece che a lui. Suppongo che questo sia compreso nel mio salario, anche se in verità ho firmato il contratto come meccanico, e non come un dannato linguista. Oh, insomma…» Si mise all’opera, e fornì parole inglesi per le sequenze rappresentate e per le relazioni. Il Ciclo B, con i pronomi, venne completato. Iniziò il Ciclo C. La voce disse: «Più parole, più veloce. Tutto viene capito e ricordato.» «Hmm,» mormorò Allixter, «ho tra le mani un vero e proprio genio. Il ragazzo ha una mente che è come una spugna. Benissimo, gli darò tutto quello che è in grado di assorbire.» E descrisse le situazioni sullo schermo nei minimi dettagli, integrando i primitivi concetti con materiale aggiuntivo, nominale e verbale. In due ore aveva completato i Cicli C, D, E, e F, normalmente il lavoro di un mese. Spegnendo l’interruttore, disse: «E ora, amico mio, dovunque tu sia, dovresti essere capace di parlarmi, e forse potrai rispondere ad alcune domande.» La sua stessa voce gli rispose dall’altoparlante. Allixter fece tanto d’occhi per la sorpresa. «Chiedi, gli archivi forniranno informazioni. Questa è la loro funzione.» «Innanzitutto…» Allixter fece una pausa. Cosa c’era innanzitutto? Mentre ci pensava udì un cigolio, un sibilo. Sopra la sua testa il manico mozzo oscillò verso di lui. Se il martello fosse stato ancora sospeso, Allixter sarebbe stato simile al cadavere sul pavimento. Allixter si acquattò allarmato. «Chi sta cercando di uccidermi? Perché? Tutto ciò che voglio è tornare sulla Terra.» L’altoparlante disse con calma disarmante: «Le strumentazioni protettive cercano di ucciderti perché il circuito inibitore è disorganizzato.» «E come dovrei riuscire a sopravvivere?» chiese Allixter con uno sguardo preoccupato al cadavere. «Un impulso costante emesso dall’unità di attenzione toglie energia al monitor B-sub C e mantiene aperto il relè. Per tutto il tempo in cui fornisci materiale che tiene occupata l’attenzione, i congegni di protezione automatici non funzionano.» «Ce la metterò tutta,» disse Allixter. «La conversazione è sicura?» «Finché tiene occupata l’attenzione. Tre secondi sono il tempo critico. Tale è il tempo necessario per fare fluire la carica oltre i condensatori del relè.» «Tu chi sei? Chi sta parlando?» «La voce è l’unità automatica della Macchina del Pianeta.» «E questa cos’è?» chiese Allixter perplesso. Il messaggio venne ripetuto. Allixter ristette stupefatto e sgomento. «Allora se ho capito bene sei una specie di… robot?» «Sì.» Tre secondi passarono rapidamente. In fretta Allixter chiese: «Qual è la tua funzione? Cosa fai?» «Quando la macchina in riparazione coordina gli impianti dislocati in tutto il mondo che accumulano energia dai soli, la funzione è di applicare tale energia agli usi designati.» «Che sono?» «Estrazione meccanica di metalli preziosi, scorificazione, affinazione, leghe e parti metalliche finite di macchinari, gestione di cisterne fotosintetiche producenti composti di fluorosilicio e fluoro-carbonio, combinazione e fabbricazione di articoli in Classificazione Zo, programmazione Ba-Diciannove tramite Pec-Venticinque. Quando i prodotti sono completi, vengono consegnati al pianeta padrone Plagigonstok attraverso il traduttore.» Allixter colse nella spiegazione un accenno di schiarimento. «Allora credo di capire che questo pianeta è la colonia di un altro mondo? Plagi… Plagi… qualcosa. E i nativi, dove si inseriscono?» «I nativi forniscono manodopera non specializzata e versatile dove necessario. Vengono pagati con prodotti di prima necessità.» Allixter scoccò un’occhiata al cadavere. «Dove sono tutti i… come li chiami?» «La domanda è inesatta.» «Che tipo di uomo è quella creatura morta sul pavimento, di che razza?» «È un Plag, un Signore dell’Universo.» Allixter sbuffò. «Ce ne sono altri nelle vicinanze?» «Ce ne sono dodici in condizioni simili a questo.» Un brivido leggero corse lungo il collo di Allixter. «Cosa vuoi dire, condizioni simili?» «Funzioni corporee interrotte per disorganizzazione dei centri mentali.» «Morti?» «Morti.» «Tu li hai uccisi?» «Le strumentazioni protettive li hanno uccisi.» «Perché?» «Il circuito inibitore non funziona. La macchina ha l’ordine fondamentale di non uccidere i Plag. Questo ordine è interrotto. Adesso la macchina uccide i Plag liberamente senza inibizioni, e distrugge casualmente gli impianti dei Plag.» «Allora perché non uccidi i nativi?» «Gli inibitori riguardanti gli autoctoni sono ancora attivi. La macchina protegge gli autoctoni. La macchina uccide forme di vita aliene che entrano in questa stanza, il centro mentale della macchina. Tu sopravvivi solo per caso; le unità di attenzione, togliendo energia ai monitor B-sub C, mettono in disparte gli sterminatori.» Allixter fece una smorfia. «Da qualche parte c’è una grave svista.» La macchina rimase in silenzio. Allixter aspettava una risposta. Un secondo… due secondi. Si rese conto con un po’ di urgenza che la macchina rispondeva solo alle domande, che i circuiti non erano regolati per scambiare due chiacchiere con dei passanti casuali. Senza riflettere, disse: «Sì. No. Ho visto robot, e macchine calcolatrici, e meccanismi automatici, ma niente come te. Sei un bel pezzo di macchina, non trovi?» «Sì.» Un secondo… due secondi. La mente di Allixter era vuota. «Ah. I Plag hanno costruito tutti questi macchinari?» «I Plag hanno organizzato le parti fondamentali, consistenti nei segmenti di programmazione, ingegneria, meccanica, energia e operatività, e hanno delineato i fini ultimi desiderati. Gli elementi sussidiari sono stati concepiti dal segmento di programmazione, progettati dal segmento di ingegneria, costruiti nella fabbrica centrale. Ora l’intero pianeta è una rete di vari agenti che il segmento di programmazione considera utili.» «Perché tutti quegli scoppi? Gli edifici che esplodono, i fianchi delle colline che sputano fuori fiamme?» «Gli impianti che beneficiano i Plag vengono distrutti. Esistono agenti distruttivi. Precedentemente gli inibitori li controllavano. Adesso gli inibitori sono esclusi. Gli agenti distruttivi si attivano a caso.» Allixter sogghignò. «Ai Plag non piacerà tutto questo, non credi?» «Informazione accurata non disponibile.» «Come faranno i Plag ad aggiustare la macchina?» «Nessuna informazione. Appena i Plag arrivano vengono uccisi.» «E come mai i nativi mi stavano aspettando alla cortina di entrata?» «Informazione precisa non disponibile. Esiste la possibilità che abbiano inviato un messaggio su Plagigonstok richiedendo una squadra di servizio, e che aspettassero risposta.» «Ah!» Allixter annuì sapientemente. «Da quanto tempo la macchina è guasta? E perché l’uomo di servizio Plag non l’ha riparata subito prima che peggiorasse?» «Quando la macchina è guasta l’unità di manutenzione si muove lungo la guida fino al punto che interessa la rottura, e compie le necessarie sostituzioni. Il meccanico di servizio non ripara mai la macchina. È troppo complessa. In questo caso l’unità di manutenzione era guasta, e il meccanico era impegnato nella sua riparazione. Allora il circuito inibitore si è fuso. Gli ordini fondamentali si sono attivati, e gli sterminatori hanno ucciso il Plag.» Allixter sospirò. Poi, ricordando che sospirare occupava del tempo, disse: «Come posso prolungare questo limite di tempo di tre secondi? Non posso restare qui per sempre a farti domande.» «Puoi fornire dei problemi per tenere occupate le unità di attenzione, o meglio puoi riparare il circuito inibitore oppure l’unità di manutenzione.» «E mentre sono al lavoro tu mi uccidi?» «Sì.» «Perché una gallina attraversa la strada?» «Presumibilmente le motivazioni e le restrizioni relative all’eventuale azione raggiungono un equilibrio che consiglia il movimento piuttosto che la stasi.» «Quando due e due fanno tre?» La voce disse: «L’unità di attenzione sarà occupata con il problema per sei minuti. Questo è il tempo necessario per esaminare tutte le condizioni possibili secondo tutti i programmi matematici inseriti nel nucleo.» Allixter guardò l’orologio. «Bene. Nel frattempo avrò modo di inventare qualcosa.» Si rilassò, ammaccò la pellicola del casco per massaggiarsi la fronte. Sei minuti… avrebbe mai dormito di nuovo? E la vecchia vita sulla Terra! Con malinconia e nostalgia pensò al bardi Buck, nell’Hub, i volti familiari attorno all’ovale di noce, i grandi boccali di vetro con la spuma traboccante… Si costrinse a ritornare al presente. A quanto pareva il suo futuro sarebbe stato dedicato a intrattenere quel robot planetario con enigmi, indovinelli, e passatempi matematici. Almeno, pensò Allixter con un ghigno acido, sapeva come bloccarla per più di tre secondi. La cosa da fare era trovare il guasto e riparare la macchina. Cosa diavolo non andava? Il circuito inibitore? L’unità di manutenzione? Erano entrambi guasti, una situazione spiacevole. Il sistema di riparazione serve a mantenere operativo il macchinario, ma non c’era niente per riparare il sistema di riparazione. Andò a zonzo per la stanza, esaminò l’interno dove era stato rimosso il pannello dalla parete. Una complessità dopo l’altra, forme non familiari, conduttori e fili di circuiti stampati, ranghi su ranghi. Ci sarebbe voluto un mese di lavoro solo per tracciare un angolo del meccanismo. Raccolse un attrezzo. Parola mia, pensò Allixter, qui c’è davvero un bell’equipaggiamento. Ora, se potessi brevettare questo arganetto tascabile, potrei guadagnare un milione tranquillamente. E questo cos’è? È una sega, perdiana. Non l’avrei mai creduto… Accidenti, potrei conficcare questo braccio per una iarda ovunque, e i denti trapasserebbero anche la lega più dura. Bravi, questi Plag. Però, questo dispositivo conduttore, abbiamo la stessa cosa sulla Terra. Stesso disegno, identico… strano. Una di quelle coincidenze insolite che si notano quando si va avanti e indietro da un mondo all’altro… Mio Dio, il tempo. Guardò l’orologio. Cinque secondi. Ma non correva un pericolo immediato. Il robot aveva parecchio da riferire. «Archiviato sotto indici di risolubilità esiste un certo numero di situazioni in cui due unità di una sostanza e due unità di un’altra sostanza, mischiate, risultano in tre unità di una sostanza finale. Questi casi non sono rigorosi, e possono venire accantonati. Comunque nel caso di…» La voce si lanciò in una monotona terminologia matematica che per Allixter non significava nulla. Ascoltò per cinque minuti, ma il fluire di simboli non dava segno di finire. Continuando a prestarvi attenzione con metà orecchio, si mise a camminare avanti e indietro studiando la stanza. Le piastrelle rosse del pavimento erano di una sostanza gommosa, posata con precisione microscopica. Allixter ne tagliò una scheggia con il coltello e la lasciò cadere nella borsa. Gli avrebbe fruttato una fortuna, una volta tornato sulla Terra, gommaresistente al fluoro. Le sue dita urtarono un oggetto duro e rotondo, una forma non familiare. La tirò fuori. Ah, il piccolo cristallo marino che brillava con una luminosità così affascinante. Solo ventiquattro ore prima aveva raccolto quella piccola sfera sulla spiaggia di — che pianeta era? — e adesso… Allixter sorrise amaramente. Mille franchi al mese per fare da balia a un robot impazzito fino alla guarigione, per vagabondare su uno strano pianeta grigio in cerca del teletrasporto che lo riportasse sulla Terra. Poteva essere sottoterra, poteva essere diecimila miglia a nord, a est, a sud, a ovest. Vide la porta. Era rimasta leggermente socchiusa. Si avvicinò per spalancarla. Se le cose si fossero messe male avrebbe potuto ritirarsi. La porta si mosse, e si chiuse con uno scatto. Allixter imprecò. Piccoli demoni traditori! Nella stanza c’era silenzio. Si rese conto che la voce si era fermata. Al suo posto risuonò un forte sibilo. Si contrasse angosciato. «Cosa succede?» La sua stessa voce dall’altoparlante disse: «Il sistema di protezione è stato attivato. Stai per essere soffocato da un’atmosfera di azoto puro.» «Capisco,» disse Allixter. Tastò con cautela la superficie della pellicola ad aria. «Non mi va di venire ucciso. Forse faremmo meglio a concentrarci su…» Un’esplosione scosse il macchinario, e fece vibrare Allixter dalla testa ai piedi. All’esterno udì gli squittii angosciati degli indigeni. «Buon Dio, cos’è questo?» «Il programma di spazzamento e semplificazione rurale, disinibito dalle precauzioni di sicurezza, sta livellando inutili resti di operazioni concluse. Un grande numero di fabbricati e…» la voce ronzò e gorgogliò. «Nessuna parola in archivio per il concetto. Gli impianti industriali dei Plag vengono distrutti, in archivio non c’è nessun ordine che si opponga alla demolizione…» «Per l’amor di Dio non distruggere il teletrasporto,» disse Allixter in fretta. «È con quello che devo ritornare a casa!» «Ordini sistemati in archivio appropriato,» disse la voce secca. «Faremo meglio a rimettere in funzione il tuo circuito inibitore prima…» Un crepitio di esplosioni come la scarica di una filza di petardi lo interruppe bruscamente. Allixter continuò con voce scossa: «Stavo dicendo, prima che tu faccia davvero del male.» Allixter chiese: «Qual è il modo più veloce in cui il circuito può essere rimesso in condizioni operative?» Il robot rispose: «L’unità di manutenzione è programmata per aggiustare, sintonizzare, lubrificare e sostituire le parti usurate del circuito in quattro punto tre sei minuti. Un meccanico Plag può portare a termine lo stesso lavoro in ventisei ore.» Allixter guardò accigliato l’unità di riparazione mobile. «Qual è il modo migliore per far funzionare la macchina riparatrice?» «Nessun dato sull’estensione del danno.» «Sei un bel robot,» disse Allixter con sarcasmo, «non sai nemmeno cosa succede davanti a tuo naso.» C’era forse una traccia di mordacità quasi umana nella risposta? «Il sistema ottico della macchina non può penetrare il pannello opaco.» «Fino a che punto della guida puoi vedere?» «Un raggio due punto sei sette, come indicato in caratteri bianchi, è ottimale.» Allixter tirò su col naso. «Non so leggere quei caratteri. Sono nella scrittura dei Plag.» «Informazione opportunamente archiviata,» fu l’atono riconoscimento. «Adesso sposto l’unità,» disse Allixter. «Dimmi dove puoi vederla. Nel frattempo,» disse pensosamente, «puoi compilare una lista di numeri primi terminanti nelle cifre sette nove sette.» L’altoparlante emise un suono belante che una volta di più sembrava avere sfumature quasi umane. Allixter appoggiò la spalla contro l’unità mobile. L’unità si mosse lentamente lungo la guida. Finalmente l’altoparlante disse: «Ottimale.» Poi: «La lista dei primi cento numeri primi terminanti nelle cifre date è la seguente…» «Archiviali,» disse Allixter. «Fai attenzione a questa macchina. E non cercare di uccidermi mentre sono impegnato. Sei d’accordo?» La voce atona disse: «Il meccanismo di protezione agisce indipendentemente.» «Okay,» disse Allixter. «Sembra che la matematica ti interessi. Prova a fare una lista di numeri primi che moltiplicati per i numeri primi immediatamente precedenti e susseguenti, diano un prodotto che elevato alla sesta potenza, e diviso per sette omettendo il resto, dia un numero primo terminante nelle cifre uno uno uno.» L’altoparlante singhiozzò e brontolò. «Questi calcoli verranno effettuati,» disse Allixter, «quando la tua attenzione non sarà concentrata sul lavoro di riparazione. Ora, cosa devo fare per prima cosa?» «Rimuovi i pannelli su entrambi i lati.» Allixter obbedì. «Togli il perno di mezzo pollice dalla banda di rame, tira via lo spillo dalla camma dell’asse, taglia la saldatura del morsetto portante…» La macchina era ben lubrificata, ben progettata. Dopo mezz’ora di lavoro, Allixter scoprì la causa dell’avaria: un’articolazione a L che si era bloccata alla giuntura. «Fai scattare all’indietro le spirali doppie con l’attrezzo nell’angolo del vassoio. Stringi l’asse con il morsetto, gira di novanta gradi; i rebbi si separeranno, rilasciando la parte rotta.» Allixter fece come gli era stato ordinato, e la parte offesa venne via. «Il materiale è tutto standardizzato,» disse la macchina. «L’articolazione di ricambio si trova nel terzo armadietto dalla parte opposta della stanza.» «Tieniti impegnato con quella listarella di numeri mentre vado a prendere il supporto,» disse Allixter. Il dispositivo di memoria ha una capacità di otto bilioni di cifre,» annunciò il robot. «Il dispositivo adesso è pieno a metà.» «Quando il dispositivo è pieno scaricalo e ricomincia da capo.» «Istruzioni archiviate.» Allixter attraversò il pavimento, passò vicino al corpo accartocciato del Plag. Con improvvisa curiosità lo rigirò con la punta del piede, e lo guardò in faccia. Era definitamente umano in tutte le caratteristiche primarie, anche se il naso e il mento erano lunghi e bitorzoluti, la pelle di un giallo peculiare da gallina spennata, i capelli come lana di acciaio. La creatura indossava un indumento di velluto verde scuro, lucido e smagliante dove la luce lo colpiva direttamente. «Questo è strano,» disse Allixter fra sé tirando un anellino di metallo. «Una cerniera. La prima che vedo su un indumento extraterrestre. Ora se solo fosse equipaggiato con qualcosa di meglio, potrei portarlo indietro, brevettarlo, tirarne fuori un milione, e poi quando il Capo dirà: «Fai questa dannata commissione, aggiusta quel dannato teletrasporto, pulisci il naso a quel morto di fame di un Mafekinasian,» io gli risponderò: «Capo, quei mille franchi con i quali mi insulti tutti i mesi…»« Fissò il Plag morto, studiò la faccia, la cerniera, e poi, tirando indietro le labbra per il disgusto, perquisì il corpo. Nelle tasche non c’era niente, tranne un paio di piccoli oggetti di metallo simili a chiavi e un taccuino rilegato in fibra scribacchiato con dell’inchiostro nero-verde. Nella borsa c’era qualche piccolo utensile. Fischiettando piano, Allixter trovò l’articolazione a L, e ritornò all’unità di riparazione. «Robot.» «Presente.» «Questo circuito inibitore è saltato interamente, è totalmente inoperativo?» «No.» Allixter attese, ma il robot, avendo risposto alla domanda, non trovava ragione di parlarne diffusamente. Annuì saggiamente. «Non pensavo. Qualunque organismo con il tuo potere e la tua responsabilità dovrebbe avere tanti inibitori positivi quasi quante sono le possibilità di azione. Giusto?» «Giusto.» «Per esempio, l’inibitore che si oppone all’uccisione dei nativi è attivo. E così l’inibitore che ti impedisce di far saltare tutti i tuoi fusibili. E mi sembra che se davvero avessi una necessità impellente, avresti ben poca difficoltà a uccidermi. In altre parole il semplice eccitamento delle tue unità di attenzione non disturberebbe un inveterato impulso di uccidere un alieno presumibilmente ostile.» Il robot chiese: «Quante volte desideri che i dispositivi di memoria vengano riempiti di numeri primi terminanti in uno uno uno e scaricati?» «Il problema ti sta annoiando?» «Concetto incomprensibile.» «Bene… giusto per il piacere della novità, considera ogni piede quadrato del pianeta singolarmente, e calcola le possibilità che un meteorite di dieci libbre, con una variabilità di sei once per eccesso o per difetto, colpisca ogni piede quadrato nei prossimi dieci minuti.» L’altoparlante rimase in silenzio, eccettuato un vago ronzio. Allixter continuò a perfezionare il disegno che stava prendendo forma nella sua mente. Era vasto, aveva una portata e implicazioni tanto grandiose che all’inizio lo trovò incredibile. Allixter ritornò vicino al cadavere, guardò di nuovo la sua faccia immobile. Si rivolse all’altoparlante. «Quali sezioni dell’inibitore sono saltate?» «Frammenti R otto sessantasei novantadue attraverso R nove undici novantuno.» «E questi riguardano i Plag?» «Sì.» «A tal punto che senza l’inibitore che ti impedisce di danneggiare un Plag o una costruzione dei Plag, adesso è più che probabile, se non certo, che distruggerai ogni Plag sul pianeta?» «Sì.» Allixter meditò un momento. «Dov’è il teletrasporto spaziale in uscita?» «Sul lato nord di questo edificio una porta di metallo giallo dà su un vasto magazzino. Sul retro della stanza c’è il terminale.» «Qual è la posizione per Plagi… Plagi…» Allixter scosse la testa. «Il pianeta dei Plag?» «Fase dieci, frequenze nove e tre.» «In quali unità?» «Unità Plag.» «Traducile in unità Terrestri.» «Fase otto punto quattro due, frequenze sette punto cinque otto e due punto cinque tre.» Ha, pensò Allixter. Ci sarebbero state delle sorprese, molte sorprese, in alto loco. Se volevano buttare fumo negli occhi degli umani, dovevano scegliere qualcun altro, non Scotty Allixter. Ma c’era ancora un aspetto da prendere in considerazione. «Qual è la posizione sul quadrante per la stazione terrestre?» L’altoparlante fece una serie di suoni stridenti. «Descrivi la posizione in inglese.» «Quadrante uno in cima, regolato sul simbolo somigliante a una B sdraiata sul lato piatto. Quadrante due, regolato sul simbolo somigliante a una N all’interno di un ovale. Quadrante tre, regolato sul simbolo consistente di due triangoli concentrici.» Allixter si frugò in tasca in cerca di un foglio di carta, tirò fuori la bolla dai colori cangianti, la rimise via, trovò il taccuino, scrisse l’informazione, e lo infilò di nuovo nella borsa. «Ora,» disse Allixter, «pensiamo al dispositivo inibitore. Voglio eliminare le particolari inibizioni che adesso sono saltate completamente e definitivamente. Qual è il modo più semplice?» «Accanto al pannello c’è una serie di quadranti e uno stantuffo. Regola correttamente il quadrante, premi lo stantuffo. L’atto cancella il significato dai frammenti.» «Bene,» disse Allixter. «Allora quando i circuiti verranno riparati saranno ancora vuoti?» «Corretto.» «Eccellente.» Allixter si diresse ai quadranti. «Adesso dimmi come trovo la posizione esatta.» Il robot descrisse i simboli. Allixter regolò i quadranti, premette lo stantuffo, regolò i quadranti, premette, regolò i quadranti fino a che ebbe il polso indolenzito. «Ora, quelle inibizioni sono definitivamente cancellate?» «Sì.» «E distruggerai ogni Plag che metterà piede sul pianeta?» «La macchina non ha istruzioni contrarie. I Plag verranno annientati.» «Come creo nuove inibizioni?» «Connettiti a un frammento vacante, esprimi verbalmente l’ordine.» «Connettimi con un frammento vacante.» «Contatto effettuato.» «È proibito uccidermi.» «Il comando è in conflitto con l’ordine base. L’ordine è stato mantenuto dal circuito monitor.» Allixter digrignò i denti contrariato. «Come diavolo faccio a tornare a casa, allora? Non appena ti lascio solo prenderai provvedimenti per uccidermi.» «Il problema contiene variabili imprevedibili.» «Grazie lo stesso,» disse Allixter. «In altre parole è meglio che lo risolva da solo. Okay… vediamo. Stai sempre lavorando a quel problema che ti ho dato?» «Sì.» «Quanto ti manca alla fine?» «Sono approssimativamente a metà.» «Sei veloce.» «I calcoli di quel genere sono in gran parte automatici.» «Hmm.» Allixter si massaggiò il mento attraverso la pellicola ad aria. «Contatto con un frammento inibitore vacante.» «Contatto effettuato.» «Non provocare la distruzione di alcuna installazione che potrebbe danneggiare i nativi o interferire con il loro sostentamento.» «Istruzioni registrate.» Allixter esitò, lanciò un’occhiata all’unità di riparazione mobile, la guardò dubbioso dall’alto in basso. «Se rimetto insieme questa macchina, riappenderà quel martello al suo posto?» «Sì.» Allixter fece una smorfia. «Bene… continuiamo.» Sostituì il meccanismo dell’unità di riparazione secondo le istruzioni del robot, rimise a posto i pannelli di rivestimento. L’unità mobile rimase zitta e ferma. «Come la facciamo partire?» chiese Allixter. «La scatola dei comandi sul retro è munita di un interruttore primario. Spostalo verso il basso.» Allixter esitò. C’erano troppe possibilità imprevedibili. Astutamente, chiese: «Qual è il primo lavoro che affronterà l’unità di riparazione?» «Sostituirà le sezioni danneggiate dei dispositivi di inibizione.» «Ma adesso sono vuoti?» «Sì.» «E allora?» «Lubrificherà il supporto KB quattrocento otto, che è caldo, e sostituirà un isolante surriscaldato nel Sistema di Risoluzione Paradossi.» «Quando riappenderà il martello?» «Tra diciotto punto nove minuti.» «Hmm,» meditò Allixter. «È un tempo sufficiente per farmi uscire da questa stanza, ma altrimenti… Riuscirò a regolare il quadrante sul teletrasporto, e a lasciare il pianeta prima che avvenga qualche altra azione violenta?» «Il problema contiene variabili imprevedibili.» Allixter passeggiò avanti e indietro. «Se tengo occupata l’attenzione della macchina riuscirò ad andarmene. Se no, verrò giustiziato come alieno indesiderabile. Tutti i robot dovrebbero avere degli hobby, qualcosa che li tenga occupati, fuori dai guai. Ora, forse…» Esitò. «Mi costerà dei soldi.» Ci pensò attentamente. «Ma cosa sono pochi franchi paragonati al valore della mia vita?» Tirò fuori dalla borsa la sfera di quarzo, e la piccola creatura di cristallo all’interno splendette, balenò, scintillò di colori cangianti, giacinto, rosa, verde mare. Allixter posò la sfera sull’orlo di un cornicione che gli arrivava al mento. «Riesci a vedere la piccola sfera?» «Sì.» «Vedi quei colori?» «Sì.» «Osserva questa sfera e quei colori. Questo sarà il tuo hobby, per divertirti durante le solitarie ore della notte. Devi prevedere il prossimo colore che apparirà. Quando sbagli rivedi i tuoi calcoli ed effettua una nuova previsione.» «Istruzioni registrate,» disse il robot. Allixter sfiorò la liscia sfera di quarzo. «Ora, mio piccolo gioiello, sii capriccioso quanto ti pare. Scommetto su ogni pezzettino di vita libera che sconfiggerai e confonderai una macchina, per quanto complessa e sapiente. Perciò splendi in tutti i tuoi incantevoli colori, e falli brillare con impeto e abilità, come sai fare tu.» Fece scattare l’interruttore sull’unità di riparazione mobile. La porta era ancora chiusa a chiave. Allixter l’aprì bruciando la serratura con la torcia termica, uscì sul vialetto di lastre di pietra che si affacciava sulla grigia vallata caliginosa. Sopra la sua testa bruciavano miriadi di soli, sfere colorate di fuochi diversi, vicine e lontane nel cielo viola. «Il nord è da quella parte,» disse Allixter. «Ecco là il magazzino, e la porta dorata…» Il deposito dell’Hub era immerso nel silenzio quando Allixter sbucò dal teletrasporto. La cinghia in uscita trasportava solo qualche ventina di cassette di uva verde e bianca, una dozzina di cisterne di ossigeno dipinte di verde, tutto destinato a una stazione mineraria su un asteroide ricco di metalli preziosi ma senz’aria. La cinghia in entrata era vuota, e l’operatore, dopo aver fatto passare Allixter, ritornò alla sua rivista. Allixter passò a fianco dell’ufficio dello spedizioniere con la testa bassa, ma Schmitz lo scorse e fece scivolare indietro il pannello di vetro. «Ehi, Scotty,» abbaiò. «Torna qui e consegnami il rapporto. Credi che questa sia Liberty Hall? Non hai letto le regole?» Allixter si fermò, poi tornò indietro. «Tieni,» disse Schmitz gettandogli un modulo giallo. «Riempilo, e dopo questa volta vorrei non doverti più dire sempre cosa devi fare. Dopotutto, ho anche il mio lavoro a cui badare. Voi ragazzi mi riducete uno straccio, arrivate e sparite subito, come un gruppo di ragazzine all’ora del tè. Poi quando mi vengono a chiedere chi è stato dove e chi ha fatto cosa…» «Ascoltami, Sam,» disse Allixter. «Vorrei usare il tuo telefono.» Schmitz alzò gli occhi sorpreso. «Fai pure, usalo. Non mi importa. Finché mi tratti come si deve va tutto bene. Usa il mio telefono, qualunque cosa. Fai quello che devi fare, e io non mi lagnerò. Mio Dio, amico! Dov’è il Linguaid? Il Capo ce ne dirà di cotte e di crude se…» «L’ho lasciato nel deposito.» Allixter sfogliò l’elenco telefonico. Sollevò lo sguardo. Schmitz lo stava guardando intensamente, i brillanti occhi azzurri scintillavano come rondelle galvanizzate nella faccia rossa e tonda. Allixter chiuse l’elenco. «No, credo che aspetterò. Buona giornata a te, Sam Schmitz.» «Ehi!» ruggì Schmitz. «Il rapporto!» «Torno subito.» «Quand’è subito? Non dimenticare che sono responsabile di tutto questo, sono io che vengo trattato male quando voi ragazzi combinate dei pasticci…» Allixter gli rispose con una voce suadente: «Dammi quindici minuti, Sammy caro. Ti scriverò un rapporto che vorrai portare a casa da incorniciare.» Quindici minuti passarono. Schmitz era agitato, ringhiava, faceva passare il mansionario. «Quel dannato Allixter è il peggiore. Gli Scozzesi sono tutti pazzi, bevono troppa di quella robaccia marrone che chiamano whisky. Grazie a Dio c’è la birra… Ehi, però, credo che sia tornato.» I quattro uomini assieme ad Allixter indossavano delle uniformi grigie, e sembravano curiosamente uguali. Erano tutti alti, sobri nello stile, controllati nei movimenti. I volti erano uniformemente smussati, gli occhi acuti e indagatori, le labbra strette. «Dio non voglia!» latrò Sam Schmitz. «È il Servizio Internazionale di Sicurezza. Adesso cosa è andato a fare Allixter?» Automaticamente allungò la mano verso il bottone collegato al telefono del Capo. «Fermo, Schmitz!» urlò Allixter. «Lascia stare quel telefono!» Uno degli uomini del SIS aprì la porta del cubicolo di Schmitz, gli fece un cenno. «Credo sia meglio che tu venga con noi.» Protestando loquacemente Schmitz li seguì, saltellando e rimbalzando sulle gambe corte per tenere il passo. Gli uomini del SIS si disposero due su ogni lato della grande porta verde con le lettere di bronzo. Allixter spinse il bottone, la porta scivolò indietro, ed entrò. La segretaria alzò gli occhi. «Di’ al Capo che sono tornato,» disse Allixter. Esitando la segretaria premette il bottone. «Scotty Allixter a rapporto.» Ci fu una pausa. «Fallo entrare.» La segretaria sbloccò la serratura, Allixter si diresse alla porta interna. Allora gli uomini del SIS entrarono nell’ufficio. Uno andò rapidamente alla scrivania, dove la segretaria aveva fatto un movimento veloce verso i comandi dell’altoparlante, e le afferrò il braccio. Allixter aprì la porta. L’aria che odorava di laboratorio chimico gli soffiò in faccia. Entrò seguito dal plotone del SIS. Il Capo, seduto alla scrivania con la schiena alla luce, si agitò un poco, poi si calmò. «Cosa significa?» chiese atono. Il luogotenente del SIS disse: «Sei in arresto.» «Per quale motivo?» «Furto di articoli di rilevante valore, spionaggio, entrata illegale, tanto per cominciare. Potranno esserci ulteriori accuse quando l’indagine sarà completata.» «Avete un mandato?» «Certamente.» «Vediamolo.» Il luogotenente avanzò con una cartella rilegata in azzurro. Il Capo diede un’occhiata alla pagina stampata, incurvò sardonicamente la bocca. Allixter pensò: Tutti gli anni che sono venuto in quest’ufficio, che ho parlato con quest’uomo, l’ho guardato, e solo adesso lo vedo così com’è, la creatura di un altro mondo con la pelle d’oca gialla che respira un gas velenoso. Allixter notò d’un tratto che l’atmosfera, acre e che sapeva di medicinale come al solito, aveva acquistato un nuovo, aspro odore. Urlò: «Allontanatevi, quel demonio ci sta avvelenando!» Il Capo si mosse con rapidità, balzò in piedi. Il luogotenente gli si avvicinò. «Fermo, o sparo.» Allixter spalancò la porta e si mise in salvo. Dallo spigolo della scrivania del Capo schizzò un piano di fumoso fuoco giallo e bruciò i quattro uomini a metà. Allixter si ritrasse con un brivido dagli ioni crepitanti, che deviati dalla parete di metallo passarono a un pollice dalla sua vita. Allixter aveva riposto gli attrezzi. Era disarmato. Corse al telefono della segretaria, che si era appiattita contro la parete, tramortita e con gli occhi vitrei. Allixter premette il pulsante di emergenza, gridò: «Omicidio, nell’ufficio manutenzione del terminale del teletrasporto.» Sentì un movimento furtivo all’interno dell’ufficio del Capo, guardò disperatamente verso la porta esterna. Per fuggire doveva attraversare la linea di fuoco dall’ufficio interno. Lenti passi si stavano avvicinando. Con voce strozzata, Allixter disse: «Infila solo la punta del tuo lungo naso, e te la stacco…» I passi si trascinarono cautamente. Il Capo si stava spostando vicino alla parete opposta per colpire Allixter con un tiro ad angolo. Si trovava perciò sull’altro lato della porta, lontano dal pulsante di scorrimento. Allixter premette il pulsante, la porta si chiuse. Si precipitò a quella esterna. Fece appena in tempo a uscire che una pistola tipo JAR risuonò alle sue spalle e la parete del corridoio andò in frantumi. Allixter attraversò di corsa il corridoio, fino al deposito ancora silenzioso. Passò tra bidoni da cinquanta galloni di acetone, attraversò con un salto la piattaforma quasi vuota degli impiegati, si precipitò nella cabina dell’operatore. Senza fiato, lottando per riuscire a parlare lentamente e distintamente, disse: «Questa è un’emergenza. Riguarda il SIS… Apri i contatti per quanto lontano possono andare, metti a punto questo codice: fase otto punto quattro due, frequenze sette punto cinque otto e due punto cinque tre.» L’operatore gli rivolse un’occhiata meravigliata. «Che diavolo di codice è quello? Non ho mai sentito…» «Chiudi la bocca!» ringhiò Allixter. «Imposta quel codice! E instrada tutto quello che trovi perché venga consegnato nel deposito.» L’operatore si strinse nelle spalle, girò i quadranti. «Otto punto quattro due… cos’erano gli altri riferimenti?» «Sette cinque otto! Due cinque tre! Per l’amor di Dio, muoviti!» L’operatore fece scattare l’interruttore di attivazione. Allixter saltò giù, si mise vicino alla dorata cortina marrone nel punto dove la cinghia saliva rotolando dal pavimento. Dieci secondi… Quindici secondi. Fissò lo sguardo nella nebbia marrone, tremolante e percorsa da raggi di luce, fino a che… un movimento. Apparve il Capo, che si guardava dietro le spalle. Voltò la testa, gli si spalancò la bocca. Allixter saltò, lo prese da dietro, lo gettò sulla cinghia. La pistola tipo JAR del Capo cadde con un tonfo. Allixter l’afferrò, si alzò in piedi. «E adesso, vecchio mio, puoi anche rilassarti. Ti ho beccato in pieno. Mi dispiacerebbe aprirti in due con un colpo.» Allixter divenne il centro di un rispettabile pubblico al bar di Buck. La birra scorreva liberamente, le importazioni migliori dalla Germania e dall’Olanda, e c’era sempre una mano pronta a coprire il conto. La storia era stata raccontata parecchie volte, ma c’erano degli ascoltatori per i quali alcuni aspetti della faccenda non erano completamente chiari. Tra questi il più insistente era Sam Schmitz. «Allixter, ascolta,» disse con voce lamentosa. «Arrivi a tutta birra nel mio ufficio, e io non dico una parola. Io sono sincero con te, come sempre, ma avresti potuto ficcarmi in un mare di guai. Avevi ragione, adesso lo riconosco, ma supponi di avere avuto torto? Allora eravamo tutti e due in un casino. Insomma, non mi sembra che fosse la cosa giusta da fare.» «Schmitz,» disse Allixter con immenso buon umore, «stai dicendo stupidaggini.» «Ma come facevi a essere così sicuro che era il Capo? Non capisco come hai potuto anche solo immaginare che ci fosse qualcuno nell’Hub. Tu dici che hai dedotto questo e immaginato quello, ma ancora non ha senso.» «Guardala in questo modo, Sam.» Allixter si bagnò la gola con mezza pinta di Hochstein Lager. «Sono stato mandato fuori per una chiamata fasulla. Per un po’, dopo che sono atterrato su quel pianeta, ho pensato che fosse un vero sbaglio. Ma ho cominciato a pensare. Un sacco di piccoli particolari mi tormentava in continuazione. Il Capo aveva insistito che portassi il Linguaid. Ma perché mai avrei dovuto avere bisogno del Linguaid su Rhetus? La risposta era che il Capo sapeva che mi sarei imbattuto in nativi che parlavano da sotto le ascelle. «E poi perché si è assicurato che la pellicola ad aria fosse del Tipo X, a prova di alogeno? L’atmosfera di Rhetus è biossido di carbonio, argo, elio, un poco di ossigeno, e di solito portiamo soltanto i caschi. Perché? Perché sapeva che l’atmosfera dove sarei andato sarebbe stata piena di fluoro. «E quando ho visto il Plag morto sul pavimento sono stato assillato da altri particolari. Indossava abiti con una cerniera terrestre. Non una simile allo stile terrestre, ma una cerniera identica in ogni suo aspetto.» «Avrebbe potuto essere una coincidenza,» disse Buck, il barista grande e grosso con la faccia rossa. Allixter annuì. «Avrebbe potuto. Ma cosa mi dite della penna a sfera con cui scriveva quel tizio, e dello schizzetto che si portava nella borsa degli attrezzi?» «Cos’è uno schizzetto?» chiese Kitty, la bionda entraîneuse dalla mascella quadrata. Barnard, un altro meccanico della manutenzione, disse subito: «Un attrezzo nuovo, nuovo fiammante. Noi adesso ce lo portiamo dietro al posto del filo elettrico. Quando vogliamo far passare della corrente tra due punti, schiacciamo il grilletto sullo schizzetto, esce una sostanza appiccicosa che si attacca al primo punto. Lo tiriamo su, giù, in giro, ovunque vogliamo che vada, lo appoggiamo al secondo punto, molliamo il grilletto, e abbiamo un legame permanente. La parte esterna si ossida in un ottimo isolante, e dove la metti sta.» Kitty bevve la birra di Schmitz segnalando così di avere capito. «Comunque,» continuò Allixter, «quando ho visto tutte queste cose sparse, ho pensato fra me che abbastanza sicuramente c’era stato qualche contatto con la Terra. E doveva essere stato univoco, perché sulla Terra non avevo mai visto nessuno giallo e col naso lungo come un Plag. «E allora ho pensato al Capo. Assomigliava proprio al cadavere, forse un poco più vivace. E ho pensato ancora. Mi sono ricordato degli altri particolari. Poi quando il robot mi ha detto che i suoi circuiti erano inceppati in modo da ammazzare automaticamente i Plag, mi sono immaginato tutto.» «E poi?» chiese Schmitz. «I Plag volevano mantenere il teletrasporto aperto per il pianeta… non so come si chiama. Non sarei sorpreso di sapere che sfruttano un certo numero di questi mondi sussidiari, tutti equipaggiati col loro robot che munge il pianeta di tutto ciò che vale, e trasporta i prodotti su Plag… Plagi… caspita, non sono mai riuscito a pronunciare quella parola. Plagigonstok… Ecco. «Insomma, il robot era programmato in modo da uccidere i Plag non appena si presentavano. Perciò era indispensabile far arrivare un meccanico di un’altra razza per aggiustare il robot. Io ero quel meccanico.» «Proprio l’ultima risorsa,» grugnì Buck. Allixter allargò le braccia. «Cosa avevano da perdere? O avrei aggiustato il robot, o sarei stato ucciso. L’unica altra possibilità era mandare una nave da guerra a distruggere il robot, e perdere così una delle loro vantaggiose attività. Così si sono messi in contatto con il Capo, e gli hanno detto di mandare sul posto il suo meccanico migliore con tutto il necessario per aggiustare il robot.» Schmitz levò pensierosamente il bicchiere per bere, e vide che era vuoto. Scoccò un’occhiata a Kitty, che si stava cotonando i capelli. «Buck, versami un’altra birra. Mi pare che il Capo avrebbe potuto darti qualche accenno su quello che dovevi aspettarti.» «Così che potevo tornare con la torta? No di certo. In questo modo, se fossi tornato, avrei pensato che tutta la faccenda era stato uno straordinario incidente.» «E come facevi a sapere su quale codice avrebbe cercato di scappare il Capo?» chiese Barnard. Allixter inarcò le folte sopracciglia nere con aria saputa. «Dunque… Vi ho detto che quando ho visto tutto quell’equipaggiamento di stile terrestre sparso in giro ho avuto la certezza. Ma forse avevo fatto un errore, forse avevamo davvero montato un teletrasporto su quel pianeta dei Plag. Così ho chiesto al robot qual era il codice. «Quando me l’ha dato ho capito che non era sulla nostra lista, non era nemmeno nelle nostre unità. Evidentemente i Plag hanno scoperto da soli il sistema di teletrasporto, e hanno organizzato una rete per conto loro. In qualche modo hanno scoperto che noi avevamo un teletrasporto, e hanno fatto entrare illegalmente un loro rappresentante, che è diventato il Capo. Forse ce ne sono in giro degli altri.» «C’è una cosa che non capisco,» disse Barnard. «Come faceva il Capo a respirare? Quest’aria avrebbe dovuto soffocarlo.» Allixter svuotò il boccale prima di rispondere. Buck lo avvicinò alla spina, e glielo rimise davanti traboccante di spuma. «Hai mai notato la cicatrice sul collo del Capo?» chiese Allixter. «Certo. Una cosa orribile. Deve essersela fatta con un Barlow, di quelli lunghi e affilati.» «Non era una cicatrice. Era un tubo per la respirazione, che passava sotto la pelle e arrivava fino in gola. Gli forniva il fluoro, e portava via il gas dell’acido fluoridrico perché venisse assorbito da un filtro. Non che la nostra aria gli avrebbe fatto del male, ma certo non gli avrebbe fatto del bene.» Schmitz scosse la testa. «Pensavo che gli avrebbe bruciato la gola.» Barnard rise. «Ti ricordi quella volta che gli hai offerto uno di quei toscani neri tutti storti?» «Già,» si rattristò Schmitz. «Ha detto che non capiva come potessi fumare una di quelle cose e sopravvivere.» Allixter disse: «Non avrebbe certo avuto bisogno di tutto il volume di ossigeno che respiriamo noi. Poche libbre gli sarebbero durate per molto tempo. Naturalmente c’era un’inevitabile perdita attraverso la bocca e il naso…» Barnard batté un pugno sul banco. «Ho sempre detto che l’ufficio del Capo puzzava come un ospedale!» «Mi domando cosa succederà adesso,» disse Schmitz addolorato. «Il governo manderà una commissione su Plag… Plagi… tu sai dove?» «Beh,» disse Allixter, che adesso era considerato come la fonte di tutta la conoscenza. «Non posso esserne sicuro. Ci hanno derubato spudoratamente, quei Plag. Tutte le nostre idee, gli utensili, le tecniche, hanno preso tutto. In sé non è una cosa così negativa, ma si sono accertati che non ricevessimo in cambio niente. «E così la funzione del Capo era questa, di inviare merci; poteva entrare nel deposito quando non c’era in giro nessun altro, oppure poteva spedirle dal portello segreto che teneva in ufficio per poter scappare. Spediva le merci, le pagava tramite una corporazione prestanome, con il platino o l’uranio che estraggono a basso costo su qualche pianeta robotizzato. O forse stampavano soldi falsi. Quelli del SIS dicono che hanno trovato una valigia di biglietti da cento franchi nuovi di zecca nell’ufficio del Capo.» «Ecco chi mi ha sommerso la cassa!» ruggì Buck. «Ho perso un migliaio di franchi in biglietti senza valore!» L’enormità dei crimini del Capo adesso gli sembrava chiara come l’alba. Dimenò le spalle, ognuna grossa come un sacco di frumento. «Accidenti a quella miserabile lucertola dal naso lungo, mi piacerebbe… mi piacerebbe squartarlo con le mie stesse mani! Mille franchi mi è costato!» «Una sfortuna,» disse Allixter con voce distratta. «Anche a me è costato cinquecento franchi quando ho dovuto abbandonare quel prezioso gioiellino. Meno male che mi è capitato di raccogliere questo scarabeo là fuori su quel pianeta grigio. Fluorite gialla di prima qualità, un pezzo incantevole, ed è il sacro sigillo degli indigeni. «Ce n’è soltanto uno uguale a questo. Il Direttore del Museo dei Mondi Esterni ha detto che sarebbe disposto a darmi ottocento franchi, ma dovrei aspettare un mese perché possa fare approvare un ordine di acquisto. Buck, lo lascio a te per seicento, e ti tieni il guadagno.» Buck prese in mano l’ottaedro. «Sacro sigillo? Mah! Sembrano un sacco di raspate di gallina. Ti do cinque franchi, e forse posso scaricarlo a un ubriaco per dieci.» Allixter riprese la fluorite con un’espressione di dignità offesa. «Cinque franchi? Ti venderei il mio orecchio destro, prima!» IL FATO DEL PHALID Dopo due mesi di incoscienza, Ryan Wratch aprì gli occhi. O più precisamente, avvolse in strette pieghe duecento minuscoli diaframmi di spesso tessuto marrone purpureo, e subito capì che stava guardando un mondo nuovo. Per venti secondi, Wratch fissò il delirio reso tangibile, la follia oltre ogni espressione. Udì un acuto staccato che sentiva in qualche modo di dover riconoscere. Poi il suo cervello si rilassò, si lasciò andare. Wratch perse di nuovo conoscenza. Il dottor Plogetz, basso e tarchiato, con una faccia rosea e liscia e i capelli bianchi, si raddrizzò dalla creatura sul tavolo e appoggiò il platiscopio munito di lenti. Si rivolse all’uomo in uniforme grigioverde, che portava appena sopra al gomito i tre soli d’oro raggiati di Comandante di Settore. Il Comandante era un uomo sottile, dalla carnagione scura e l’aspetto duro, con un’espressione piuttosto rigorosa e priva di senso dell’umorismo. «Organicamente, ogni cosa è in eccellente forma,» disse il dottore. «Le connessioni nervose si sono cicatrizzate, gli adattatori sanguigni funzionano splendidamente…» Si interruppe quando la nera forma aliena sul tavolo imbottito — una creatura con una grossa testa simile a quella di un insetto, un lungo carapace nero che le copriva il dorso come un mantello, e zampe insolitamente articolate — mosse uno degli arti che dovevano fungere da braccia, tentacoli gommosi con le parti inferiori chiazzate di grigio e lembi di pelle grigiastra che dovevano essere le dita. Il dottor Plogetz riprese il platiscopio, ispezionò gli organi all’interno del torace chitinoso. «Riflesso,» mormorò. «Come stavo dicendo, non c’è dubbio che organicamente sia una creatura sana e robusta. Psicologicamente,» strinse le labbra, «naturalmente è troppo presto per azzardare delle ipotesi.» Il Comandante di Settore Sandion fece un cenno di assenso con la testa. «E quando la creatura, o l’uomo dovrei dire, riprenderà conoscenza?» Il dottor Plogetz premette un bottone sul cinturino. Una voce risuonò dal minuscolo altoparlante. «Sì, dottore?» «Portami una mascherina di sonfrano… vediamo… numero ventisei, all’incirca.» Poi disse a Sandion: «Gli darò uno stimolante, per fargli riprendere subito i sensi. Ma prima…» Entrò un’infermiera — un’infermiera coi capelli scuri e gli occhi azzurri, molto bella — portando una mascherina. «Adesso, signorina Elder,» disse il dottor Plogetz, «la sistemi completamente intorno alla fessura ottica. Stia attenta a non stringere quelle piccole branchie sul lato della testa.» Plogetz trasse un profondo respiro prima di continuare con la sua spiegazione. «Voglio minimizzare il trauma sul cervello,» disse il dottore. «Le immagini visive saranno senza dubbio confuse, come minimo. Lo spettro ottico di un Phalid, ricordati, è due volte più lungo, il campo visivo tre o quattro volte più ampio di quello dell’essere umano medio. Ha duecento occhi, e le impressioni di duecento unità ottiche separate devono essere coordinate e amalgamate. Un cervello umano concilia due immagini, ma è dubbio se sia in grado di fare lo stesso con duecento. Ecco perché abbiamo lasciato intatta una piccola parte del cervello precedente della creatura, il nodulo che coordina le varie immagini.» A questo punto Plogetz fece una pausa lunga abbastanza da rivolgere un’occhiata di apprezzamento alla complessa testa nera. «Pur con questo aiuto, la vista di Wratch sarà un’esperienza nuova e fantastica,» rifletté. «Il risultato di tutte le immagini viste attraverso gli occhi di un Phalid e amalgamate da quella piccola parte di cervello di Phalid sarà qualcosa di mai concepito dalla mente umana.» «Senza dubbio costituirà una tremenda tensione per i suoi nervi,» osservò Sandion. Il dottore annuì, controllò la benda che copriva gli occhi. «Due centimetri cubici di artrodina al tre percento,» disse all’infermiera. Poi di nuovo a Sandion: «Abbiamo lasciato intatto un altro nodulo del cervello precedente, la formazione del linguaggio e il centro di identità, una questione probabilmente essenziale quanto l’organizzazione visiva. È stato necessario recidere il resto del cervello, un peccato sotto certi aspetti. I ricordi e le associazioni sarebbero inestimabili per il nostro giovanotto, e i Phalid hanno certamente sensi speciali sui quali mi interesserebbe avere un rapporto di prima mano.» «Ah, sì,» disse ancora il dottore mentre l’infermiera gli porgeva un’ipodermica. «Una faccenda peculiare,» continuò usando l’ipodermica. «Posso trapiantare un cervello umano in questa… questa creatura; se invece trasferissi un cervello in un altro corpo umano, ucciderei quel cervello.» Restituì l’ipodermica vuota all’infermiera, e si pulì le mani. «Viviamo in uno strano mondo, non credi, Comandante?» Il Comandante Sandion gli rivolse un rapido sguardo sardonico e un cenno di assenso. «Uno strano mondo davvero, dottore.» La personalità, il senso del proprio ego distintivo, vennero risucchiati da un limbo di tenebra. Per la seconda volta, Ryan Wratch ripiegò i duecento piccoli schermi sulle fessure oculari attorno a più di metà di quella che adesso era la sua testa. Non vide altro che oscurità, e davanti all’organo visivo sentì un’oppressione. Giacque tranquillo, ricordando il pazzesco tumulto di luci e forme e colori sconosciuti visto la prima volta, e fu temporaneamente contento di essere sdraiato al buio. Gradatamente divenne consapevole di nuove sensazioni nel funzionamento del proprio corpo. Non respirava più. Invece, una continua corrente d’aria soffiava lungo condotti pulsanti, e fuoriusciva dalle branchie sulla testa. Non poteva determinare da dove la inalasse. Divenne conscio di una peculiare sensibilità tattile, un’esatta percezione strutturale. Le aree sensibili erano la parte inferiore e la punta degli arti superiori, mentre il resto del corpo era meno sensibile. In questo modo conobbe l’esatta qualità del tessuto sotto di sé, percepì la trama, la disposizione dei fili, l’essenziale, assolutamente intrinseca natura della fibra. Udì suoni aspri e stridenti. Improvvisamente, e traumaticamente, si rese conto che erano voci umane. Stavano chiamando il suo nome. «Wratch! Mi senti? Muovi il braccio destro per confermare.» Wratch mosse l’arto superiore destro. «Sento benissimo,» disse. «Perché non posso vedere?» Parlò istintivamente, senza pensare, senza ascoltare la propria voce. Qualcosa di strano lo costrinse a fermarsi e riflettere. Le parole erano fluite dolcemente dal cervello all’osso del diaframma risonante nel petto. Quando parlava la voce risuonava naturale sulle vibrisse sotto il carapace, sul dorso, che erano gli organi uditivi. Ma dopo un istante a tentoni, il cervello di Wratch realizzò che la voce non era stata umana. Era stata una serie di ronzii e brusii, molto differente da quella che gli aveva fatto la domanda. Allora tentò di pronunciare parole umane, e trovò l’impresa impossibile. Il suo organo del linguaggio era inadatto a sibilanti, nasali, dentali, fricative, esplosive, sebbene potesse indicare le vocali intonando la voce. Dopo lo sforzo di un momento si rese conto della propria inintelligibilità. «Stai cercando di parlare in Inglese?» giunse la domanda. «Muovi il braccio destro se sì, il sinistro se no.» Wratch mosse il tentacolo destro. Poi, decidendo che desiderava vedere, lo portò alla fessura oculare per sentire cosa gli ostacolasse la vista. La sensazione di un impedimento lo trattenne. «È meglio che lasci la mascherina così com’è per il momento, fino a quando prenderai maggiore confidenza con il corpo del Phalid.» Wratch, rammentando l’abbaglio che l’aveva colto la prima volta, lasciò cadere il tentacolo. «Non capisco come riesca a padroneggiare così rapidamente l’uso degli arti,» disse Sandion. «Il sistema nervoso di un Phalid è essenzialmente simile a quello umano,» spiegò il dottor Plogetz. «Wratch forma un pensiero nel suo cervello, lo fa passare attraverso gli adattatori fino alla spina dorsale, e i riflessi si occupano del resto. Perciò, quando cercherà di camminare, se tenterà di dirigere il movimento di ogni zampa sarà goffo e sgraziato. Se invece dirà semplicemente al suo corpo di camminare, esso camminerà naturalmente, automaticamente.» Plogetz guardò di nuovo la creatura sul tavolo. «Sei comodo? I tuoi sensi sono lucidi?» Wratch mosse con uno scatto il tentacolo destro. «Senti qualche influenza della volontà del Phalid? Intendo dire, ci sono conflitti sul cervello da parte del corpo?» Wratch pensò. Apparentemente non ce n’erano. Si sentiva Ryan Wratch, tanto quanto si era sempre sentito, nonostante la sensazione di essere costretto in un imprigionamento innaturale. Tentò di parlare ancora una volta. Strano, pensò, come gli veniva facilmente il linguaggio dei Phalid, una lingua che non aveva mai sentito. Come prima non riuscì a raggiungere nemmeno un’approssimazione del linguaggio umano. «Qui c’è una matita, e della carta per scrivere,» disse la voce. «Scrivere a occhi bendati forse sarà difficoltoso, ma provaci.» Wratch afferrò la matita e, lottando contro un impulso di scribacchiare una linea ad angoli acuti, scrisse: «Riesce a leggere?» «Sì,» disse la voce. «Chi è lei? Il dottor Plogetz?» «Sì.» «L’operazione è riuscita?» «Sì.» «Sembra che io conosca il linguaggio dei Phalid. Lo parlo automaticamente. Voglio dire, il mio cervello pensa e la voce viene fuori nel linguaggio dei Phalid.» «Non c’è nulla di cui meravigliarsi.» Com’era stridula la voce del dottor Plogetz! Wratch si ricordava che suono aveva prima del trasferimento: un baritono piuttosto profondo, normale, gradevole. «Abbiamo lasciato un segmento del cervello del Phalid nella scatola cranica, il nodulo della produzione e della comprensione del linguaggio. L’ignoranza della lingua dei Phalid sarebbe un vero inconveniente per te. Abbiamo lasciato anche il nodulo che coordina le immagini dei duecento occhi, altrimenti ci sarebbe solo una visione indistinta. Persino così com’è, credo noterai una considerevole distorsione.» Considerevole distorsione! pensò Wratch. Ha! Se solo il dottor Plogetz avesse potuto vedere una fotografia a colori di cosa aveva visto. Un’altra voce si indirizzò a Wratch, una voce ancora più acuta, con uno stridore monotono che irritava i nuovi nervi di Wratch. «Salve, Wratch. Sono Sandion… il Comandante Sandion.» Wratch se lo ricordava abbastanza bene, un uomo scuro e sottile, molto rigido e veemente, che aveva parecchie responsabilità nella campagna contro i misteriosi Phalid. Era Sandion che l’aveva interrogato dopo la strana schermaglia su Kordecker Tre Quattro Tre nel Sagittario, dove i Phalid avevano ucciso i due fratelli di Wratch e avevano lasciato Wratch morente. «Salve, Comandante,» scrisse Wratch. «Per quanto tempo sono stato privo di sensi?» «Quasi due mesi.» Wratch emise un brusio di sorpresa. «Cosa è successo in questo tempo?» «Hanno attaccato altre quindici navi, quindici come minimo, in tutto il cielo. Navi distrutte dalle fiamme, equipaggi e passeggeri morti o dispersi. Hanno teso un agguato a tre incrociatori da battaglia, in tempi diversi, naturalmente; uno in Ercole, uno in Andromeda, e un altro a nemmeno tre anni luce da Procione.» «Stanno diventando sfacciati!» scrisse Wratch. «Possono permetterselo,» disse Sandion amaramente. «Hanno già ridotto di un terzo la nostra flotta da guerra. Sono dotate di una maledettissima mobilità. Siamo come un cieco che cerca di battere venti moscerini con dei lunghi coltelli. E non conoscendo la posizione del loro pianeta madre, siamo impotenti.» «Questo è lavoro mio,» scrisse Wratch. «Non dimenticare che con loro ho un debito personale. I miei due fratelli.» «Uhmm,» grugnì Sandion, e disse arcigno: «Il tuo lavoro… e il tuo suicidio.» Wratch annuì con un movimento del corpo. La testa, montata sul collare corneo che sormontava il carapace nero, non poteva annuire. «Quando arrivai da Plogetz stavo morendo, ero morto al novantanove percento. Cosa posso perdere?» Sandion grugnì ancora. «Bene, devo andare. Stai tranquillo e riposa.» Sorrise sarcasticamente alla signorina Elder. «Sei un uomo fortunato, con una bella infermiera e tutto il resto.» Per quello che mi serve, pensò Ryan Wratch. Il Comandante di Settore Sandion si recò al portello, il cui cristallo leggermente brunito lasciava trasparire la vista di dodici torri scintillanti disposte tra parchi e laghi, reti di esili rotte aeree, e un traffico aereo brulicante. Il veicolo aereo di Sandion, attaccato magneticamente alla barriera di parcheggio, era sospeso fuori dall’ufficio del dottor Plogetz. Vi salì, e il veicolo sfrecciò via verso la Torre di Controllo Spaziale, verso il suo ufficio e l’interminabile studio delle carte spaziali. Il dottor Plogetz si rivolse a Wratch. «Adesso,» disse, «ti toglierò la mascherina. Non preoccuparti, e non meravigliarti per la confusione. Pensa a rilassarti e guardati in giro.» Due settimane più tardi Wratch era in grado di muoversi per le sue stanze senza cadere addosso al mobilio. Questo non significava che vedeva le cose come prima. Era come imparare da capo a vedere in un mondo quattro volte più complesso. Tuttavia, se il futuro di Wratch avesse avuto in serbo la minima speranza di qualcos’altro che non fosse una lotta disperata e senza amici, e alla fine una triste morte, l’esperienza avrebbe potuto essere piacevole. Malgrado tutto, era costantemente stupito e affascinato dai colori, dai toni e dalle sfumature, ardenti, fresche, malinconiche, focose, mistiche, che impartivano a ogni cosa una sembianza nuova e meravigliosa. L’occhio umano vede rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, viola. Wratch aveva sette altri colori, tre sotto il rosso, tre sopra il viola. Poi c’era un’altra lunghezza d’onda alla quale erano sensibili i suoi duecento occhi, un colore proprio in cima allo spettro, un colore glorioso e nebuloso. Riuscì a determinare tutto ciò con l’aiuto di un piccolo spettroscopio datogli dal dottor Plogetz. Descrisse la singola banda di colore al dottor Plogetz, che era molto interessato a tutte le osservazioni di Wratch, e che gli suggerì di chiamare quel colore «callicromo», una parola che secondo il dottor Plogetz derivava dal greco. Wratch era d’accordo, dal momento che la parola dei Phalid per il colore era foneticamente «zz-za-mmm», più o meno, un termine piuttosto inelegante da scrivere sulla lavagna che il dottor Plogetz gli aveva portato. Gli altri colori vennero chiamati sub-rosso 1, sub-rosso 2, sub-rosso 3, super-viola 1, super-viola 2, super-viola 3. Wratch restava incantato semplicemente guardando fuori la città, osservando i colori cangianti del cielo, che non era più azzurro, ma una gradazione di azzurro e super-viola 1 e 2. Le torri non erano più torri. Distorte dal nodulo visivo del Phalid, apparivano a Wratch come brutte cose sottili, e i piccoli veicoli aerei affusolati che prima aveva ritenuto belli e slanciati sembravano tozzi e deformi. Niente, in effetti, pareva come prima. Gli occhi e il segmento cerebrale del Phalid alteravano l’aspetto di ogni cosa. Uomini e donne avevano grottescamente cessato di essere creature umane. Erano divenuti creaturine frettolose e lebbrose, con la faccia appiattita e lineamenti estremamente sgradevoli. Ma per compensare la perdita delle facoltà umane, Wratch scoprì dentro di sé un potere che forse, in precedenza, avrebbe potuto essere stato latente nel suo cervello. Senza la normale percezione della gente che lo circondava, incapace di interpretare le espressioni facciali, il tono di voce, i cento piccoli atteggiamenti, Wratch scoprì gradatamente di essere in ogni momento consapevole delle loro emozioni interne. Forse era una facoltà universale, forse un attributo del Phalid racchiuso nei due noduli cerebrali. Non lo seppe mai con esattezza, ma in questo modo Wratch apprese che la bella signorina Elder era nauseata e spaventata quando le sue mansioni la portavano vicino a lui; che il dottor Plogetz, uno scienziato freddo e preciso, lo considerava con poco sentimento al di là di un intenso interesse. Riguardo alla signorina Elder, Wratch si ritrovò perplesso scoprendo che non gli sembrava più bella. Se la ricordava, una creatura magnifica con lucenti capelli scuri, grandi occhi teneri, un corpo flessuoso come un salice piangente. Adesso, ai suoi duecento occhi, la signorina Elder era un bipede pallido con una faccia che sembrava un pesce palla dei mari profondi, e una pelle non più piacevole di una grossa fetta di fegato crudo. E quando si rimirava allo specchio… ah! Che creatura infinitamente superiore, dicevano i suoi occhi, alta, maestosa, aggraziata! Che carapace lucente, che tentacoli flessuosi! Un nobile contegno, occhi acuti che scrutavano l’orizzonte, becco vigile, e com’erano simmetriche le nere spugne baffute! Un aspetto quasi regale. E Ryan Wratch si sentì alquanto a disagio trovandosi costretto ad accettare così completamente la versione dei fatti esterni propria del Phalid, e si teneva costantemente in guardia contro la sottile influenza dei suoi sensi alieni. Il Comandante di Settore Sandion un giorno tornò. Gravemente strinse uno dei tentacoli di Wratch. «Ho sentito che ti stai adattando molto bene,» disse Sandion. Per Wratch era ancora impossibile parlare il linguaggio degli uomini. Andò alla lavagna. «Quando comincio?» scrisse. Sandion gli sembrava una creatura alterata color fango, nervosamente agile come una lucertola. «Puoi cominciare domani, se sei pronto,» disse Sandion. «!!!» scrisse Wratch; poi: «Fammi un riassunto.» «Nell’ultima settimana, due corvette di pattuglia e due navi di linea Transpaziali sono state distrutte, vicino a Canopus,» disse Sandion. «Equipaggi e passeggeri, quelli che non sono stati uccisi, sono stati tutti portati via. Apparentemente i Phalid stanno mantenendo una forza consistente qui vicino. Hanno perlustratori ovunque, nella zona. Abbiamo avvistato e distrutto tre o quattro navicelle a due posti, non più grandi di un veicolo aereo. Dunque, domani parti per Canopus su un’altra corvetta. Pattuglierete lentamente fino a quando verrete attaccati. Poi l’equipaggio fuggirà sulle navicelle di salvataggio, cercando di raggiungere Lojuk, presso la Stella di Fitzsimmon, dove abbiamo una stazione astroscopica. «Da quel momento seguirai la procedura che abbiamo già discusso.» «Sono pronto,» scrisse Ryan Wratch. «Beh, dannazione,» disse il Capitano Dick Humber, e lanciò l’elmetto sul sedile ribaltabile. «Non ci resta altro che mandare un invito scritto. Nove maledetti giorni e non abbiamo individuato nemmeno una maledetta traccia.» «Forse non vedremo niente,» disse Cabron, il pessimista ufficiale di rotta. «Forse ci sarà solo un lampo e saremo tutti morti.» Humber gettò un’occhiata alla lunga forma nera che guardava fuori dal portello. «Comunque hai una prospettiva maggiore di Wratch,» disse mitemente. «Wratch comincia dove tu finisci.» Un tentacolo nero si contorse. «Finora Wratch ha badato fin troppo bene a se stesso,» borbottò Cabron. «Non so in quante direzioni può guardare con quei maledetti occhi, ma so che vince ottocento muniti a poker.» Wratch sorrise fra sé. Era così facile leggere gioia, dubbio, sgomento, nella mente dei suoi avversari, e poiché non aveva alcuna intenzione di riscuotere, vincere gli pareva un innocuo passatempo, specialmente contro il malinconico ma enfatico Cabron. Un allarme rauco fischiò. Ci fu un secondo di paralizzata inattività. «Tutti alle navicelle!» gridò il Capitano Dick Humber. «Ci siamo!» Una corsa ben disciplinata, i portelli si aprirono, sbatterono, si richiusero. «Arrivederci, Wratch! Buona fortuna!» Il Capitano Humber strinse il tentacolo nero. Si arrampicò nell’apertura, lo sbocco che portava dalla cattura a opera dei furtivi Phalid alla salvezza su Lojuk. Wratch dominò il breve impulso di seguirli, vide chiudersi il portello della navicella di salvataggio un istante prima del portello dello scafo. Il sibilo come di cartucce ad aria compressa, quattro colpi, e le quattro navicelle vennero espulse dalla loro culla. Silenzio. Adesso ci siamo, pensò Wratch. Fino a quel momento, era stata solo speculazione, procedura sperimentale. Se i Phalid li avessero incrociati, se gli uomini fossero riusciti a scappare, se… Secondo il piano, Wratch fece scivolare gli arti superiori in un paio di manette, le chiuse con uno scatto, e si dispose ad attendere che i suoi compatrioti lo liberassero. Oppure che sopraggiungesse una morte maledetta e rapida, se non si fossero sentiti rassicurati a sufficienza dalla fuga delle quattro navicelle. Ma i minuti passavano e ancora non vedeva l’immensa e silenziosa fiammata improvvisa del raggio d’azione dell’arma usata dai Phalid, che neutralizzava i legami molecolari dissolvendo la materia in atomi sciolti e impazziti. Una grande forma fluttuò nello spazio davanti ai portelli, una massa enorme, vasta come le più grandi navi di linea terrestri. Poco dopo un urto violento contro lo scafo, e il raspare della nave appoggio che si affiancava. Il portello si spalancò. Wratch vide il luccichio di corpi scuri… proprio come già una volta, su Kordecker 343 nel Sagittario, dove avevano ucciso i suoi due fratelli, e ripartendo su un incrociatore terrestre si erano lasciati alle spalle un esemplare della loro razza, il cui corpo adesso Wratch aveva indosso. Entrarono tre Phalid, con i tentacoli che stringevano fucili esplosivi dalla strana forma: misteriose creature aliene, che solo un uomo — Ryan Wratch — aveva visto ed era sopravvissuto per raccontarlo. E Ryan Wratch adesso non aveva certo molto da vivere, e non l’avrebbe mai, pensò, potuto raccontare. Lo videro, i loro passi si fecero esitanti. Che nobili figure, agli occhi da Phalid di Ryan Wratch, che andatura maestosa! Wratch cercò di sentire con la propria mente le emozioni che era stato in grado di individuare negli uomini, ma sentì solo il vuoto. Allora le emozioni erano un attributo umano? O forse la facoltà telepatica di Wratch si esplicava solo su cervelli terrestri? Incerto se i Phalid possedessero oppure no tale facoltà, Wratch tentò di predisporsi in uno stato di piacere e di benvenuto. Ma i Phalid parvero subito considerarlo con indifferenza. Fecero un giro di ricognizione della nave e, senza avere trovato nulla, ritornarono. Allora, con grande sorpresa di Wratch, lo ignorarono di nuovo e iniziarono a lasciare la nave. «Un momento,» chiamò nel linguaggio ronzante dei Phalid. «Liberate il vostro fratello da questi maledetti vincoli di metallo.» Si fermarono, e lo scrutarono come presi alla sprovvista, o così parve a Wratch. «Impossibile,» disse una. «Conosci bene Bza,» la parola usata era intraducibile, ma significava «costume, ordine, regolamento, procedura», «che rende necessario fare il primo rapporto a Zau-amuz.» Così il nome, o titolo, suonò all’organo uditivo di Wratch. «Sono stanco, debole,» si lamentò Wratch. «Pazienza!» ronzò bruscamente il Phalid; e con una punta di dubbio: «Dov’è la sopportazione del Phalid, il suo stoicismo?» Wratch si rese conto che la sua condotta era in contrasto con il codice prestabilito, e subito scivolò nella passività. Dieci minuti dopo i tre Phalid ritornarono, presero il giornale di bordo, e uno o due strumenti che attirarono il loro interesse. Quasi per un ripensamento, uno si avvicinò a Wratch. «La chiave è su quello scaffale,» ronzò Wratch. Venne liberato, e costrinse nella propria mente una sensazione di sollievo e di gratitudine. Le seguì nella navicella a forma di scatola, meravigliandosi per l’indifferenza con la quale lo accettavano. Rimase in silenzio in un angolo della navicella mentre volavano verso il grande scafo che galleggiava a dieci miglia di distanza, e i Phalid restarono ugualmente in silenzio. Non avevano la minima curiosità? Com’era bella la loro grande nave agli occhi da Phalid di Wratch, così sospesa nell’opaco lucore del nero spazio, così aggraziata e potente rispetto ai vascelli tozzi e schiacciati dei piccoli Terrestri frettolosi! Questo era il messaggio degli occhi di Wratch. Ma la sua mente era tesa e circospetta. Aveva anche paura, ma la paura era così poco importante ormai da tanto tempo che non ne era più consapevole. Wratch si era riconciliato con la morte. La tortura sarebbe stata spiacevole. Represse l’impulso umano di scrollare le spalle. Il suo stesso corpo era morto, bruciato e ridotto a un pugno di cenere, e sapeva che mai più avrebbe rivisto il pianeta dov’era nato. Ma se per una fantastica possibilità avesse portato a termine quella missione, migliaia, forse milioni — forse anche bilioni — di vite sarebbero state salvate. Wratch osservò con attenzione per imparare i comandi della navicella, in caso avesse avuto bisogno di tale conoscenza. Scoprì che erano relativamente semplici, disposti secondo un sistema che sembrava universale e usuale ovunque creature intelligenti costruissero astronavi. Essenzialmente una leva guida era montata su un cardine universale per il governo del timone, e una ruota su una forcella consentiva il controllo della velocità. Si avvicinarono alla nave dei Phalid, un cilindro scuro piatto alle due estremità, con bande longitudinali di metallo sub-rosso. La navicella d’appoggio a forma di scatola rallentò, si fermò, si incastrò nel recesso apposito sul fianco della nave, e i portelli si aprirono con uno scatto. Wratch seguì i Phalid nel passaggio. Lì, con suo grande stupore, lo abbandonarono, allontanandosi in differenti direzioni, e lasciandolo sconcertato in mezzo al corridoio, senza seguirlo, senza interrogarlo, apparentemente libero di agire secondo il suo volere. Com’era diversa dalla disciplina di una nave terrestre! L’uomo tratto in salvo sarebbe stato sballottato in un trambusto di eccitazione fino all’ufficio del Comandante. Sarebbe stato investito di domande, la sua memoria sarebbe stata frugata alla ricerca di qualunque dettaglio dei dispositivi nemici che avesse potuto concepibilmente notare. Wratch era fermo, perplesso, in mezzo al corridoio, e i Phalid della nave, intente ai loro compiti, passavano oltre. Cercò di ragionare sulla situazione. Forse era stato scoperto, e gli davano corda per saggiare le sue intenzioni? In qualche modo non poteva convincersene. L’atteggiamento di quelli che l’avevano portato a bordo era troppo casuale per essere finto. Se avessero avuto in mente di ingannarlo, così pensava Wratch, l’avrebbero indubbiamente interrogato in modo sommario, e apparentemente soddisfatte l’avrebbero rilasciato sotto stretta sorveglianza. Ma forse non c’era nessun inganno. Wratch si rammentò che una razza aliena non poteva essere giudicata secondo valori umani. Su nessuno dei Phalid poté notare distintivi o evidenze di rango. Ognuna sembrava avere un compito specifico, come formiche estremamente intelligenti, pensò Wratch. In quel caso, quando era stato portato a bordo, non ci sarebbe stato bisogno di interrogarlo; avrebbero supposto che il suo istinto e l’addestramento l’avrebbero guidato automaticamente ai suoi doveri. Questa ipotesi poteva spiegare il ritardo nel liberarlo dalle manette fissate al puntello nella corvetta. Una razza di individui — come i Terrestri — sarebbe stata indotta dalla sorpresa, dalla curiosità, dalla simpatia, a liberare un compagno prigioniero prima di compiere qualunque altra azione. Wratch vagabondò lungo il corridoio, sbirciando mentre procedeva nelle camere che si aprivano su ogni lato. Vedeva e si meravigliava, e tuttavia non poteva essere certo di quello che vedeva a causa dell’ingannevole vista da Phalid. All’estremità opposta trovò delle macchine, e comprese che dovevano trattarsi di motori a propulsione. Percorse un passaggio trasversale alla nave, e riprese a camminare nella direzione opposta. A giudicare dalle apparenze, lo schema della nave era costituito da due corridoi longitudinali paralleli lungo i due lati opposti della nave, e, come sulle navi terrestri, i comandi erano davanti e i motori a propulsione dietro. Progetto, ingegneria, meccanica, erano tutti concetti universali, pensò Wratch, e consentivano di risolvere un dato problema con sviluppi estremamente efficienti all’incirca nello stesso modo. Com’era con i Terrestri, così era anche con i Phalid. In questo caso il problema era il modo migliore di attraversare lo spazio. La soluzione era una nave spaziale meccanicamente non tanto diversa dalle navi terrestri. Malgrado l’apparente libertà, Wratch era perplesso e imbarazzato. Si era aspettato sospetti, esami minuziosi e profondi, forse un rapido smascheramento della sua vera identità. Non gli sembrava naturale che tutti lo ignorassero. In quel momento la sua incertezza venne dissipata. Una forte voce ronzante si diffuse per la nave. «Dov’è colui che è stato trovato sulla nave degli uomini insetti? Non è ancora venuto al cospetto di Zau-amuz.» La voce denotava stupore piuttosto che sospetto. Dove, chi è Zau-amuz? si chiese Wratch. Dove sarebbe andato a trovarlo? Se la situazione era simile a quella di una nave terrestre, allora sarebbe stato avanti e in alto sopra la prua. Affrettò il passo in quella direzione, guardando in ogni portello in cerca di un indizio, un segno. Dietro una porta sbarrata scorse fugacemente due o tre dozzine di esseri umani, se fossero uomini o donne la sua vista di Phalid non avrebbe saputo dirlo. Esitò, si fermò un istante a guardare. Ma potevano aspettare. Adesso era impaziente di trovare Zau-amuz prima che venisse fatta una ricerca, un’indagine, prima che lui e la sua menzogna venissero scoperti. In una camera sotto la cabina di pilotaggio Wratch fu certo di vedere il padrone della nave. La camera era decorata in uno stile che affascinava i suoi sensi di Phalid: un soffice tappeto di due toni sopra il viola, pareti tinte di azzurro ricoperte di trafori fantasticamente ricchi, mobili bassi di plastica rosa e bianca, con inseriti dei medaglioni di quel colore alto nello spettro che il dottor Plogetz aveva chiamato «callicromo». Zau-amuz era un Phalid gigantesco, grosso due volte Wratch, con un cervello supersviluppato e un addome più grande del normale. Il suo carapace era smaltato di una sfumatura sopra il viola. Le zampe posteriori sembravano invece sottosviluppate, troppo deboli per sopportare tanto peso anche per breve tempo. Se ne stava steso su un lungo giaciglio, e gli occhi di Wratch pensarono a quanta gloria e maestà erano incarnate lì in Zau-amuz. Ignorando assolutamente la procedura corretta, ma sperando che la cortesia formale e le rigide norme cerimoniali fossero abitudini non praticate dai Phalid, Wratch avanzò lentamente. «Riverito, io sono colui che è stato prelevato dalla nave degli uomini insetti,» disse Wratch. «Sei in ritardo,» disse il grande Phalid. «E dov’è il tuo senso di Bza?», l’intraducibile parola che significava «costume, regolamento, antiche maniere.» «Chiedo perdono, essere intelligente. Come prigioniero degli uomini insetto, ho visto cose talmente sgradevoli che, aggiunte alla gioia di riunirmi ai miei compagni, hanno temporaneamente tolto ai miei sensi la loro piena efficienza.» «Ah, sì,» ammise il Signore dei Phalid. «Eventi simili non sono una novità. Come ti è successo di cadere nelle mani delle creature insetto?» Wratch fece il resoconto degli avvenimenti che avevano portato alla cattura del Phalid di cui ora aveva indosso il corpo. «Comprendo la situazione,» disse Zau-amuz. Non erano evidenti né la rudezza, né la asprezza che Wratch associava alla disciplina terrestre. Invece il Phalid sembrava dare per scontato la lealtà e l’industriosità dei suoi simili. «Hai nessuna osservazione significativa da riferire?» «Nessuna, grandiosità, tranne che gli uomini insetto erano così terrorizzati dall’approssimarsi di questa nave che sono fuggiti in preda al panico più completo.» «Questo l’abbiamo già notato,» disse Zau-amuz con un vago accenno di fastidio. «Vai. Esegui qualche compito utile. Se i tuoi sensi non si sistemano, gettati nello spazio.» «Vado, magnificenza.» Wratch si ritirò, compiaciuto per come si era svolto il colloquio. Adesso era un membro riconosciuto dell’equipaggio della nave. L’interrogatorio era stato più semplice di quanto avrebbe potuto immaginare. Adesso se solo la nave si fosse diretta al pianeta madre dei Phalid, se gli fossero stati concessi pochi minuti da solo, a terra, tutto sarebbe andato bene. Vagabondò per la nave, e dopo poco giunse a una sala buia, evidentemente destinata all’assorbimento di cibo. Vide venti o trenta Phalid che con un mestolo si versavano una pappa marrone nel sacco gastrico all’altezza del torace, masticavano rumorosamente gambi di un vegetale che sembrava sedano, staccavano segmenti da mazzi come grappoli d’uva, e li infilavano nel sacco gastrico. Quei grappoli sembravano essere il cibo più appetitoso. Infatti Wratch divenne consapevole che il suo corpo aveva un gran desiderio di quei grappoli, un bisogno come un assetato che anela all’acqua. Entrò, e cercando per quanto possibile di passare inosservato, prese un grappolo da una tinozza e lasciò che il suo corpo si nutrisse. Con sua sorpresa, scoprì che i grappoli erano vivi, e si contorcevano e dimenavano tra le sue dita, e pulsavano freneticamente nel sacco gastrico. Ma erano deliziosi; e lo colmarono di una sensazione di meraviglioso benessere. Voleva intensamente prendere un secondo grappolo, ma forse, pensò, non era un comportamento corretto. Così attese finché vide un Phalid prendere un secondo grappolo, e allora fece altrettanto. Dopo il pasto si recò alla prigione dei Terrestri. Nella porta, sbarrata con una semplice barra esterna, era inserita una spessa lastra trasparente. All’interno notò due Phalid che si muovevano tra i Terrestri, li tastavano, esaminavano la pelle e gli occhi, come veterinari che ispezionano una mandria di bestiame. Wratch provò un leggero senso di nausea. Poveri diavoli, pensò, e li commiserò come non faceva mai con se stesso. Lui, almeno, aveva un dovere da compiere che lo spronava, e poi i Phalid avevano ucciso i suoi fratelli. Lui le odiava. Ma quei prigionieri erano bestiame condotto al macello, erano confusi, spaventati, innocenti. Un piano gli si formò all’improvviso nella mente. Forse, senza rischiare nulla, poteva riuscirci. Andò in ricognizione lungo il corridoio, contò circa trenta passi dalla prigione fino al portello d’entrata della navicella d’appoggio. La navicella era grande abbastanza, pensò Wratch, per contenere, con un minimo di affollamento, i venti o trenta prigionieri terrestri. Aveva notato delle bombole d’acqua di emergenza nella navicella, e presumibilmente c’era del cibo. Ad ogni modo, era una prospettiva migliore che essere portati come prigionieri sul pianeta madre dei Phalid. Il corridoio era temporaneamente sgombro. Wratch si assicurò velocemente che il portello fosse aperto, e ritornò alla prigione. I due Phalid all’interno erano sul punto di andarsene, conducendo in mezzo a loro uno dei prigionieri che tentava di divincolarsi e gridava per il terrore. Ma lo portarono fuori dalla prigione, nel corridoio, e Wratch attese che si fossero allontanati sulle nere gambe articolate, fino a sparire alla vista; poi sollevò la barra, ed entrò nella cella. I prigionieri lo guardarono apatici, e Wratch, notando particolari come capelli più lunghi, statura più bassa, si accorse che circa metà dei prigionieri erano donne, evidentemente provenienti da una nave passeggeri distrutta dai Phalid. Una matita sporgeva dal taschino di un uomo. Wratch gli si avvicinò, la prese, e, raccogliendo un foglio di carta dalla scrivania, si ritirò in un angolo poco appariscente e scrisse: «Non sono un vero Phalid. Vi aiuterò a fuggire. Dillo ai tuoi compagni. Potete parlarmi in Inglese. Capisco.» Tese il messaggio all’uomo più vicino. L’uomo lesse, e fissò Wratch stordito per lo stupore. «Ehi, Wright, Chapman, guardate qui!» gridò, e passò il foglio agli altri due. In un momento il foglio era stato letto da tutti. Stavano mostrando troppa eccitazione. Wratch temeva che un Phalid di passaggio gettasse un’occhiata all’interno, e venisse messo sull’avviso dall’insolita attività. Scrisse un altro biglietto. «Comportatevi più naturalmente. Io rimarrò fuori dalla porta. Quando vi faccio cenno, uscite alla svelta, girate a destra, entrate nel secondo portello alla vostra sinistra, a circa trenta iarde lungo il passaggio. Lì dentro c’è una navicella di salvataggio, con comandi molto semplici. Tutto deve essere fatto velocemente.» Sottolineò la parola «velocemente». Quando sarete sulla navicella, allora dovrete badare a voi stessi. Il regolatore della propulsione è la ruota sulla forcella. La navicella viene liberata sganciando i due morsetti appena dentro il portello.» Lessero il biglietto. «Come facciamo a sapere che non è un trucco?» disse una voce. «Trucco o no, è un’occasione,» disse il primo uomo. «Procedi pure,» disse a Wratch. «Aspettiamo il tuo segnale.» Wratch agitò il tentacolo in quello che sperava essere un cenno rassicurante, poi uscì dalla prigione lasciando la barra alzata. Il passaggio era vuoto. Per quanto ascoltasse, non udiva alcun suono di passi in avvicinamento, il lento schiocco secco che produceva il bordo corneo attorno al centro spugnoso del piede di un Phalid battendo contro il lucido materiale del ponte. Spalancò la porta, chiamò con un cenno i Terrestri che aspettavano in uno stato di tensione; poi rapidamente percorse a lunghi passi il corridoio nella direzione opposta, per essere quanto possibile distante dal luogo della fuga. Ma dietro il primo angolo incontrò i due Phalid che erano usciti dalla prigione, e ora stavano riportando il prigioniero che avevano preso, e che Wratch vide essere una donna. Doveva trattenerli, anche se la sua ultima risorsa era sempre nella cassettina di emergenza, che portava fissata sotto il carapace, alta e invisibile. Ma l’avrebbe usata solo come ultima risorsa. Si fermò in mezzo al passaggio. «Quali sono le vostre conclusioni sull’intelligenza di questa razza?» chiese. I due Phalid si fermarono, lo esaminarono attentamente. «Hanno un senso dei valori insolito e capriccioso,» disse uno dei Phalid. «Le loro azioni non sono governate da Bza, l’ordine costituito, ma piuttosto dalla volontà individuale.» «Che strano manicomio dev’essere il loro mondo!» esclamò Wratch. «Indubbiamente,» disse il secondo Phalid. Stavano mostrando impazienza. Ma Wratch, oltre al desiderio di farli tardare, cercava davvero informazioni. Voleva sapere perché venivano presi dei prigionieri, e perché venivano portati sul pianeta dei Phalid. Ma era comunque conscio che una domanda diretta avrebbe sollevato dei sospetti. Tentò una via traversa. «Ma saranno sufficientemente adatti ai nostri propositi?» «È probabile,» fu la risposta. «Il furto è un compito peculiarmente consono alla loro natura imprevedibilmente scaltra.» Furto? Forse i Terrestri venivano fatti prigionieri e trasportati attraverso anni luce di spazio da un gigantesco sindacato del crimine? Ma i due Phalid, senza ulteriori indugi, lo oltrepassarono. Preoccupato si affrettò dietro a loro, temendo di trovare i Terrestri ancora nel passaggio. Se fossero stati veloci, sarebbero già stati sulla navicella, e lontani dalla nave. E con dieci o quindici minuti di vantaggio, sarebbe stata un’impresa difficoltosa ritrovarli. I Phalid raggiunsero la prigione, aprirono la porta, e spinsero dentro l’unica prigioniera. Poi rimasero paralizzati per la sorpresa. La prigione era vuota. Ronzando aspramente uscirono dalla cella, e si immersero in un dialogo molto serio. Wratch, soddisfatto, ritornò sui suoi passi non visto. Poco dopo la nave vibrò e rallentò, mentre i Phalid perlustravano il vuoto in cerca della navicella rubata. Ma se i Terrestri avevano agito con astuzia, costeggiando tranquillamente dopo il primo breve scatto al massimo della potenza, solo un caso avrebbe potuto farli scoprire. In pochi minuti la nave dei Phalid riprese la velocità consueta, e non rallentò più, e Wratch dedusse che la fuga dei prigionieri era stata un successo. Senza altro di meglio da fare, e sentendosi come uno strano passeggero in un’ancora più strana crociera di piacere, Wratch vagabondava per la nave, osservando e ascoltando, ma apprendendo ben poche informazioni importanti. I Phalid comunicavano raramente tra di loro, probabilmente perché erano tutte dello stesso stampo. La personalità sembrava essere un concetto incomprensibile per la loro mente. Wratch trovò solo un portello trasparente in tutta la nave, nella cupola del pilota sulla prua, proprio sopra la camera di Zau-amuz. Si arrischiò ad andarci, aspettandosi quasi di venire interrogato oppure cacciato, ma nessuno dei due Phalid ai comandi gli prestò la minima attenzione. Wratch osservò il cielo cercando schemi stellari conosciuti, e per la prima volta gli rincrebbero i sette nuovi colori del suo spettro. Perché le stelle erano completamente diverse per aspetto, qualcuna splendente dei colori sopra al viola, qualcun’altra dei colori sotto al rosso. Wratch si sentì completamente perduto. Cercò furtivamente delle mappe stellari, ma non ne vide nessuna, e non osò chiederne. Si ritrovò a vagabondare di nuovo verso la prigione, come un criminale che si dice ritorni sulla scena del delitto. Per la verità, Wratch era preoccupato per l’unica disgraziata prigioniera rimasta. Quanto grande doveva essere la sua infelicità, pensava, aggravata dalla solitudine! Sbirciò attraverso il pannello. La vide, seduta col mento posato tra le mani. Wratch sapeva che era una donna per la lunghezza dei capelli; altrimenti i suoi occhi di Phalid non gli fornivano alcun indizio sul suo aspetto. Senza pensare Wratch tolse la barra alla porta ed entrò nella cella, anche se in seguito si maledisse per avere esposto tutto il piano a un simile rischio. E se il suo interesse per la prigioniera avesse sollevato dei sospetti? Se fosse stato portato al cospetto di Zau-amuz, e questa volta interrogato a fondo? Al suo avvicinarsi la donna alzò lo sguardo, e Wratch percepì che nel suo cervello avveniva un cambiamento dall’apatia al sordo orrore e all’odio. Tuttavia alla radice di tutto c’era una vitalità strana e cocciuta, che non poté non guadagnarsi la sua ammirazione, anche se ai suoi occhi aveva l’aspetto di una creatura sgradevole e umida, con una testa sormontata da una massa fibrosa e arruffata di capelli. «Gli altri sono scappati, e credo che siano in salvo,» scrisse. «Io li ho aiutati. Mi dispiace che in quel momento tu non fossi in cella. Tieni alta la testa. Hai un amico a bordo.» La sorpresa le si fece strada nel cervello, seguita da piccoli, dubbiosi barlumi di speranza. «Chi sei?» La sua voce era perplessa, esitante. «Scrivi quasi come scriverebbe un uomo.» «Sono un uomo, per così dire,» scrisse Wratch. «C’è il cervello di un uomo in questa brutta scatola cranica.» La donna lo guardò, e Wratch sentì l’improvviso, caldo ardore della sua ammirazione. «Sei molto coraggioso,» gli disse. «Anche tu,» le scrisse; poi d’impulso: «Non sentirti troppo disperata. Farò del mio meglio per aiutarti!» «Non mi importa più adesso,» gli disse. «Mi basta sapere che c’è qualcuno vicino. Odiavo essere da sola.» «Devo andare,» scrisse Wratch. «Non sarebbe bene che venissi scoperto qui. Tornerò appena sarà sicuro.» Mentre usciva dalla porta, la sua mente colse meraviglia e gratitudine, e un barlume di piacevole, calorosa amicizia. Parlare con la donna rallegrò Wratch. Alieno e dissociato dall’umanità com’era divenuto, il suo cervello si era gradatamente mutato in un congegno pensante, freddo e meccanico. E, pensò Wratch con un’improvvisa fitta di amarezza, in realtà non era altro che quello, un meccanismo con una certa funzione da adempiere prima di sottomettersi alla distruzione. Una volta acceso l’interruttore che avrebbe reso completa la sua missione, se mai fosse giunto tanto lontano, la sua vita non sarebbe valsa più di un corpuscolo di polvere astrale. In qualche modo vedere la donna prigioniera, la cui situazione era per alcuni versi peggiore della sua, ma che non aveva nemmeno la soddisfazione di compiere un dovere, vedere quella donna, sentire il calore della sua mente, aveva creato in lui un impulso a vivere di nuovo come un essere umano. Il che, tanto per cominciare, era impossibile. Il suo corpo era morto, e secondo il dottor Plogetz il suo cervello non poteva sopravvivere in un altro corpo umano. Il tempo passò. Giorni? Settimane? Wratch non riusciva a rendersene conto. Due o tre volte fece fugaci visite alla prigioniera. Era una donna giovane, decise, piuttosto che di mezza età, prendendo come dimostrazione il contorno nitido del mento e della mascella e una certa vivacità del passo. Le visite lo mettevano sempre di buon umore, e perversamente lo lasciavano con un senso di insoddisfazione per ciò che la vita gli aveva dato. Molto era mancato a Ryan Wratch, sebbene viceversa avesse sperimentato molto che a uomini più prudenti e legati alla Terra non era dato provare: la solennità di tuffarsi da solo nel nero vuoto infinito, il brivido di eccitazione nell’atterrare su un pianeta sconosciuto, il cameratismo dei suoi due fratelli nei rudi piaceri degli avamposti spaziali, l’incanto di avvistare un pianeta non segnato sulle carte, al confine tra noto e ignoto, un mondo che poteva mostrargli bellezze nuove e meravigliose o una civiltà fiorente, nuovi metalli rari o gioielli, rovine di antichità cosmiche. C’era veramente un fascino meraviglioso nell’esplorazione dello spazio e nel commercio indipendente, e Wratch sapeva che se anche gli fosse stata data una nuova prospettiva di vita, non avrebbe comunque mai potuto riconciliarsi a un’esistenza tranquilla sulla Terra. E tuttavia Wratch pensava a tutto quello che la vita gli aveva negato. Il colore, la vivace gaiezza delle cosmopolite città terrestri nei periodi più spettacolari e prosperosi della storia del mondo; la musica, la televisione, gli spettacoli, le città di villeggiatura, quasi febbrili al ritmo dei loro piaceri; la società delle donne civilizzate, con le loro risate, la bellezza e la giovinezza. Wratch allontanò con rabbia tali pensieri dalla sua mente. Era un — come si era definito? — un meccanismo con una determinata funzione da compiere prima di abbandonarsi alla distruzione. Così il tempo passava, e gli anni luce scemavano dietro il vascello spaziale dei Phalid. Ma se si stessero allontanando dal Sole, se vi si stessero avvicinando, o se stessero procedendo paralleli a esso, Wratch non lo sapeva. Camminava per i corridoi, riposava nella stanza buia dal pavimento soffice disposta a quello scopo, si nutriva. Aveva mangiato i grappoli solo una volta, e poiché da quella volta se ne era sentito sazio, si riempiva il sacco gastrico soltanto di pappa marrone, e del sedano rosso scuro. Nessuno degli altri Phalid lo infastidiva, nessuno gli faceva domande, nessuno sembrava notare che non aveva alcuna occupazione. Ogni Phalid aveva un lavoro da fare, e lo eseguiva al massimo dell’efficienza. Wratch aveva comunque la sensazione che in una situazione di emergenza un Phalid avrebbe saputo agire, e avrebbe agito, con prontezza e iniziativa; ma costituzionalmente era fatta per seguire la consuetudine — Bza — ciecamente, per lasciare che la responsabilità pesasse sulle nere spalle cornee di quelli come Zau-amuz. Poi, un giorno, girovagando senza meta per la sala motori, Wratch notò un’insolita vivacità e sveltezza. Si affrettò alla cupola di pilotaggio, e dal portello che dava sullo spazio vide un grande mondo grigio sotto la nave. Da un lato era sospesa una fioca stella verdastra. Quello era il mondo natio dei Phalid, la cui posizione era un segreto avvolto nel mistero per quelli della Flotta Spaziale Terrestre. Quella era la meta di Wratch. Wratch scrutò il cielo, ma per quanto tentasse non era in grado di riconoscere nessuno dei punti di riferimento che nelle situazioni di emergenza nello spazio rendevano possibile la stima della posizione. Le Pleiadi, la costellazione di Orione, il Sacco di carbone, Corona, quelli e venti altri il cui aspetto da ogni angolazione veniva martellato nella testa di tutti gli studenti di navigazione spaziale. Wratch guardò avvicinarsi la superficie del pianeta, vide continenti nebbiosi, mari apparentemente salmastri. Si accorse che i piloti lo stavano osservando con stupita attenzione dalle ampie fessure ottiche. «Stiamo per atterrare, fratello,» disse uno dei piloti. «Come mai non sei a fare il tuo dovere?» «Il mio dovere è qui,» disse Wratch, pensando in fretta, sperando di non avere scelto la risposta sbagliata. «Osservo la forma delle nubi mentre atterriamo.» «È questa la volontà di Zau-amuz?» insisté il Phalid. «È strano, perché non è Bza. C’è qualche errore. Chiederò al Nominato.» Prese un’asta sensoria e la premette contro il diaframma toracico. «Dov’è il dovere di colui che deve osservare la forma delle nubi?» ronzò. E la risposta venne da una barra vibrante sporgente sopra i controlli. «Non c’è niente di simile. È un errore. Mandatelo da me.» «Attraverso quel passaggio,» disse il Phalid, passivo e indifferente adesso che aveva scaricato la faccenda. «Zau-amuz correggerà i tuoi ordini.» Wratch non poteva fare altro che obbedire. Non c’erano mezzi di evasione possibili. Il passaggio conduceva soltanto a un luogo: la camera di Zau-amuz. Wratch allungò un tentacolo nella cassetta di emergenza fissata sotto il carapace, e tirò fuori un piccolo oggetto di metallo. Era un peccato venire scoperto adesso che la sua meta era così vicina. Avanzò, e trovò Zau-amuz che lo fissava in un esame intenso e interessato. «Strane cose sono successe a bordo,» ronzò il Nominato. «Prigionieri terrestri fuggono, senza lasciarsi alle spalle alcun indizio di come siano fuggiti. Un fratello Phalid perde molto tempo vagando per i corridoi e nella cupola di pilotaggio, osservando le stelle, quando Bza richiede che compia il suo dovere sulla nave. Un altro fratello — o forse lo stesso — esegue ordini inesistenti di studiare la conformazione delle nubi mentre ci avviciniamo al pianeta Madre. E questi fenomeni accadono solo dopo che un fratello viene tratto in salvo da un vascello del popolo insetto, che in questo caso non oppone la solita frenetica resistenza, ma fugge con un’insolita codardia. Ora…» e i toni di Zau-amuz si fecero taglienti e acuti «questi eventi puntano a un’inevitabile conclusione.» «Proprio così,» disse Wratch, inconsapevolmente drammatico. «La morte!» Spianò l’arma manuale sul mostruoso Phalid. Uno scoppio, un rimbombo staccato, e la grossa testa del Nominato si contorse e si raggomitolò in una minuscola palla nera carbonizzata. Puzza e fetore riempirono la stanza. Zau-amuz si accasciò, rabbrividì, ed era già morto. Lungo il passaggio arrivò correndo uno dei piloti. Vide il corpo prono, lasciò cadere il proprio alto corpo nero in una posizione contorta, e diede libero sfogo a un urlo di un’angoscia talmente spaventosa che il cervello di Wratch ne rintronò. Il racconto di migliaia di orrori, l’oltraggio che supera l’umana comprensione, il massacro, la tortura, la perversione, tradire la fiducia di un mondo intero, tutto ciò era una banalità in confronto al delitto che aveva commesso. Wratch prontamente uccise il pilota. Poi tornò correndo nella cupola. Si fermò sulla soglia. Coraggio, coraggio, coraggio/ disse a se stesso. Non devo rinunciare adesso! Entrò lentamente nella stanza, osservando il pilota Phalid con disperata intensità, cercando di leggere la mente nascosta. Tentò un trucco fuori dall’ordinario. A quanto sapeva, i Phalid erano uno esattamente uguale all’altro. Almeno ai suoi sensi terrestri non era evidente alcuna differenziazione fisica. Scivolò nella poltroncina occupata poco prima dal pilota morto. Quello ancora rimasto era concentrato sui comandi, e rivolse a Wratch solo un rapido sguardo. «Cos’era quella confusione?» «Zau-amuz ha dato nuove istruzioni,» disse Wratch. «Dobbiamo atterrare con la nave in un luogo desolato.» Il pilota emise un brusco ronzio. «Una strana contraddizione rispetto ai suoi recenti ordini. Ha specificato esattamente quali coordinate?» «Ci dà l’autorità di usare il nostro proprio giudizio,» disse Wratch, con la sensazione di essere protagonista di un evento senza precedenti. «Dobbiamo semplicemente scegliere un’area disabitata e isolata, e atterrare.» «Strano, strano,» ronzò il pilota. «Quanti eventi singolari in così poco tempo! Forse faremmo meglio a verificare con Zau-amuz.» «No!» disse Wratch in tono imperativo. «È molto impegnato in questo momento.» Il pilota apportò alcuni cambiamenti ai quadranti. Wratch, ignorando assolutamente in cosa consistessero le proprie mansioni, si appoggiò allo schienale e osservò attentamente il paesaggio. «Attento al tuo lavoro!» latrò improvvisamente il pilota. «Compensa la torsione radiale!» «Sto male,» disse Wratch. «La vista mi si offusca. Compensa tu la torsione.» «Che fantasia è mai questa?» esclamò il pilota con furibonda impazienza. «Da quando gli occhi di un Phalid si offuscano davanti al suo dovere? Non è Bza!» «Tuttavia è così che deve essere,» disse Wratch. «Dovrai far atterrare la nave da solo.» E in mancanza di un’alternativa, il pilota, ronzando sommessamente per l’eccitazione nervosa e la stupefatta indignazione, si dispose al suo compito. Il pianeta si ingrandì. Wratch si sedette comodamente, e scoprì in se stesso un’ombra di divertimento ai frenetici sforzi del pilota per fare il lavoro di entrambi. Nel campo visivo apparve una città, un luogo bellissimo agli occhi di Phalid di Wratch, con bassi edifici a cupola di un materiale scuro e luccicante, molte piazze pentagonali, color marrone scuro e intarsiate con vasti mosaici convenzionali di due sfumature sotto al rosso, un’alta torre a forma di pilone terminante in una sfera dalla quale sporgevano due coni opposti, sottili e tronchi, il tutto ruotante piano contro il cielo verde oliva. La città era rannicchiata su un terreno scuro e pianeggiante. Un fiume indolente scorreva a breve distanza, e poi una palude, e, sebbene ormai abituato alle sfumature e ai valori dei tredici colori dei Phalid, Wratch non poté non stupirsi dei bizzarri effetti che il fioco sole verde modellava sul paesaggio buio. Passarono sopra la città, e subito dopo su quella che sembrava essere la zona industriale. Wratch vide enormi pozzi fiammeggianti, sparute strutture nere nel cielo, distese di scorie, gru sorprendentemente simili a quelle terrestri. La città svanì oltre l’orizzonte. Sotto di loro la desolazione. «Atterra vicino a quell’alta collina,» disse Wratch. «Vicino al limitare della foresta.» «Avevo capito che i tuoi occhi si offuscavano,» disse il pilota, senza rabbia né sospetto — tali emozioni sembravano estranee alla loro natura — ma semplicemente sorpreso. «Vedono bene in lontananza,» spiegò Wratch. «Uno strano viaggio, strano davvero!» ronzò il Phalid. Fare atterrare la grande nave in perfetto equilibrio era un compito arduo per un solo pilota, e Wratch fu costretto ad ammirare la destrezza con la quale il Phalid affrontò il problema. Una razza a un alto livello di adattabilità, pensò, quando il problema era chiaro davanti ai loro occhi. Ingenui e innocenti, addirittura, quando una situazione poteva venire affrontata con Bza. La nave scese verso il terreno erboso soffice e scuro, esitò, toccò terra, stabilizzò il grande peso, rimase immobile. «Adesso gli ordini di Zau-amuz sono che tu aspetti qui la sua chiamata, mentre io vado altrove,» disse Wratch. Si alzò in posizione eretta, un’alta creatura nera, cornea nel corpo e nel carapace, con gambe articolate, braccia tentacolari chiazzate, un complessa testa da insetto. Ma dentro quella testa pulsava un cervello terrestre, e il cervello urlava: «Ora! Ora! Ora!» Teso per l’eccitazione percorse il passaggio a lunghi passi. Corse alla prigione, tolse la barra alla porta, fece un cenno veloce alla donna. La donna esitò, non riconoscendolo, e Wratch sentì la sua paura. E tuttavia lo affrontava arditamente. Le fece un altro cenno, con maggiore urgenza. Non c’era tempo per scrivere. Indicò se stesso, poi la donna, che d’un tratto comprese, corse avanti. Le fece segno di essere prudente, e la scortò fuori nel corridoio. Si udì un urlo agonizzante. I Phalid avevano trovato Zau-amuz. Affrettandosi ormai apertamente, Wratch condusse la donna verso il portello di uscita. La voce dell’orrendo assassinio viaggiava veloce, e ogni Phalid sembrava paralizzato, svuotato di ragione e volontà. Il portello di uscita era un congegno dall’intricata struttura. «Aprite il portello,» disse Wratch a due Phalid lì vicino. «È stato l’ultimo ordine di Zau-amuz.» I Phalid, storditi, obbedirono. Wratch e la donna si precipitarono sulla strana distesa erbosa del mondo dei Phalid. Mentre così facevano, dall’interno giunse l’enorme ronzio del sistema di altoparlanti della nave. «Terribile tradimento! Atti inconcepibili! Catturare i due che hanno lasciato la nave!» Wratch si buttò in una corsa dinoccolata, annaspando contemporaneamente sotto il carapace nella cassetta di emergenza per trovare il fulcro di tutta l’avventura. Nella cassetta c’era un dispositivo composto di tre parti: un minuscolo accumulatore a energia atomica, un commutatore molto resistente, abilmente costruito, e una griglia di trasmissione smontabile. Mentre correva Wratch tirò fuori le tre componenti, ma il tempo di fermarsi a metterle insieme purtroppo mancava. Già i Phalid uscivano a fiumi dalla nave, e rimbalzavano sull’erba scura in salti sgraziati. La donna non era d’intralcio. Teneva facilmente il passo con la rapida corsa del corpo del Phalid. A Wratch venne in mente che doveva essere giovane e forte per correre così bene. Illogicamente desiderò poterla vedere com’era veramente, cioè come l’avrebbero vista occhi terrestri. Ai suoi occhi di Phalid era pallida, umida, e simile a un rettile. Una collina rocciosa e spoglia era alla loro sinistra, mentre di fronte e a destra si stendeva una foresta ricca di una vegetazione che, sebbene i suoi occhi di Phalid trovassero familiare in modo intimo e terribile, il suo cervello terrestre percepì come la vegetazione più strana mai vista in tutta la vita. Gli alberi erano enormi, col tronco grosso come quello dei funghi mangerecci, con un fogliame lanuginoso e viticcioso, foggiato e tessuto in giganteschi anemoni di mare, splendenti di tutti i colori della Terra, dei sei colori contigui dei Phalid, e di ogni tono, combinazione e gradazione concepibili. Il cuore cavo sulla sommità di ogni albero scintillava di un bellissimo callicromo. I colori erano vivaci e luminosi come la luce del sole attraverso vetri dipinti, e la foresta era sgargiante per quanto la luce del fioco sole verde le permettesse. Sembrava particolarmente magnifica accanto alle scure colline ondulate e alle paludi verdi e umide coperte di bassi giunchi. E, sebbene gli alberi, se di alberi si trattava, possedessero una bellezza impetuosa, i tronchi e i rami avevano un aspetto paffuto e carnoso che inquietava. Wratch aveva bisogno solo di tre minuti per fare quello che doveva, e la foresta sembrava essere l’unico rifugio, la sola possibilità per un temporaneo nascondiglio. Fugacemente si domandò il motivo della soffocante familiarità della foresta. Era forse una suggestione, un’aura degli stessi Phalid? Eppure, com’era possibile? I lunghi passi di Wratch esitarono, vacillarono un momento. La foresta era davanti, e i Phalid erano dietro, perciò la foresta era la minore delle due minacce. Si guardò attorno disperato, ma non vide nessun’altra possibilità di fuga, e obbligò il corpo dinoccolato a dirigersi verso le navate ombreggiate di porpora. Improvvisamente scoprì che era il corpo del Phalid, e non la sua mente, che temeva la foresta colorata. Ogni cellula fremeva di una paura profondamente radicata, un istinto che faceva rabbrividire le fibre del grande corpo nero. La vegetazione così gaiamente striata sembrava una compagine di mostri grotteschi, e le profondità ombrose erano ostili come la morte. Un colpo sparato da un’arma dei Phalid passò sopra la sua testa. La foresta era vicina. Wratch non esitò. Con i nervi tremanti, vi si tuffò. Corse e corse, cambiando direzione per confondere gli inseguitori. La ragazza cominciava a essere stanca, e i suoi passi stavano ovviamente rallentando. Wratch si guardò indietro e non vide altro che i grossi tronchi di cento fantastici colori. Era una foresta di morte. Vide molti involucri opachi di Phalid morti da tempo, carapaci neri, secchi come elitre abbandonate da scarafaggi giganteschi, e con un moto di orrore vide uno scheletro umano, bianco, miserabile, e indicibilmente perduto in quella giungla aliena. Allora si fermò, si mise in ascolto, ogni vibrissa uditiva tesa nella camera di risonanza sotto il carapace. Silenzio. Nessun rumore di passi. Si erano forse liberati degli inseguitori? Il terrore avvertito dal corpo lentamente iniziò a pervadergli il cervello. Guardò in alto, guardò in basso, non vide altro che stormire di foglie, tronchi grassocci, rosso, verde, giallo, arancione, azzurro, i sette colori dei Phalid, combinazioni infinite. Ciò nondimeno Wratch percepiva un’intelligenza vicina, udiva voci malevole parlargli sopra la testa, sogghignare maligne in spaventosa anticipazione. Dal tronco di un albero cresceva un grappolo di quel frutto delizioso che aveva mangiato sulla nave. Era stanco, aveva bisogno di cibo. Stava quasi allungando un tentacolo per raccoglierlo, ma pensò che non aveva tempo per il cibo. O forse una sorta di istinto l’aveva messo in guardia? Ritirò il tentacolo, si allontanò. La sua prima preoccupazione era di montare il trasmettitore di segnale. Posò le tre parti sul terreno umido e freddo, e si mise al lavoro. Tre navicelle spaziali dei Phalid fischiarono basse nel cielo verde scuro, alla ricerca, pensò Wratch, dei due che erano fuggiti dalla nave. Osservò il fogliame spugnoso. Si era infittito, si era forse abbassato, avvicinato? Questo pensiero mandò spasmi incontrollati attraverso il corpo. Risolutamente ignorò il terrore riflesso, montò i tre pezzi del dispositivo il cui buon funzionamento era atteso da un pianeta intero. Aveva quasi finito. Doveva stringere la connessione, far scattare l’interruttore, e scagliare nello spazio un raggio permanente che avrebbe eccitato, entro cinque minuti, cento relè in altrettante navi della flotta spaziale terrestre. Ma Ryan Wratch venne interrotto. Udì un urlo acuto e stridente. Si girò di scatto e vide la ragazza lottare contro tre o quattro gambi luccicanti che erano spuntati dal terreno. Erano germogli all’apparenza fragili, ma incredibilmente mobili e resistenti, che cercavano di crescere attorno a lei, e di imprigionarla in un fitto intreccio. Wratch sentì una cosa liscia e fresca tastargli il dorso. A quel tocco il nero corpo lucente si afflosciò, si rilassò in un fluire di pace cantilenante, immerso nella beata conclusione della vita. Il cervello umano di Wratch protestò, lottò freneticamente, inviò ordini a nervi riluttanti. Scalciò, e le fiacche membra spezzarono il fragile gambo. La vita ritornò lentamente nel corpo. Corse a strappare le radici avvinghiate alla ragazza. Una le si avvolse intorno al ginocchio. La ragazza gridò ancora, e la sua agonia colpì come un maglio il cervello di Wratch. Batté, colpì, schiacciò, liberò la ragazza. Perdeva sangue dal ginocchio. La ragazza rabbrividì, gli si strinse vicino, e Wratch sentì nel suo cervello un sollievo soffocato per essere libera, per essergli accanto. E Wratch, ricordando stranamente in quell’attimo il disgusto e la nausea della signorina Elder, fu grandemente sorpreso e anche un po’ imbarazzato. Tutto ciò accadde nei tre secondi che Wratch impiegò per estrarre la sua arma e ridurre il terreno circostante in un deserto fumante. Adesso, pensò, sapeva perché i Phalid avevano abbandonato la caccia sul limitare della foresta, sapeva perché i suoi istinti di Phalid si erano ribellati al pensiero di quelle navate dagli strani colori. A quanto pareva la foresta era un luogo maledetto. E a quanto pareva i Phalid confidavano che la foresta provvedesse a fare giustizia. Le radici spuntarono di nuovo, questa volta insolitamente esitanti, come se dirette da una vasta intelligenza offesa. Una forte voce ronzante risuonò dal fogliame sopra la loro testa. Wratch balzò per la radura, con l’arma pronta a sparare. «Fratello, fratellino, sei forse anormale di mente?» disse la voce in toni gentili e sorpresi. «Tu bruci le braccia che ti avvolgono per l’eternità? Non è Bza che ti ha condotto al Padre?» Wratch si guardò attorno in cerca del Phalid che aveva parlato, ma non vide nessuno. «No,» rispose. «Sono venuto qui per altri motivi. Vieni fuori, dovunque tu sia, o rado al suolo ogni albero in vista.» Una pausa. Wratch percepì un’intelligenza, una mostruosa intelligenza aliena, toccargli il cervello, e subito ritrarsi. «Ah, non mi meraviglio che tu uccida le braccia del Padre. Il tuo corpo è quello dei figli, il tuo cervello è una cosa orrenda, un’energia insidiosa e volubile, e non sai nulla di Bza.» «È vero,» disse Wratch, tenendo pronta l’arma. «Io sono del pianeta Terra, attaccato dalle creature di questo pianeta. E tu chi sei? Dove sei?» «Io sono tutt’attorno a te,» disse la voce. «Io sono la foresta… il Padre.» Per un attimo, la mente di Wratch fu presa alla sprovvista. Poi riacquistò il proprio equilibrio. Era molto interessante, ma il tempo stava passando. Ritornò lentamente dove aveva lasciato il trasmettitore. Era scomparso. Irrigidito per l’ansia, Wratch si voltò di scatto. Vide il trasmettitore su in alto, stretto da un germoglio bianco e spiraleggiante. «Lascialo,» ronzò incalzante. «Lascialo, ti dico!» «Calma, fratello, calma e silenzio nella foresta Padre. Questo è Bza.» Wratch colpì la base del gambo, che si spezzò e cadde. In un istante aveva liberato il trasmettitore. Uno stelo rapidamente lo avvolse da dietro e lo immobilizzò. Il trasmettitore cadde. Spuntò un altro stelo, e Wratch si ritrovò impotente. La ragazza gli corse accanto, tirò lo stelo, ma era più duro del primo, e rivestito di una pelle coriacea e flessibile. Wratch ronzò freneticamente rivolgendosi alla ragazza. Se solo avesse potuto parlare, se solo lei avesse capito! Con un calcio fece rotolare il trasmettitore in uno spazio aperto, e sempre con un calcio cercò di farla andare vicino al trasmettitore. La ragazza lo raccolse. «È questo che vuoi?» «Zz — zz — zz!» ronzò Wratch. «Una volta per no, due per sì,» gli disse, indietreggiando per evitare un braccio bianco che si avvicinava strisciando. «Vuoi che faccia qualcosa?» «Zz! Zz!» e Wratch tentò di annuire col collo rigido. La ragazza mise la mano sull’interruttore. «Devo girare questo?» «Zz! Zz!» L’interruttore scattò, il trasmettitore emise un brusio, un sibilo, una vibrazione. La griglia divenne bianca, fluttuò di cento colori, e lanciò un segnale potentissimo attraverso tutto il subspazio, un richiamo che convocava tutte le navi da guerra terrestri nella foresta Padre, sul pianeta del Phalid. In cinque minuti ogni pannello di allarme della flotta spaziale avrebbe risuonato di un folle ululato. Sarebbero stati seguiti cento vettori, e dove i vettori convergevano, lì si sarebbero diretti cento enormi vascelli armati. Ryan Wratch si rilassò. Adesso potevano anche ucciderlo. La sua missione era compiuta. Aveva tenuto fede al ricordo dei suoi fratelli. E la foresta Padre stava per ucciderlo. Lo sapeva, sentiva la certezza della propria morte, e il motivo quasi benevolo che la stava provocando. I bianchi steli si strinsero, cominciarono a buttare piccoli viticci avidi e curiosi per sondare le fessure e gli interstizi nella chitina. Wratch guardò la ragazza. Sentì la sua paura. Non era paura per se stessa! Era paura, e impulsiva compassione, per lui! Ryan Wratch voleva vivere. «Liberami!» gridò alla foresta. «Parlerò con te!» «Perché dovresti cercare di sfuggire a Bza?» chiese la voce gentile. «Il tuo cervello è una cosa aliena. Se obbediamo, potresti bruciare altre piccole braccia bianche.» «No, se non tenteranno di imprigionarmi ancora. Liberami! Se non lo fai dirò alla mia compagna di bruciare un grande cerchio nella foresta.» Le braccia subitaneamente si allentarono. Wratch in fretta se ne allontanò. La ragazza corse verso di lui, si fermò di colpo, non sapendo cosa fare. Wratch le accarezzò una spalla con un arto superiore. Poi si guardò attentamente attorno per controllare la presenza di furtive radici bianche, ma non ne vide. Percepiva un senso grandioso di guardinga cautela nella foresta, ma anche un lento ritirarsi della sua minaccia. Abbassò di nuovo lo sguardo sulla ragazza, sentendosi stranamente protettivo. Scrisse sul terreno erboso: «Grazie. Abbiamo vinto!» «Ma i Phalid non verranno a cercarci, e non ci uccideranno?» chiese la ragazza. «I Phalid hanno paura della foresta. Forse possiamo resistere fino all’arrivo delle navi terrestri,» scrisse Wratch nella scura terra argillosa. E nella mente di lei sentì una speranza, una calda felicità. «Torneremo mai sulla Terra?» Qualcosa dentro di lui si irrigidì. I pensieri in rapida sequenza furono come una doccia di acqua gelata. La desolazione gli offuscò la mente di grigiore. La Terra? Cosa c’era per lui sulla Terra? Il suo corpo era morto. Il suo cervello, trapiantato in un altro corpo, sarebbe morto. Non si era aspettato, nessuno si era aspettato che sopravvivesse alla sua missione. «Non lo so,» scrisse. Poi gettò un’occhiata alla griglia, che stava ancora gridando il suo messaggio attraverso il subspazio, e la depressione venne mitigata dalla cupa soddisfazione di avere portato a termine il suo lavoro. Di nuovo si guardò attorno. Non c’era alcun segno di vita, solo la sensazione della foresta, pensierosa, vigile, metà petulante e metà selvaggia. Un’intuizione della tremenda verità lo folgorò. Con improvvisa curiosità levò nell’aria il ronzante segnale di attenzione dei Phalid. «Qual è il tuo desiderio?» giunse la risposta dall’alto del fogliame multicolore. «Dimmi in che modo la foresta è il Padre.» «Dalla foresta viene il Frutto della Vita,» disse la voce. «Colui che se ne nutre viene impregnato di una seconda vita, e darà alla luce del sole verde un altro Figlio.» Debolezza. Nausea. Wratch fu percorso da un brivido ricordando l’avidità con cui aveva mangiato quel frutto a bordo della nave. Wratch sdraiò goffamente il nero corpo lucente nel salone della nave ammiraglia della flotta, la Canadian Might. Il mobilio terrestre mal si adattava alla sua struttura. Nemmeno la poltrona speciale costruita per lui nel reparto macchine della nave era del tutto confortevole. Accanto a lui sedeva la ragazza liberata dalla nave dei Phalid. Wratch aveva scoperto che il suo nome era Constance Averill. Il Comandante Sandion aveva appena lasciato il salone diretto al suo ufficio sul ponte di comando, e a parte Constance Averill, seduta in silenzio su una soffice poltrona poco lontano, la stanza era vuota. Era una stanza magnifica. Le pareti erano rivestite di cuoio, inciso e sbalzato di nero, rosso e azzurro fumo. Lunghi portelli, simili più a finestre che a portelli veri e propri, si aprivano sui neri panorami dello spazio, con stelle splendenti in alto, e altre stelle splendenti in basso. Sulle altre pareti erano appesi vistosi acquerelli dipinti da un secondo ufficiale con velleità d’artista: una vista delle Olympic Mountains di Coralangan, nel deserto di Songingk; nativi di Bao che pestavano la polpa di sanguisughe d’acqua; un paesaggio marziano, le rovine di Amth-Mogot. L’arredamento era color verde pastello e rosso mattone, le luci erano ambrate. C’erano molti scaffali e libri, e un apparecchio che univa televisione e cinema. Wratch sospirò mentalmente fra sé. Il suo corpo, infatti, non poteva sospirare. L’aria veniva pompata attraverso migliaia di condotti all’interno del guscio, automaticamente come il battito del cuore umano. Wratch si guardò attorno per la stanza senza muovere la testa. Tale era la virtù della fessura ottica e dei duecento occhi. Sapeva che era piacevole, che i Terrestri avevano progettato quella stanza perché fosse calda e vivibile, là fuori nel vuoto freddo e nero. Ma per Wratch era dura, spoglia, ed estranea. La Terra era a una settimana di volo. Due settimane indietro, un puntino insignificante nella Lira, ruotava il pianeta scuro e tenebroso dei Phalid, ora occupato da una guarnigione terrestre, e sorvegliato da due imprendibili fortezze terrestri ferme in orbita a mille miglia sopra l’equatore. La porta si aprì. L’antropologo militare entrò, si sedette, sistemò la piega dei pantaloni, e iniziò a parlare meticolosamente. Era un ometto innocuo, con una testa a cupola, alta e calva, un paio di baffi rossicci, e svelti occhi marroni. Da due settimane, giorno e notte, tormentava Wratch con continue domande. Wratch, che era immerso nei propri pensieri oscuri, non desiderava parlare con nessuno. Esclusa Constance Averill, che ormai parlava molto poco di qualunque cosa. «Da quello che mi ha detto,» disse l’antropologo, «e dalle osservazioni che ho potuto fare personalmente, sono giunto a una teoria sperimentale. Implica una peculiare serie di condizioni, a nostro parere, ma probabilmente non più strane di quanto circostanze analoghe apparirebbero ai Phalid. «Sono una razza divisa. Invece di differenziare il maschio dalla femmina, esse differenziano, rozzamente, pianta e animale. Il frutto della pianta fertilizza l’animale. L’animale, spinto dalla fame per il frutto, o forse da Bza, va a rubarlo. La pianta lo intrappola, lo divora, ed è così stimolata a produrre nuovi frutti.» L’antropologo li guardò con un’espressione di prudente trionfo. «E il piano era di addestrare i Terrestri al furto del frutto?» chiese Constance Averill. «Apparentemente la sostanza stimolante è presente nel corpo umano come nel corpo del Phalid,» disse l’antropologo. «Il clan dominante dei Phalid, i Nominati, erano preoccupati per il costante calo della popolazione. I governanti avevano raggiunto un alto livello tecnologico. Decisero di esplorare lo spazio per trovare una specie di creatura che potesse servire da mandatario per i Phalid nei pericolosi pellegrinaggi alla foresta Padre. «E così alla fine hanno incontrato i Terrestri nello spazio, e hanno preso alcuni prigionieri per fare l’esperimento. Questi, trattati psicologicamente in modo appropriato, si sono dimostrati quasi ideali per il lavoro. Si stavano preparando a partire con piani su grande scala per importare i Terrestri, far loro rubare il frutto dalla foresta, e portarlo in città. E se i Terrestri restavano intrappolati nella foresta Padre, ebbene, niente di male. Avrebbe dato come risultato una maggiore produzione di frutti.» Un assistente dell’antropologo entrò, e si chinò con deferenza verso l’antropologo. «I dettagli del trattato sono appena arrivati attraverso il permafono.» «Sì?» L’antropologo si drizzò a sedere, sbatté gli occhi. «Quali sono i termini?» «I Phalid pagano un’indennità, l’equivalente di cento milioni di muniti in metalli preziosi e merci rare. Noi stabiliamo un laboratorio, facciamo sbarcare un corpo di scienziati ricercatori, identifichiamo la sostanza che stimola la crescita dei frutti sugli alberi. Abbiamo contrattato un accordo per una quantità fissa di frutti all’anno. In altre parole coltiviamo la foresta.» L’antropologo era chiaramente interessato e piuttosto compiaciuto. «Mi chiedo quali effetti sociali avrà il trattato sui Phalid,» disse. «Cosa ne sarà della loro Bza, la loro omogeneità, i loro schemi culturali? Scusatemi,» disse a Wratch e a Constance Averill. «Devo proprio applicare i Teoremi di McDougall alla situazione.» E trotterellò via. Wratch e Constance Averill rimasero da soli. Wratch si guardò stancamente attorno per la stanza con i duecento occhi. Era bassa, sproporzionata; i colori erano aspri e discordanti. Gli uomini dell’equipaggio, gli antropologi, Constance Averill, erano tutti brutte creature aliene. Le loro voci gli irritavano le vibrisse auditive, i loro movimenti offendevano il senso estetico del Phalid. Divenne consapevole del fluire dei pensieri di Constance Averill. La risoluzione e la cocciuta vitalità che aveva subito notato e ammirato in lei erano andate lontano, fuori dalla sua percezione, sotto il tenore generale della sua mente, e al loro posto c’erano calore e premura, e buon umore. E anche un’insolita malinconia. Proprio in quel momento era malinconica, e stranamente timida. «Non sei felice, vero?» gli chiese. Wratch scrisse: «Sono riuscito a fare il mio lavoro. Ne sono contento. Ma oltre a questo… sono un pezzo da museo. Un fenomeno da baraccone.» «Non parlare così!» Wratch percepì un’immensa pietà. «Sei l’uomo più coraggioso del mondo!» «Non sono un uomo. Il mio corpo è morto. Non posso tornare nel corpo di un altro uomo. Sono prigioniero. Non mi piace particolarmente. Niente sembra giusto, né umano, attraverso questi occhi di Phalid.» «Che aspetto ho?» gli chiese con interesse. «Orribile. Mezza lucertola, mezza strega.» Wratch sentì la mente di lei scattare rapida, femminilmente allarmata. «Davvero non ho un brutto aspetto,» lo rassicurò. Ci fu una pausa. «Hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te,» gli disse. «E quel qualcuno sarò io.» Wratch era sinceramente sorpreso. Le sue dita tremavano mentre scriveva: «No! Mi prenderò una navicella spaziale, e vivrò fuori nello spazio per il resto della mia vita. Non ho bisogno di nessuno.» «Vengo anch’io.» «Non puoi. Cosa ne sarà della tua reputazione?» «Oh, credo di essere al sicuro con te,» disse ridendo. «E comunque non m’importa.» «Legalmente,» scrisse Wratch con sarcastica enfasi, «io sono una donna. Ho mangiato il Frutto della Vita. Alla fine questo corpo diverrà madre. Spero di non sviluppare un istinto materno.» La giovane si alzò. Stava piangendo. «No! Non parlare in quel modo! È orribile quello che ti hanno fatto!» Si asciugò furiosamente gli occhi con il dorso della mano. «D’accordo!» disse con rabbia. «Sono pazza. Sono malata di mente. Ebbene, è un anno bisestile. Io penso che tu sia l’uomo più meraviglioso che conosco. Ti amo. Non mi importa il tuo aspetto. Amo quello che ti fa agire, dentro. Così sono tua… e ho intenzione di assicurarmi che…» Wratch crollò nella poltrona. Il terzo ufficiale della nave entrò. «Un messaggio per lei, signor Wratch. È appena arrivato attraverso il permafono.» Wratch aprì la busta. Il biglietto diceva: «Caro Wratch; buone notizie per te, e te lo meriti. Abbiamo rattoppato il tuo corpo, e ti sta aspettando. È stata una dura battaglia. Abbiamo trapiantato un fegato nuovo, diciotto piedi di intestino tenue, una nuova gamba sinistra dal ginocchio in giù. «Non te l’ho detto prima perché non volevo creare false speranze, ed era tutto molto incerto. Non appena il cervello ha lasciato il corpo, i dottori e i chirurghi migliori del mondo ci hanno lavorato giorno e notte. «So che ti sentirai più allegro, adesso, e tra una settimana ti vedrò con piacere.» Wratch tese il permagramma a Constance Averill. Quando la guardò, piangeva ancora. I duecento occhi di Phalid non sapevano piangere. Nella sala d’aspetto dell’Atlantic-Space Combine Hospital erano seduti in una cinquantina, tutti in attesa di amici e parenti dimessi dai reparti nella torre sovrastante; questi uscivano dall’elevatore a cinque o dieci per volta, perché il Combine era l’ospedale più grande del mondo. Una ragazza sottile con lucenti capelli rosso scuro, un volto delicato e incantevole come un fiore, ma con una forza intrinseca chiara e sicura, sedeva nella sala d’aspetto. Fissava l’elevatore, osservando intensamente gli uomini — specialmente i giovani abbronzati — che ne uscivano e si mettevano a cercare le facce familiari nella sala d’aspetto. Una o due volte guardò più attentamente, poi si rilassò al suo posto. I minuti trascorsero. L’elevatore scese ancora una volta. La porta scorrevole si aprì, i pazienti dimessi uscirono. Uno di questi era un giovane, piuttosto magro ma muscoloso. Aveva una bocca grande che denotava il buon umore, il mento lungo con una cicatrice che gli attraversava la guancia, una pelle scura quasi quanto i capelli, l’abbronzatura dello spazio che non viene più via. La ragazza guardò, guardò ancora, si alzò lentamente, fece pochi passi esitanti. Il giovane si era fermato, stava osservando tra la folla. La ragazza restò immobile. Ci sarebbe stato qualcuno? Si era sbagliata? No, non poteva averlo confuso. Fece un passo avanti. Il giovane la vide, la guardò. Improvvisamente sorrise, tese le braccia, le prese entrambe le mani. «Constance.» Era un’affermazione, non una domanda. Per quasi un minuto si fissarono, ricordando. Lasciarono l’ospedale stringendosi l’uno all’altra. IL TEMPIO DI HAN Troppo impegnato nell’equa lotta per restare vivo, Briar Kelly non era ancora riuscito a disfarsi del travestimento. L’avventura era risultata alquanto più scabrosa di quanto fosse parsa all’inizio. Non si era aspettato un tale pandemonio. Fino al momento in cui era entrato nel bizzarro tempio buio a North City, il travestimento gli era stato utile. Si era confuso perfettamente con gli Han; nessuno gli aveva rivolto una seconda occhiata. Poi, una volta entrato nel tempio, si era trovato da solo, e il travestimento non era più stato necessario. Era un luogo insolitamente impressionante. Una capriata gotica sosteneva il soffitto; le alcove lungo le pareti erano stipate di cianfrusaglie. Lampade rosse e verdi gettavano una luce che veniva soffocata e assorbita dai tendaggi neri. Percorrendo lentamente la navata centrale, con i nervi a fior di pelle, Kelly si era avvicinato all’alto specchio nero all’estremità opposta, fissando il proprio indistinto riflesso con fascino ipnotico. Al di là c’erano profondità limpide, e Kelly avrebbe guardato più da vicino, se non avesse visto il gioiello. Era una sfera di freddo fuoco verde, posata su un cuscino di velluto nero. Meravigliato Kelly l’aveva sollevata con le dita, rigirata più volte, e poi era scoppiato il putiferio. Le luci rosse e verdi tremolavano, un corno d’allarme squillava come un toro impazzito. Sacerdoti vendicativi apparivano nelle alcove come per magia, e il travestimento costituiva uno svantaggio. Il mantello tubolare nero gli costringeva le gambe mentre correva indietro lungo la navata, giù per i gradini sconnessi, attraverso i vicoli sudici fino alla sua aeromobile. Adesso che si chinava basso sui comandi, il sudore formava piccole gocce sotto il cerone bianco, e la pelle gli prudeva e si accapponava. Dieci piedi più sotto, le pianure fangose incrostate di sale si allontanavano rapide a poppa. Giunchi giallo sporco sferzavano lo scafo. Premendosi il gomito contro il fianco, Kelly sentì la forma dura del gioiello. La sensazione sollevò emozioni diverse, tra le quali dominava l’apprensione. Abbassò l’aeromobile ancora più vicino al suolo. «Cinque minuti così, e sarò fuori dal raggio dei radar,» pensò Kelly. «Quando sarò tornato a Bucktown, sarò soltanto uno qualunque in mezzo a cinquantamila altri. Non possono certo individuarmi, a meno che Herli parli, o forse Mapes…» Arrischiò un’occhiata alla placca retrovisiva. North City era ancora visibile, un esagerato Mont St. Michel che spuntava dalle tetre paludi di sale. Esalazioni nebbiose sfocavano i dettagli; la città si confuse nel cielo, e infine cadde sotto la linea dell’orizzonte. Kelly alzò con cautela il muso dell’aeromobile, e si levò tangenzialmente alla superficie, dirigendosi verso Magra Taratempos, il caldo sole bianco. L’atmosfera si rarefece, il cielo divenne nero intenso, comparvero le stelle. C’era anche il vecchio Sole, una stella gialla sospesa tra Sadal Suud e Sadal Melik nell’Acquario, solo trenta anni luce per arrivare a casa. Kelly udì un debole suono sibilante. La luce cambiò, da bianca a rossa. Sbatté gli occhi, si guardò attorno stupefatto. Magra Taratempos era sparita. In basso a sinistra un gigantesco sole rosso opprimeva l’orizzonte; sotto, le paludi di sale fluttuavano in una nuova luce di colore rosso violetto. Stupito, Kelly passò lo sguardo dal sole rosso al pianeta, e di nuovo in cielo dove solo un momento prima c’era Magra Taratempos. «Sono diventato pazzo,» disse Kelly. «A meno che…» Due o tre mesi prima, a Bucktown circolava una strana voce. In mancanza di un divertimento migliore, i raffinati della città ne avevano fatto una barzelletta, e infine anche quella storia era diventata rancida e non se n’era più parlato. Kelly, che lavorava come scambista informatico alla stazione di astronavigazione, era bene al corrente di quella voce. Diceva all’incirca che un sacerdote Han, arcigno e tutto compreso sotto il nero mantello, era stato scaraventato nella palude da un raccoglitore di polline ubriaco. Come una tartaruga il sacerdote aveva sporto la faccia bianca da sotto il cappuccio del mantello, e nella parlata impura del pianeta aveva gracchiato: «Voi abusate dei sacerdoti di Han; voi vi beffate di noi e del nome del Grande Dio. Il tempo è breve. Il Settimo Anno è vicino, e voi atee creature terrestri cercherete di fuggire, ma non avrete un posto dove andare.» Questa era stata la storia. Kelly ricordava il lieto eccitamento che svolazzava di bocca in bocca. Fece una smorfia, osservando il cielo con nuova apprensione. I fatti erano davanti ai suoi occhi, innegabili. Magra Taratempos era svanito. In un altro quarto del cielo era apparso un nuovo sole. Incurante del raggio dei radar, alzò il muso e si liberò del tutto dell’atmosfera. Gli schemi stellari erano cambiati. Il buio avvolgeva metà del cielo, con qua e là il solitario scintillio di una stella, o il filo sottile di una lontana galassia. Nell’altro quarto una vasta chiazza di luce attraversava il cielo, una luminosità allungata e stretta con un rigonfiamento centrale, il tutto cosparso di un milione di minuscoli punti di luce. Kelly tolse energia al motore; l’aeromobile andò alla deriva. Indubbiamente la chiazza luminosa era una galassia vista da una delle sue frange esterne. In preda a uno stupore crescente, Kelly guardò di nuovo il pianeta sottostante. Verso sud vedeva l’altopiano triangolare sollevarsi con fatica e vigoria dall’acquitrino, e il Lago Lenore vicino a Bucktown. Proprio sotto di lui c’era la palude salata, e lontano a nord il mucchio di rovine dove gli Han avevano la loro città. «Guardiamo in faccia la situazione,» disse Kelly. «A meno che io sia uscito di mente — e non lo credo — l’intero pianeta è stato preso e portato in un nuovo sistema solare… ho sentito parlare di strane cose qui e là, ma questa le supera tutte…» Sentì il peso del gioiello in tasca, e con esso un nuovo brivido di apprensione. Per quanto ne sapeva i sacerdoti Han non potevano identificarlo. A Bucktown erano stati Herli e Mapes a spingerlo a quella bravata, ma avrebbero tenuto a freno la lingua. In apparenza se n’era andato nella sua capanna sulla sponda del lago, e nessuno poteva sapere dei suoi andirivieni… Girò l’aeromobile verso Bucktown, e mezz’ora più tardi atterrò alla sua capanna sul Lago Lenore. Si era grattato via il cerone dalla faccia; il mantello l’aveva scaricato in volo sopra la palude; e il gioiello gli pesava in tasca. La capanna, una costruzione bassa dal tetto piatto con pareti di alluminio e facciata di vetro, aveva un aspetto strano e poco familiare nella nuova luce. Kelly si diresse guardingo alla porta. Guardò a destra e a sinistra. Nessuno, niente in vista. Appoggiò l’orecchio al pannello della porta. Nessun rumore. Fece scorrere il pannello, entrò, percorse l’interno con una rapida occhiata. Ogni cosa sembrava come l’aveva lasciata. Andò verso il videofono, poi si fermò. Il gioiello. Lo tolse di tasca, lo esaminò per la prima volta. Era una sfera delle dimensioni di una pallina da golf. Il centro splendeva di un fuoco verde che scemava avvicinandosi alla superficie esterna. Lo soppesò. Era innaturalmente pesante. Affascinante in un modo strano, incantevole nell’insieme. Pensarlo attorno al collo di Lynette Mason… Non adesso. Kelly lo avvolse nella carta, lo infilò in un vaso vuoto. Dietro la capanna, un vecchio noce bianco si levava in pendenza dall’humus nero, e sovrastava il tetto come un ombrellone da spiaggia grigio e sbrindellato. Kelly scavò un buco sotto una delle radici arcuate e seppellì il gioiello. Ritornò nella capanna, andò al videofono, allungò la mano per chiamare la stazione. Mentre la mano era ancora distante dai bottoni, il cicalino suonò… Kelly ritrasse la mano. Meglio non rispondere. Il cicalino suonò più volte. Kelly rimase immobile, trattenendo il fiato, fissando il volto inespressivo dello schermo. Silenzio. Lavò via i resti del cerone, si cambiò d’abito, corse fuori, saltò nell’aeromobile e partì per Bucktown. Atterrò sul tetto della stazione, notando che l’aeromobile di Herli era parcheggiata al solito posto. Improvvisamente si sentì meno perplesso e disperato. La stazione, con i suoi macchinari, i solidi regolamenti in stile terrestre, emanava sicurezza, un senso di normalità. In qualche modo l’ingegnosità e l’aggressività che avevano portato gli uomini sulle stelle avrebbero risolto quell’enigma. O forse no. Forse l’ingegnosità poteva portare gli uomini attraverso lo spazio, ma l’ingegnosità si sarebbe sforzata inutilmente di localizzare un pianetucolo a centomila anni luce in una direzione sconosciuta. E Kelly aveva ancora il suo problema personale: il gioiello. Nella sua mente si formò un’immagine: la capanna sul lago, il decrepito parasole grigio del noce bianco, e, sotto la radice, il luccicante occhio verde del gioiello sacro. Nella visione vide la figura ammantata di nero di un sacerdote Han che si muoveva per lo spiazzo davanti alla capanna, e vide il lampo della faccia, bianca come la pasta del pane prima di essere messa in forno… Kelly rivolse uno sguardo inquieto al grande sole rosso, ed entrò nella stazione. La sezione amministrativa era vuota; Kelly salì le scale diretto al dipartimento operativo. Si fermò sulla soglia, ispezionò la stanza che copriva l’intera superficie del piano superiore. Banchi di lavoro facevano il giro della stanza, illuminati dalle finestre. Un cilindro lustro, il cosmoscopio, scendeva attraverso il soffitto, e sotto di esso c’era lo schermo per intercettare la proiezione. Quattro uomini erano in piedi vicino all’indice stellare, e stavano facendo scorrere un nastro. Herli alzò brevemente lo sguardo, ritornò al meccanismo di scatto. Strano. Herli avrebbe dovuto essere interessato, avrebbe almeno dovuto salutarlo. Kelly attraversò la stanza impacciato. Si schiarì la voce. «Ebbene… ce l’ho fatta. Sono tornato.» «Vedo,» disse Herli. Kelly tacque. Diede un’occhiata dalla finestra al sole rosso. «Cosa ne pensate?» «Non ne abbiamo la minima idea. Stiamo facendo passare i nastri stellari, nel caso improbabile che sia registrato… Una sorta di ultima speranza.» Di nuovo si fece silenzio. Prima che lui entrasse stavano parlando, e Kelly se ne accorse dal loro atteggiamento. Finalmente, con una forzata casualità, Mapes disse: «Sentito le novità?» «No,» disse Kelly, «No, non le ho sentite.» C’era dell’altro nella voce di Mapes, qualcosa di più personale dello spostamento del pianeta. Dopo un attimo di esitazione andò al videofono, digitò il codice per le notizie. Lo schermo si accese, mostrò un panorama dell’acquitrino. Kelly si sporse in avanti. Seppelliti fino al collo c’erano dodici ragazze e ragazzi della scuola secondaria di Bucktown. Su di essi strisciavano avidi i piccoli granchi a tre zampe; altri ancora sbucavano fuori dalla fanghiglia, o si avvicinavano scavando dei tunnel sotto i corpi che si contorcevano. Kelly non poteva sopportare le urla. Allungò una mano… «Lascia acceso!» disse bruscamente Herli, con un tono duro che Kelly non gli aveva mai sentito. «L’annuncio è tra poco.» L’annuncio venne, nella parlata impura e gracchiante dei sacerdoti Han. «Tra i forestieri c’è un ladro malvagio. Ci ha spogliati dell’Occhio del Settimo Anno. Che venga a pagare il suo debito. Fino a quando il ladro non avrà portato di sua propria mano l’Occhio del Settimo Anno al sacro tempio di Han, ogni ora un forestiero verrà seppellito nel recinto dei granchi. Se il ladro non si presenta, noi continueremo allo stesso modo, e metteremo fine alle creature terrestri.» Mapes disse, con voce tirata: «Hai preso tu il loro Occhio del Settimo Anno?» Kelly annuì intontito. «Sì.» Herli emise un suono aspro di gola, si allontanò. Miseramente, Kelly disse: «Non so cosa mi ha preso. Era lì… lucente come una piccola luna verde… e l’ho messo in tasca.» «Non startene lì impalato,» disse Herli con voce roca. Kelly andò al videofono, spinse i bottoni. Lo schermò cambiò, un sacerdote Han fissò il volto di Kelly. Kelly disse: «Ho rubato io il vostro gioiello… Non uccidete altra gente. Ve lo riporto.» Il sacerdote rispose: «Ogni ora, fino a quando non arriverai, una creatura terrestre morirà di una brutta morte.» Kelly si sporse in avanti, spense lo schermo con un colpo improvviso e furioso della mano. Si voltò, incollerito. «Non statevene lì a fissarmi in quel modo! Tu, Herli, tu mi hai detto che non sarei nemmeno riuscito ad arrivare fino al tempio! E chiunque di voi fosse stato al mio posto, e avesse visto quel gioiello come l’ho visto io, l’avrebbe preso.» Mapes ringhiò sottovoce. Le spalle di Herli sembrarono accasciarsi; distolse lo sguardo. «Forse hai ragione, Briar.» «Siamo così impotenti?» chiese Kelly. «Perché non abbiamo combattuto quando hanno preso quei dodici ragazzi? Ci saranno anche un milione di Han, ma noi siamo in cinquantamila, e loro non hanno armi, per quanto ne so.» «Hanno preso la centrale elettrica,» disse Herli. «Senza elettricità non possiamo distillare l’acqua, non possiamo irradiare le nostre colture idroponiche. Siamo in un vicolo cieco.» Kelly si allontanò. «Ci vediamo, ragazzi.» Nessuno gli rispose. Scese le scale, attraversò il parcheggiò fino alla sua aeromobile. Sentiva i loro occhi che lo guardavano dalla finestra. Salì, decollò, e via. Prima alla capanna sul lago, sotto il noce bianco a prendere l’Occhio del Settimo Anno, poi l’arco sul pianeta, da sud a nord. E infine la grigia fortezza dell’Insediamento Nord, e in mezzo il tempio buio. Kelly atterrò con l’aeromobile proprio davanti al tempio. Ormai la segretezza non aveva senso. Scese, e si guardò attorno nello strano crepuscolo purpureo che era giunto sulla città cadente. Alcuni Han gli passarono accanto, e Kelly vide il pallore delle loro facce. Salì lentamente i gradini del tempio, si soffermò indeciso sulla soglia. Non c’era motivo di aggiungere ulteriore provocazione alle sue offese. Senza dubbio avevano in mente di ucciderlo; poteva anche facilitare loro il compito, per quanto possibile. «Salve,» chiamò nell’interno buio, con una voce che cercò di mantenere ferma. «Non ci sono sacerdoti qui dentro? Ho riportato il gioiello…» Non ebbe risposta. Ascoltando con attenzione, udì un lontano mormorio. Avanzò di pochi passi nel tempio, scrutò lungo la navata. L’illuminazione soffusa rossa e verde confondeva piuttosto che aiutare la sua vista. Notò una curiosa irregolarità nel pavimento. Fece un passo, un altro, un altro ancora, calpestò qualcosa di soffice. Sotto i suoi piedi lampeggiò un biancore. Il pavimento era coperto di sacerdoti vestiti di nero, sdraiati a faccia in giù. Il sacerdote sul quale aveva camminato non emise alcun suono. Kelly esitò. Il tempo stava passando… Lasciò da parte tutti i suoi dubbi, le sue paure, le titubanze in un angolo della mente, avanzò a grandi passi, incurante di dove passava. Camminò in mezzo alla navata, tenendo in mano il gioiello. Più avanti vedeva la lucentezza dell’alto specchio nero, e lì sul cuscino nero c’era un secondo gioiello, identico a quello che riportava. Un sacerdote Han, come un fantasma nella veste nera, senza il minimo movimento osservava Kelly che si avvicinava. Kelly posò il gioiello sul cuscino accanto al suo gemello. «Eccolo. L’ho riportato. Mi dispiace di averlo preso. Io… ebbene, ho agito per un impulso irrazionale.» Il sacerdote prese il gioiello, lo tenne sotto il mento come sentendo il calore del fuoco verde. «Il tuo impulso è costato quindici vite terrestri.» «Quindici?» balbettò Kelly. «Ce n’erano solo dodici…» «Due ore di ritardo ne hanno mandate altre due nel recinto dei granchi,» disse l’Han. «E poi ci sei tu. Quindici.» Con tremolante spavalderia, Kelly disse: «Vi assumete un bel carico di responsabilità… questi assassinii…» «Non conosco la tua lingua,» disse il sacerdote, «ma sembra che tu stia trasmettendo una stupida nota di minaccia. Cosa potete fare voi poche creature terrestri contro il Grande Dio Han, che proprio adesso ha spostato il nostro pianeta attraverso la galassia?» «Il vostro dio Han… ha mosso il pianeta?» disse scioccamente Kelly. «Certamente. Ci ha portati lontano, e per sempre distanti dalla Terra fino a questo sole pieno e caldo; tale è la gratitudine per le nostre preghiere e per il tributo dell’Occhio.» Con studiata noncuranza, Kelly disse: «Avete riavuto il vostro gioiello; non capisco perché siate così indignati…» «Guarda,» disse il sacerdote. Kelly seguì il suo gesto, vide un buco nero quadrato, circondato da una cimasa di pietra levigata. «Questo pozzo è profondo diciotto miglia. Ogni sacerdote di Han discende fino in fondo una volta alla settimana, e riporta alla superficie un cesto di cobalto cristallizzato. In rare occasioni trova la matrice dell’Occhio, e allora c’è allegria nella città… Questo è il gioiello che hai rubato.» Kelly distolse gli occhi dal pozzo. Diciotto miglia… «Naturalmente non ero consapevole del…» «Non importa; ciò che è fatto è fatto. E adesso il pianeta è stato spostato, e il potere della Terra è incapace di prevenire le punizioni che noi desideriamo infliggervi.» Kelly tentò di mantenere ferma la voce. «Punizioni? Cosa vuoi dire?» Dietro di sé udì un fruscio, un movimento strascicato. Si guardò alle spalle. I neri mantelli si fondevano con i tendaggi del tempio, e le facce Han fluttuavano a mezz’aria. «Sarete uccisi,» disse il sacerdote. Kelly fissò la faccia bianca. «Se il modo in cui ve ne andrete ti è di qualche interesse…» Il sacerdote espose dettagli che gli gelarono la pelle, gli inacidirono la saliva in bocca. «La vostra morte scoraggerà altre creature terrestri dal compiere analoghi delitti.» Kelly protestò suo malgrado. «Avete il vostro gioiello; eccolo… Se volete insistere a uccidermi, uccidetemi, ma…» «Strano,» disse il sacerdote Han. «Voi creature terrestri temete il dolore più di ogni altra cosa che possiate concepire. Tale paura è il vostro nemico più mortale. Noi Han, invece, non temiamo nulla…» alzò gli occhi verso l’alto specchio nero, si inchinò leggermente «…nulla eccetto il nostro Grande Dio Han.» Kelly fissò la scintillante superficie nera. «Cosa ha a che fare lo specchio con il vostro dio Han?» «Quello non è uno specchio; quello è il portale che conduce al luogo degli Dei, e ogni sette anni un sacerdote lo attraversa per consegnare l’Occhio ad Han.» Kelly tentò di sondare le buie profondità dello specchio. «Cosa c’è oltre? Che genere di terra?» Il sacerdote non rispose. Kelly rise con una voce acuta che non si riconobbe. Si buttò in avanti, levò il pugno in un colpo carico di tutta la sua forza e di tutto il suo peso. Il pugno si abbatté nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la mascella del sacerdote, e Kelly sentì uno scricchiolio. Il prete girò su se stesso e cadde nell’intrico del mantello. Kelly si voltò verso i sacerdoti nella navata, che sibilavano furiosi. Kelly ormai era disperato, senza paura. Rise ancora, abbassò la mano, raccolse i due gioielli dal cuscino. «Il Grande Dio Han vive dietro lo specchio, e muove i pianeti in cambio di gioielli. Io ho due gioielli; forse Han muoverà un pianeta per me…» Si avvicinò con un balzo allo specchio nero. Tese la mano e sentì una superficie soffice come una cortina d’aria. Si fermò in subitanea trepidazione. Là c’era l’ignoto… La prima fila degli aggressivi sacerdoti Han era su di lui. E quello era il noto. Kelly non poteva rimandare. La morte era la morte. Se moriva attraversando la cortina nera, se soffocava nello spazio senz’aria… era una morte pulita e veloce. Si sporse in avanti, chiuse gli occhi, trattenne il respiro, e fece un passo oltre la cortina. Kelly aveva percorso un’enorme distanza. Era una distanza che non poteva essere calcolata in miglia oppure ore, ma in quantità che erano idee astratte e irrazionali. Aprì gli occhi. Funzionavano; poteva vedere. Non era morto… Oppure sì? Avanzò di un passo, sentì una sostanza solida sotto i piedi. Guardò giù, e vide un pavimento nero, simile al vetro, dove piccole scintille esplodevano, tremolavano e si spegnevano. Costellazioni? Universi? Oppure semplicemente… scintille? Avanzò di un altro passo. Avrebbe potuto essere una iarda, un miglio, un anno luce; si muoveva con il fluttuante agio di un uomo che cammina in un sogno. Si trovò sul bordo di un anfiteatro, un’arena simile a un cratere lunare. Fece un altro passo; e si trovò in mezzo all’arena. Si fermò, lottò per convincersi del proprio stato di coscienza. Il sangue gli scorreva nelle vene con un suono impetuoso. Ondeggiò, avrebbe potuto cadere se fosse esistita la gravità per tirarlo verso terra. Ma non c’era gravità. I suoi piedi restavano attaccati alla superficie in virtù di una misteriosa adesione che andava oltre la sua esperienza. Il rumore del sangue si levò e arrivò alle sue orecchie. Il sangue significava vita. Era vivo. Si girò a guardare dietro di sé, ma nella confusione dei propri occhi non poté distinguere ciò che vedeva. Si girò di nuovo, e avanzò di un altro passo… Stava commettendo un’intrusione. Sentì l’improvvisa, irritata attenzione di personalità gigantesche. Guardò il pavimento simile al vetro, e la più vaga delle luci grigie e acquose scese dall’alto a raccogliersi nella concavità in cui si trovava. Lo spazio era immenso, interminabile, privo di prospettiva. Kelly vide gli esseri che aveva disturbato, o meglio li sentì, più che vederli: dodici forme gigantesche incombevano su di lui. Una di queste forme espresse un pensiero, e un impeto di significato permeò lo spazio e si intromise nella mente di Kelly, traducendosi, che lui lo volesse o no, in parole: «Cos’è questa creatura? Da quale mondo è venuta?» «Dal mio.» Quello doveva essere Han. Kelly guardò da una forma all’altra, per determinare quale potesse essere il dio. «Sopprimila alla svelta…» e nella mente di Kelly arrivò un insieme di impressioni che non aveva parole per esprimere. «Dobbiamo provvedere alla faccenda di…» Di nuovo un rapido elenco di idee che si rifiutarono di tradursi nella mente di Kelly. Sentì l’attenzione di Han focalizzarsi sudi lui. Rimase inchiodato, in attesa della distruzione che sapeva essere imminente. Ma possedeva i gioielli, e il loro verde bagliore gli splendette tra le dita. Gridò: «Aspettate, sono venuto qui con uno scopo; voglio che un pianeta sia rimesso al posto che gli appartiene, e ho dei gioielli per pagare…» Sentì la funesta pressione della volontà di Han sulla mente… forte, sempre più forte; gemette per un’angoscia impotente. «Aspetta,» giunse un pensiero calmo, chiaro e sereno di trascendenza. «Devo distruggerla,» protestò Han. «È nemica di chi mi manda i gioielli.» «Aspetta,» venne una voce da un’altra forma, e Kelly colse una sfumatura di antagonismo nei confronti di Han. «Dobbiamo agire imparzialmente.» «Perché sei qui?» fu il quesito del Leader. Kelly rispose: «I sacerdoti Han stanno assassinando la gente della mia razza, da quando il pianeta su cui eravamo è stato spostato. Non è giusto.» «Ah!» Dall’Antagonista giunse un pensiero, come un’esclamazione. «Quelli che mandano i gioielli a Han compiono atti malvagi e contro natura.» «Una faccenda minore, una faccenda minore,» fu l’irrequieto pensiero di ancora un’altra forma. «Han deve proteggere chi gli manda i gioielli.» E Kelly colse l’implicazione che i gioielli erano di massima importanza; che i gioielli erano vitali per gli dei. L’Antagonista decise di fare della faccenda un problema. «La condizione di ingiustizia che Han ha determinato deve cessare.» Il Leader meditò. E allora nella mente di Kelly si insinuò un pensiero sornione, che sentiva essere stato diretto alla sua mente soltanto. Veniva dall’Antagonista. «Sfida Han a un…» Il pensiero poteva venire tradotto solo come «duello». «Io ti aiuterò. Rilassa la tua mente.» Kelly, pronto ad afferrarsi a ogni pagliuzza, allentò le sue fibre mentali, e sentì qualcosa come un’ombra umida entrare nel suo cervello, assorbire, registrare… Tutto in un istante. Il contatto svanì. Kelly sentì la mente del Leader vacillare a favore di Han. In fretta, improvvisando meglio che poté, disse: «Leader, in una leggenda della Terra, un uomo si ritrovò a viaggiare nella terra dei giganti. Quando fecero per ucciderlo, quest’uomo sfidò il maggiore a un duello con in palio la sua vita.» «In tre prove,» si insinuò un pensiero. «In tre prove,» aggiunse Kelly. «Nella storia, l’uomo vinse e gli fu permesso di ritornare nella sua terra natia. Allo stesso modo lasciatemi duellare in tre prove con Han.» L’impeto dei pensieri addensò l’aria: acrimonioso disprezzo da parte di Han, un velato incoraggiamento dall’Antagonista, divertimento dal Leader. «Tu invochi un principio barbarico,» disse il Leader. «Ma per una logica semplice quanto rigorosa, è una giusta trovata, e le verrà reso onore. Sfiderai Han in tre prove.» «Perché perdere tempo?» interloquì Han. «Posso polverizzarlo in particelle più piccole degli atomi degli atomi.» «No,» disse il Leader. «Le prove non possono basarsi sulla pura potenza. Tu e quest’uomo siete in disaccordo su un problema che non ha in sé il giusto e lo sbagliato. Si tratta del benessere del suo popolo contrapposto al benessere di quelli che ti mandano i gioielli. Poiché i punti in discussione sono equi, non ci sarebbe giustizia in un duello iniquo. Le prove devono svolgersi su una base che non metta anomalamente in svantaggio nessuna delle due parti.» «Stabiliamo un problema,» suggerì l’Antagonista. «Chi prima arriva alla soluzione vince la prova.» Han era immerso in un silenzioso disprezzo. Così il Leader formulò un problema, una terrificante esposizione i cui termini erano dimensioni e approssimazioni di tempo e una dozzina di concetti che il cervello di Kelly non poteva in alcun modo afferrare. Ma l’Antagonista intervenne. «Questo non è affatto un problema equo, poiché si trova interamente al di fuori dell’esperienza dell’uomo. Lasciate che formuli io un problema.» Ed enunciò una situazione che dapprima sorprese Kelly, e poi gli ridonò la speranza. Era un problema in cui si era imbattuto un anno prima alla stazione. Era stato preso in considerazione un sistema per integrare venticinque differenti bande di comunicazione in un unico canale, ed era necessario forzare un raggio di protoni oltre una serie di venticinque magneti reciprocamente interagenti e colpire un filtro grande come una punta di spillo dalla parte opposta del contenitore. La soluzione era abbastanza semplice — una esposizione del vettore iniziale in termini di un’equazione coordinata e un potenziale di voltaggio — e tuttavia aveva tenuto occupato il calcolatore della stazione per due mesi. Kelly conosceva quella soluzione come conosceva il proprio nome. «Svelto!» fu il pensiero segreto dell’Antagonista. Kelly diede la risposta senza riflettere. Il gruppo venne percorso da un’ondata di stupore, e Kelly sentì il loro sospettoso esame. «Sei veloce davvero,» disse il Leader, perplesso. «Un altro problema,» esclamò l’Antagonista. Ancora una volta prese un problema dall’esperienza di Kelly, questo concernente il comportamento dei positroni nello strato secondario di una stella in un ammasso di sei, tutte a temperatura e massa specificate. E questa volta la mente di Kelly lavorò più in fretta. Enunciò immediatamente la risposta. E tuttavia anticipò Han solo per pochi secondi. Han protestò. «Come ha potuto questo piccolo cervello rosa pensare più in fretta della mia coscienza cosmica?» «Sì, come ha potuto?» chiese il Leader. «Come fai a calcolare così rapidamente?» Kelly annaspò in cerca di idee, e infine raffazzonò una spiegazione zoppicante: «Io non calcolo. Nel mio cervello c’è una massa di cellule le cui molecole prendono la forma di modelli del problema. Queste si muovono in un istante, il problema viene risolto, ed ecco la soluzione.» Attese con ansia, ma la risposta sembrava soddisfare il gruppo. Quelle creature — o dei, se tali erano — erano così ingenue? Solo l’Antagonista lasciava supporre di avere motivazioni più complesse. Han, percepì Kelly, era vecchio, di grande forza, di una natura dura e inflessibile. Il Leader era venerabile al di là di ogni pensiero, calmo e imperturbato come lo spazio stesso. «Allora?» disse l’Antagonista. «Dobbiamo porre un altro problema? Oppure vogliamo dichiarare vincitore l’uomo?» Kelly sarebbe stato ben contento di lasciare le cose così come stavano, ma evidentemente questo non si adattava ai propositi dell’Antagonista; perciò il tono pacato e beffardo. «No!» I pensieri di Han ruggirono quasi come un suono. «A causa di una ridicola deformità nel cervello di questa creatura, io devo ammettere che mi è superiore? Io posso scagliarlo attraverso mille dimensioni con un pensiero, eliminarlo con un colpo secco dall’esistenza, dalla memoria…» «Forse perché tu sei un dio,» lo provocò l’Antagonista, «e sei di puro…» un altro concetto sconcertante, un misto di energia, divinità, forza, intelligenza. «L’uomo è solo una combinazione di atomi, e si muove attraverso l’ossidazione di carbonio e idrogeno. Forse se tu fossi come lui, potrebbe affrontarti corpo a corpo e sconfiggerti.» Una curiosa tensione irrigidì l’atmosfera mentale. I pensieri di Han si espressero con lentezza, tinti per la prima volta dal dubbio. «Che questa sia la terza prova,» disse il Leader compostamente. Han alzò mentalmente le spalle. Una delle torreggianti ombre si ritirò, si condensò, turbinò assumendo una forma simile a un uomo, si solidificò maggiormente, e alla fine affrontò Kelly, una creatura umana, risplendente di una fosforescenza dello stesso verde del cuore dell’Occhio del Settimo Anno. Il pensiero segreto dell’Antagonista raggiunse Kelly: «Prendi il gioiello alla base del collo.» Kelly studiò attentamente la figura che avanzava piano. Era esattamente della sua stessa altezza e peso, nudo, ma irradiante una sicurezza non umana. Il volto era indistinto, sfocato, e Kelly non poté mai in seguito descriverne l’espressione. Distolse lo sguardo. «Come combattiamo?» domandò, e il suo corpo gocciolava sudore. «Stabiliamo delle regole… oppure senza esclusione di colpi?» «Con le unghie e coi denti,» furono i calmi pensieri del Leader. «Han adesso possiede sensibilità organiche come le tue. Se uccidi questo corpo, o gli fai perdere conoscenza, vinci. Se perdi questa prova, allora decideremo. «E se mi uccide?» obiettò Kelly, ma nessuno parve prestare attenzione alla sua protesta. Han gli si avvicinò con occhi infuocati. Kelly indietreggiò di un passo, tentò di sferrare un colpo col pugno sinistro. Han si precipitò in avanti. Kelly lo tempestò di colpi, diede una ginocchiata al corpo che gli si avventava addosso, lo udì grugnire e cadere, e rimettersi prontamente in posizione eretta. Un brivido di gioia percorse la spina dorsale di Kelly, e più fiduciosamente avanzò attaccando con destri e sinistri. Han gli si appressò con un balzo, e allacciò le braccia attorno al corpo di Kelly. Poi cominciò a stringere, e Kelly sentì in quelle braccia lucenti di verde un potere più grande di quello di qualunque uomo. «Il gioiello,» gli giunse furtivo un pensiero. Scintille stavano esplodendo negli occhi di Kelly; le costole scricchiolavano. Agitò freneticamente una mano, artigliando il collo di Han. Sentì una protuberanza dura, ci infilò sotto le unghie, liberò il gioiello con uno strattone. Un grido acuto di dolore e di orrore assoluti, e l’uomo dio svanì in uno sbuffo di fumo nero che farfugliò delirante avanti e indietro nell’oscurità. Si levò attorno a Kelly, e piccole spirali di fumo sembrarono tentare di strappargli il gioiello che teneva stretto in mano. Ma non avevano una grande forza, e Kelly scoprì di poter respingere i fili di fumo con l’energia della propria mente. Improvvisamente comprese la funzione del gioiello. Era il punto focale del dio, accentrava miriadi di forze. Senza il gioiello, il dio era un tumulto di volontà conflittuali, di impulsi errabondi. Kelly sentì i pensieri trionfanti dell’Antagonista. E lui stesso sentì un’esultanza mai conosciuta prima. Il freddo commento del Leader lo riportò in sé. «Sembra che tu abbia vinto la contesa.» Ci fu una pausa. «In assenza di opposizione esaudiremo ogni tua richiesta.» Nei suoi pensieri non c’era interesse alcuno per il decentralizzato Han. Il fumo nero si stava dissipando, Han non era altro che un ricordo. «Già ci hai provocato un grande ritardo. Abbiamo il problema di…» l’ormai familiare confusione di idee, che però questa volta Kelly vagamente comprese. Sembrava esserci un vortice di universi in possesso di una coscienza, potente quanto o forse più degli dei, che stava procedendo su una rotta che avrebbe potuto rivelarsi scomoda. C’erano capacità, e un mucchio di fattori contributivi. «Ebbene,» disse Kelly, «vorrei che spostaste il pianeta da dove sono venuto nella sua vecchia orbita attorno a Magra Taratempos. Se sapete di quale pianeta e di quale stella sto parlando.» «Sì.» Il Leader fece un piccolo sforzo. «Il mondo che hai menzionato si muove nella sua orbita precedente.» «E se i sacerdoti Han riattraversano il portale e vogliono che venga spostato ancora?» «Il portale non esiste più. Era tenuto aperto da Han; quando Han si è dissolto, il portale si è chiuso… Sono questi tutti i tuoi desideri?» La mente di Kelly girò a vuoto, si trasformò in un caos. Questa era la sua occasione. Ricchezza, longevità, potere, conoscenza… Ma i pensieri non volevano formarsi, e c’erano maledizioni legate ai doni non naturali. «Vorrei tornare a Bucktown sano e salvo…» Kelly si ritrovò nel bagliore del mondo esterno. Era sulla collina sopra a Bucktown, e respirava l’aria salmastra delle paludi. Su di lui splendeva un caldo sole bianco: Magra Taratempos. Si accorse di un oggetto che teneva stretto in mano. Era il gioiello che aveva strappato dalla nuca di Han. E in tasca ce n’erano altri due. Dall’altra parte della città vide la costruzione azzurra di acciaio inossidabile. Cosa avrebbe dovuto dire a Herli e Mapes? Avrebbero creduto la verità? Guardò i tre gioielli. Uno era per il giovane collo abbronzato di Lynette Mason. Gli altri due avrebbe potuto venderli sulla Terra… Meglio parlarne con Lynette. Lei gli avrebbe creduto. Lei l’avrebbe ascoltato rapita raccontare come aveva combattuto il Grande Dio Han… IL FIGLIO DELL’ALBERO Uno scampanio vivace e penetrante suonò in duecento menti, ruppe duecento bolle di sonno ipnotico. Joe Smith si svegliò senza sonnolenza. Era costretto, avvolto come un bozzolo. Si irrigidì, lottò, poi lo spasmo di allarme si acquietò. Si rilassò, scrutò intensamente nell’oscurità. L’aria era muschiosa e umida di corpi caldi, corpi di molti uomini, sopra, sotto, a destra e a sinistra, che si contorcevano, tiravano, lottavano con la rete elastica. Joe giacque supino. La sua mente riprese una sequenza di pensiero lasciata in sospeso tre settimane prima. Ballenkarch? No… non ancora. Ballenkarch era ancora lontano, lontano sulle frange. Quello doveva essere Kyril, il mondo dei Druidi. Un suono sottile e lacerante. L’amaca si aprì lungo una cucitura magnetica. Joe si lasciò scivolare sulla passerella. Aveva le gambe flosce e molli. I suoi muscoli avevano ben poco tono dopo tre settimane passate sotto ipnosi. Percorse la passerella fino alla scala a pioli, scese sul ponte principale, uscì dal portello. A una scrivania era seduto un giovane di sedici anni dalla carnagione scura e gli occhi grandi e intelligenti, che indossava un camiciotto da marinaio di pliofano tanè e azzurro. «Nome, prego?» «Joe Smith.» Il giovane fece un visto su un elenco, indicò il corridoio con un cenno. «Prima porta per le misure igieniche.» Joe fece scorrere la porta, entrò in una stanzetta densa di vapore acqueo e antisettico. «Via i vestiti,» strillò una donna dalla voce metallica in calzoncini da bagno aderenti. Era magra come un lupo, e la pelle azzurro cupo era striata da rivoli di sudore. Gettò via con un gesto violento l’ampio indumento che Joe aveva ricevuto in dotazione dai magazzini della nave, poi si tirò indietro e spinse un bottone. «Occhi chiusi.» Getti di soluzione detergente gli sferzarono il corpo. Diverse pressioni, diverse temperature, e i suoi muscoli cominciarono a risvegliarsi. Una raffica di aria calda lo asciugò, e la donna, con una pacca noncurante, lo diresse verso una camera adiacente, dove poté radersi la barba ispida, aggiustarsi i capelli e infine indossare il camiciotto e i sandali che apparvero in una tramoggia. Quando lasciò la stanza un cameriere di bordo lo fermò, gli puntò un ugello contro la coscia e gli soffiò sotto la pelle un assortimento di vaccini, antitossine, tonificanti e stimolanti muscolari. Così fortificato, Joe lasciò la nave, uscì su una piattaforma, scese una rampa fino al suolo di Kyril. Trasse un profondo respiro di fresca aria planetaria e si guardò attorno. Il cielo era coperto di nubi perlacee. Un paesaggio lungo e dolcemente ondulato, quadrettato da minuscole fattorie, si perdeva in lontananza fino all’orizzonte, e là, come un tremendo pennacchio di fumo, si levava l’Albero. I contorni erano sfocati dalla distanza e il fogliame superiore si confondeva con le nubi, ma non ci si poteva sbagliare. L’Albero della Vita. Attese un’ora che il suo passaporto e i vari documenti di identificazione venissero controllati e controfirmati in un piccolo ufficio a vetrate sotto la piattaforma di imbarco. Poi poté sdoganare e attraversare il campo fino al terminale, una struttura rococò di massiccia pietra bianca, riccamente scolpita e ornata di intricati intagli. Al cancelletto girevole che consentiva di superare la parete di vetro c’era un Druido che assisteva oziosamente allo sbarco. Era alto, un magro nervoso, con una pelle pallida e fine come l’avorio. Il viso era controllato, aristocratico, i capelli nero giaietto, gli occhi neri e severi. Indossava una scintillante corazza di metallo smaltato, una veste sontuosa che cadeva in pieghe elaborate fin quasi a terra, orlata di fregi ricamati con un filo d’oro. Sul suo capo era posato un elaborato elmo, composto da cuspidi e piani di metalli diversi abilmente incastrati. Joe consegnò l’autorizzazione di passaggio all’impiegato seduto alla scrivania del cancelletto. «Nome prego.» «È sull’autorizzazione.» L’impiegato corrugò la fronte, scribacchiò qualcosa. «Affari su Kyril?» «In visita temporanea,» disse Joe brevemente. Aveva discusso a lungo di se stesso, dei suoi antecedenti, e dei suoi affari con l’impiegato dell’ufficio di sbarco. Quel nuovo interrogatorio gli sembrava un’inutile seccatura. Il Druido girò la testa, lo guardò dall’alto in basso. «Spie, nient’altro che spie!» Emise un suono sibilante sottovoce, e si allontanò. Ma qualcosa nel contegno di Joe l’aveva colpito. Tornò indietro. «Ehi tu,» disse in tono di petulante irritazione. Joe si voltò. «Sì?» «Chi è il tuo garante? Chi servi?» «Nessuno. Sono qui per motivi personali.» «Non essere ipocrita. Tutti spiano. Perché fingere altrimenti? Tu mi fai andare in collera. Ebbene, chi servi?» «La verità della faccenda è che io non sono una spia,» disse Joe mantenendo un tono di leggera cortesia nella voce. L’orgoglio era il primo lusso che un vagabondo doveva abbandonare. Il Druido sorrise con un esagerato cinismo nelle labbra sottili. «Perché mai allora saresti venuto su Kyril?» «Ragioni personali.» «Hai l’aspetto di un Thubano. Qual è il tuo mondo natio, allora?» «La Terra.» Il Druido piegò la testa, lo guardò obliquamente, fece per parlare, si fermò, strinse gli occhi e finalmente parlò. «Allora tu ti beffi di me con un mito infantile, il paradiso degli sciocchi?» Joe scrollò le spalle. «Mi hai fatto una domanda. Io ho risposto.» «Con un’insolente inosservanza della mia dignità e del mio rango.» Un uomo basso e grassottello, con una pelle color giallo limone, si avvicinò incedendo con andatura tronfia e solenne. Aveva grandi occhi innocenti, un paio di mascelle ben sviluppate, e indossava un ampio mantello di pesante velluto azzurro. «Un Terrestre qui?» Guardò Joe. «Tu, signore?» «Esatto.» «Allora la Terra esiste.» «Certamente.» L’uomo dalla pelle gialla si rivolse al Druido. «Questo è il secondo Terrestre che vedo, Eminenza. Evidentemente…» «Il secondo?» chiese Joe. «Chi era l’altro?» L’uomo dalla pelle gialla alzò gli occhi al cielo. «Ho scordato il suo nome. Perry… Larry… Barry…» «Harry? Harry Creath?» «Proprio quello, ne sono sicuro. Ho scambiato due parole con lui su Giunzione, un anno o due fa. Un tipo davvero simpatico.» Il Druido girò sui tacchi e se ne andò. L’uomo grassottello lo seguì con volto impassibile, poi si girò verso Joe. «Sembra che tu sia uno straniero, qui.» «Sono appena arrivato.» «Lascia che ti dia un consiglio su questi Druidi. Sono una razza emotiva, pronta alla collera, inquieta, usa agli eccessi. E sono assolutamente provinciali, assolutamente convinti che Kyril sia il centro di tutto lo spazio e di tutto il tempo. È saggio parlare sommessamente in loro presenza. Posso chiedere per curiosità cosa ci fai qui?» «Non potevo permettermi di acquistare un passaggio più lontano.» «E allora?» Joe scrollò le spalle. «Andrò a lavorare, guadagnerò un po’ di soldi.» L’uomo grassottello aggrottò la fronte pensieroso. «Esattamente quali talenti e quali abilità userai a questo scopo?» «Sono un buon meccanico, macchinista, dinamista, elettricista. So fare rilevamenti, analisi delle sollecitazioni, e altri strani lavori. Dico di essere un ingegnere.» La sua nuova conoscenza parve riflettere. Finalmente, con voce dubbiosa, disse: «C’è una copiosa offerta di manodopera a basso prezzo tra i Laici.» Joe volse lo sguardo per il terminale. «Dall’aspetto di quella travatura reticolare direi che sono piuttosto traballanti nell’uso del regolo calcolatore.» L’altro contrasse le labbra in dubbioso accordo. «E ovviamente i Druidi sono xenofobi a un altissimo livello. Una faccia nuova rappresenta una spia.» Joe annuì, sogghignò. «L’ho notato. Il primo Druido che ho visto mi ha inveito contro aspramente. Mi ha chiamato spia Mang, qualunque cosa sia.» L’uomo grassottello annuì. «È quello che sono io.» «Un Mang… oppure una spia?» «Entrambi. Ci sono ben pochi tentativi di segretezza. È dichiarato. Ogni Mang su Kyril è una spia. E la stessa cosa vale per i Druidi su Mangtse. I due mondi stanno lottando per la supremazia, economica al momento, e c’è grande rancore tra di noi.» Si sfregò il mento. «Vuoi un impiego, allora, con una remunerazione?» «Corretto,» disse Joe. «Ma escluso lo spionaggio. Non intendo immischiarmi nella politica. Niente da fare. La vita è già troppo breve.» Il Mang fece un gesto rassicurante. «Naturalmente. Ora come dicevo i Druidi sono una razza emotiva. Tortuosa. Forse possiamo giocare su queste qualità. Supponi di venire con me a Divinai. Ho un appuntamento con il Tearca del Distretto, e se mi vanto con lui del tecnico efficiente che ho preso al mio servizio…» Lasciò il resto della frase in sospeso, e ammiccò a Joe con occhi da gufo. «Da questa parte, allora.» Joe lo seguì attraverso il terminale, lungo un’arcata fiancheggiata da botteghe fino all’area di parcheggio. Joe guardò la fila di aeromobili. Antichi modelli, pensò, costruzione imprecisa. Il Mang gli fece cenno di salire sull’aeromobile più grande. «A Divinai,» disse all’autista che aspettava. L’aeromobile si sollevò, inclinandosi sul paesaggio grigioverde. Nonostante l’apparente produttività della terra, la regione aveva su Joe un effetto sgradevole. I villaggi erano piccoli e rattrappiti, e strade e vicoli luccicavano di acqua stagnante. Nei campi si vedevano squadre di uomini — sei, dieci, venti — che tiravano l’aratro. Un paesaggio tetro e prosaico. «Cinque bilioni di contadini,» disse il Mang, «i Laici. Due milioni di Druidi. E un Albero.» Joe emise un suono non compromettente. Il Mang tacque. Sotto di loro le fattorie, caseggiati interminabili, quadrati, rettangoli, ognuno di un diverso tono di verde, di marrone o di grigio. Miriadi di capanne coniche dalle quali saliva un filo di fumo erano acquattate negli angoli dei campi. E più avanti l’Albero si levava grande e importante, sempre più alto, più nero, più massiccio. Poi apparvero palazzi di pietra bianca riccamente decorati, annidati tra le radici sostenute da pilastri, e l’aeromobile scese sui tetti robusti. Joe scorse una foresta di balaustre traforate, intricati pannelli, lucernari a più luci con colonnine divisorie, grondoni, colonne, stipiti infiorati. L’aeromobile atterrò su un piccolo appezzamento di terreno davanti a una struttura lunga e alta che ricordò vagamente a Joe il Palazzo di Versailles. Su ogni lato c’erano giardini ben curati, sentieri decorati a mosaico, fontane, statue. E dietro si levava l’Albero, con il fogliame che si apriva a un’altezza di diverse miglia. Il Mang scese, si girò verso Joe. «Se togli il pannello laterale che racchiude il generatore di questo velivolo, e ti comporti come se stessi eseguendo una riparazione minore, credo che presto riceverai l’offerta per un impiego lucrativo.» Joe disse, a disagio: «Ti stai prendendo un gran disturbo per uno straniero. Sei forse un… filantropo?» Il Mang rispose allegramente: «Oh no. No, no! Agisco come se fossi spinto dal capriccio, ma non sono completamente disinteressato nelle mie azioni. Lascia che mi esprima così: se fossi chiamato a effettuare una riparazione non specificata, mi porterei appresso una varietà di attrezzi più ampia possibile. «Perciò, nella mia… ah… missione trovo che molte persone hanno talenti speciali o conoscenze che si rivelano inestimabili. Ecco perché coltivo amicizie quanto mai vaste e cordiali.» Joe sorrise a labbra strette. «È un’attività che ripaga?» «Oh, certamente. E poi,» disse blandamente l’uomo grassottello, «la cortesia è di per sé una ricompensa. C’è una soddisfazione incalcolabile in una condotta servizievole. Ti prego di non considerarti vittima di obbligo alcuno.» Senza esprimersi ad alta voce, Joe pensò: «Non mancherò.» L’uomo grassottello si allontanò, e attraversò lo spiazzo fino a una grande porta di bronzo scolpito. Joe esitò un momento. Poi, decidendo che non aveva nulla da perdere a seguire le istruzioni, smontò il pannello laterale. Una fascia di piombo lo fissava come un sigillo. Joe esitò un altro istante, poi spezzò la fascia e sollevò il pannello. Si ritrovò a guardare in un meccanismo sorprendente. Era stato messo insieme con pezzi di recupero, fissato con viti isolanti su blocchi di legno, legato alla struttura con pezzi di corda. I fili elettrici erano esposti e non isolati. L’aggiustaggio del campo di forza era stato fatto con un cuneo di legno. Joe scosse la testa, stupito. Poi ripensando al volo dal terminale, sudò freddo. L’uomo grassottello dalla pelle gialla gli aveva detto di comportarsi come se stesse riparando il motore. Joe vide che la finzione non sarebbe stata necessaria. La scatola elettrica era connessa alla metadina tramite una tubazione frettolosa e confusionaria. Joe sbrogliò il pasticcio, riorientò i poli, e unì i due gruppi con un collegamento corto e diretto. Dall’altra parte dello spiazzo atterrò un’altra aeromobile, e ne scese una ragazza di diciotto o diciannove anni. Quando guardò verso di lui, Joe colse il lampo degli occhi in un volto sottile e vitale. Poi la ragazza lasciò subito il terreno. Joe si fermò a guardare il figurino sottile come un alberello. Si rilassò e tornò al motore. Molto carina, le ragazze erano cosucce molto carine. Strinse le labbra, pensando a Margaret. Margaret era un tipo di ragazza completamente diverso. Bionda, innanzitutto, compiacente, flessibile, ma intimamente… Joe si distrasse un attimo dal suo lavoro. Cos’era, nel profondo del suo cuore, dove lui non era mai penetrato? Quando le aveva detto dei suoi piani aveva riso, e gli aveva detto che era nato migliaia di anni troppo tardi. Erano ormai passati due anni, chissà se Margaret lo stava ancora aspettando? Pensava di stare via in tutto tre mesi, e poi era stato trascinato sempre più avanti, di pianeta in pianeta, fuori dallo spazio terrestre, attraverso il Golfo dell’Unicorno, lungo un turbine rado di stelle, arrancando da un mondo all’altro. Su Jamivetta aveva coltivato muschio in una tundra brulla, e anche un passaggio di terza classe per Kyril gli era parso buono. Margaret, pensò Joe, spero che tu valga tutto questo peregrinare. Fissò il punto in cui la giovane Druida dai capelli scuri era corsa dentro il palazzo. Una voce aspra disse: «Cosa stai facendo, stai smontando l’aeromobile? Verrai ucciso per un delitto simile.» Era l’autista dell’aeromobile da cui era scesa la ragazza. Era un uomo dalla faccia volgare e dal corpo grosso, con naso e mascella animaleschi. Joe, in virtù della lunga e amara esperienza sui mondi esterni, tenne a freno la lingua, e si voltò a esaminare ulteriormente il meccanismo. Si chinò in avanti incredulo. Tre condensatori, agganciati assieme in successione, pendevano e ondeggiavano dai loro connettori. Infilò la mano, strappò via la coppia in eccesso, incuneò il condensatore restante in un incavo, e lo ricollegò. «Attento! Bada a te!» mugghiò l’autista. «Togli le tue mani distruttive da quel delicato meccanismo!» Era troppo. Joe alzò la testa. «Delicato meccanismo! È già un miracolo che quel miserevole groviglio di rottami riesca a volare.» La faccia dell’autista si contorse in un’espressione furiosa. Avanzò di un passo pesante, poi si fermò mentre un Druido usciva impetuoso sullo spiazzo, un uomo grande e grosso con una faccia rossa e piatta, e sopracciglia impressionanti. Aveva un naso piccolo a becco d’aquila che gli sporgeva come un’aggiunta in mezzo alle guance, e una bocca sostenuta da forcelle di muscoli cocciuti e increspati. Indossava una lunga veste vermiglia, con un cappuccio di folta pelliccia nera, e un bordo di pelliccia uguale girava intorno alla veste. Sopra il cappuccio portava un elmo di metallo nero e verde, con un sole raggiante di smalto rosso e giallo proprio su una tempia. «Borandino!» L’autista si fece piccolo in atteggiamento ossequiente. «Eminenza.» «Vai. Metti via la Celta.» «Sì, Eminenza.» Il Druido si fermò davanti a Joe. Vide il mucchio di rottami scartati, e la faccia si fece congestionata. «Cosa stai facendo al mio velivolo più bello?» «Sto eliminando un po’ di impedimenti.» «Il miglior meccanico di Kyril si occupa di quel macchinario!» Joe alzò le spalle. «Ha parecchio da imparare. Se vuoi rimetto dentro tutta quella roba. L’aeromobile non è mia.» Il Druido lo guardò fisso. «Intendi dire che l’aeromobile volerà, dopo che hai tirato fuori tutto quel metallo?» «Dovrebbe volare meglio.» Il Druido guardò Joe da capo a piedi. Joe decise che quello doveva essere il Tearca del Distretto. Il Druido, con il più vago accenno di segretezza nei modi, si guardò alle spalle verso il palazzo, poi si rivolse di nuovo a Joe. «Mi pare di capire che sei al servizio di Hableyat.» «Il Mang? Ebbene… sì.» «Tu non sei un Mang. Cosa sei?» Joe si rammentò dell’incidente con il Druido al terminale. «Sono un Thubano.» «Ah! Quanto ti paga Hableyat?» Joe desiderò di sapere qualcosa della moneta locale e del suo valore. «Un bel po’,» disse. «Trenta stipule alla settimana? Quaranta?» «Cinquanta,» disse Joe. «Te ne darò ottanta,» disse il Tearca. «Sarai il mio capo meccanico.» Joe annuì. «Benissimo.» «Verrai con me immediatamente. Informerò io Hableyat del cambiamento. Non avrai più alcun contatto con quel Mang assassino. Adesso sei un servitore del Tearca del Distretto.» «Al tuo servizio, Eminenza,» disse Joe. Il cicalino ronzò. Joe premette il tasto, disse: «Garage.» Dalla piastra uscì la voce di una ragazza, la voce perentoria e ostinata della Sacerdotessa Elfane, la terza figlia del Tearca, squillante ora di una sfumatura che Joe non seppe identificare. «Autista, ascolta molto attentamente. Fai esattamente come ti ordino.» «Sì, Eminenza.» «Porta fuori la Celta nera, sali al terzo livello, poi atterra sul mio appartamento. Sii discreto e ne trarrai vantaggio. Hai capito?» «Sì, Eminenza,» disse Joe con voce di piombo. «Muoviti.» Joe infilò la livrea. Fretta… discrezione… segretezza? Un amante di Elfane? Era giovane, ma non troppo giovane. Joe aveva già eseguito commissioni simili per le sue sorelle, Esane e Phedran. Si strinse nelle spalle. Poteva sperare di guadagnarci. Cento stipule, forse di più. Sogghignò mestamente facendo retrocedere la Celta da sotto il tettuccio. Una mancia da una ragazza di diciotto anni, ed era ben contento di riceverla. Un giorno, quando fosse ritornato sulla Terra e da Margaret, avrebbe rispolverato le sue pretese di orgoglio e dignità. Adesso erano inutili, erano un ostacolo per lui. Il denaro era denaro. Il denaro l’aveva portato attraverso la galassia, e finalmente Ballenkarch era a portata di mano. Di notte, quando i riflettori del tempio abbandonavano il cielo, poteva vedere il sole Ballen, una stella luminosa in una costellazione che i Druidi chiamavano «Porfirite». Il passaggio più a buon mercato, ipnotizzato e imbarcato come un cadavere, costava duemila stipule. Da un salario di ottanta stipule alla settimana riusciva a risparmiarne settantacinque. Tre settimane erano passate; altre ventiquattro gli avrebbero permesso di acquistare un passaggio per Ballenkarch. Troppo tempo, con la bionda, gaia, incantevole Margaret che lo aspettava sulla Terra. Il denaro era denaro. Le mance sarebbero state accettate con molti ringraziamenti. Joe sollevò l’aeromobile fino all’alzata del palazzo, fluttuando lungo l’Albero, su verso il terzo livello. L’Albero incombeva su di lui come se non si fosse mai staccato dal suolo, e Joe sentì lo sgomento e la meraviglia che tre settimane all’ombra stessa dell’Albero non erano riuscite a diminuire. Una massa enorme e respirante, ricca di linfa, un tronco di cinque miglia di diametro, dodici miglia dalle grandi radici nodose all’ultima gemma: la «Vitale Omniprescienza» nel canto dei Druidi. Il fogliame si apriva e digradava in ramoscelli flessibili, ognuno col diametro grosso quanto il palazzo del Tearca, sospeso come la copertura di paglia su un antiquato covone. Le foglie erano rozzamente triangolari, lunghe tre piedi, gialle luminose nella parte superiore, e scurentisi in giallo limone, verde, rosa, scarlatto, nero notte, verso terra. L’Albero dominava gli orizzonti, allontanava le nubi con una spallata, portava tuoni e lampi come una ghirlanda di lamé. Era l’anima della vita, la vita nuda e cruda, che calpestava e soggiogava gli inerti. E Joe capiva bene come i primi stupiti coloni di Kyril si fossero messi ad adorarlo. Il terzo livello. Giù di nuovo, con la Celta nera, fino al terreno accanto agli appartamenti della Sacerdotessa Elfane. Joe atterrò, saltò fuori dall’aeromobile, percorse gli intarsi d’oro e avorio. Elfane in persona aprì la porta scorrevole, una creatura vivida, col volto sottile, la carnagione scura, vitale come un uccello. Indossava un abito semplice di tessuto bianchissimo, senza alcun ornamento, ed era a piedi nudi. Joe, che l’aveva vista solo nell’abbigliamento ufficiale, sbatté le palpebre e la guardò di nuovo con interesse. La ragazza gli fece un cenno. «Da questa parte. Svelto.» Tenne aperto il pannello e Joe entrò in una camera alta, elegante ma poco calda. Strisce di marmo bianco e dumortierite blu rivestivano due pareti, strisce intarsiate con tavolozze di rame sulle quali erano scolpiti uccelli esotici. La terza parete era coperta da un arazzo raffigurante un gruppo di giovanette che correvano su un pendio erboso, e lungo questa parete c’era un basso divano imbottito. Sul divano era seduto un giovane con la veste di Suttearca, una veste azzurra ricamata con i fregi rossi e grigi del suo rango. Un elmo intarsiato di foglie d’oro era accanto a lui sul divano, e un bastone tornito dal Sacro Legno — un onore concesso solo agli Ecclesiarchi — gli pendeva alla cintura. Aveva i fianchi sottili, le spalle larghe e quadrate, e la faccia più sconvolgente di cui Joe avesse mai fatto esperienza. Era una faccia letteralmente passionale, larga all’altezza degli zigomi, con guance piatte che scendevano oblique fino alla punta del mento. Il naso era lungo e diritto, la fronte ampia. Gli occhi erano neri dischi piatti in orbite strette e inespressive, le sopracciglia nere come l’inchiostro, i capelli dello stesso colore, acconciati ad arte in minuscoli anelli. Era una faccia furba e crudele, piena di fascinazione, troppo ricca, troppo matura, senza senso dell’umorismo né simpatia, la faccia di un animale feroce solo incidentalmente umana. Joe si fermò nel mezzo di un passo, fissò quella faccia con immediata avversione, quindi guardò il cadavere ai piedi dell’Ecclesiarca, una forma rigida scomposta in modo grottesco, dalla quale il sangue giallo acceso stillava a macchiare il mantello cremisi. Elfane disse a Joe: «Questo è il corpo di un ambasciatore di Mangtse. Una spia, ma ciò nondimeno un ambasciatore d’alto rango. Qualcuno l’ha ammazzato qui, oppure ci ha portato il suo corpo. Non deve essere scoperto. Non deve esserci scalpore. Mi fido di te come di un servitore leale. Sono in corso negoziati molto delicati con il Governo Mang. Un incidente come questo può rovinare tutto. Mi segui?» Gli intrighi di palazzo non erano cosa che riguardasse Joe. «Qualunque ordine tu possa impartirmi, Eminenza, io lo seguirò, subordinatamente al permesso del Tearca.» Elfane gli rispose con impazienza. «Il Tearca è troppo occupato per essere consultato. L’Ecclesiarca Manaolo ti assisterà nel caricare il cadavere sulla Celta. Poi ci porterai fuori sull’oceano, e ce ne sbarazzeremo.» «Porterò l’aeromobile più vicino possibile,» disse Joe con voce legnosa. Manaolo si alzò in piedi, lo seguì fino alla porta. Joe lo udì borbottare da sopra la spalla: «Staremo stretti in quella piccola cabina.» «È l’unica che so guidare,» rispose Elfane impaziente. Joe si prese tutto il tempo per sistemare l’aeromobile contro la porta, corrucciato in profondi pensieri. L’unico velivolo che sapesse guidare… Percorse con lo sguardo cinquanta piedi di spazio fino al terreno adiacente lungo il lato del palazzo. Un uomo basso con un mantello azzurro se ne stava con le mani intrecciate dietro la schiena a osservare benignamente Joe. Joe rientrò nella stanza. «C’è un Mang sulla balconata qui a fianco.» «Hableyat!» esclamò Manaolo. Andò alla porta, guardò fuori senza mostrarsi. «Soprattutto lui non deve scoprirlo!» «Hableyat sa tutto,» disse Elfane cupamente. «Talvolta credo che possegga una seconda vista.» Joe si inginocchiò accanto al cadavere. La bocca era aperta, e mostrava una lingua color ruggine. Una borsa gonfia gli pendeva al fianco, seminascosta dal mantello. Joe la aprì. Alle sue spalle sentì una parola rabbiosa. Elfane disse: «No, lascia che si soddisfi.» Il suo tono, e la sua accondiscendenza sprezzante, colpirono Joe. Ma il denaro era denaro. Con le orecchie che gli bruciavano infilò una mano nella borsa, tirò fuori un rotolo di banconote da cento stipule, almeno una dozzina. Rimise la mano nella borsa, e trovò una piccola arma manuale che non conosceva. La nascose nella blusa. Poi avvolse il cadavere in una veste scarlatta, e alzandosi lo prese sotto le ascelle. Manaolo prese le caviglie. Elfane andò alla porta. «È andato via! Svelti!» Dopo cinque secondi il cadavere era a posto dietro l’aeromobile. Elfane disse a Joe: «Vieni con me.» Joe la seguì, usando molta cautela nel volgere le spalle a Manaolo. Elfane lo condusse in uno spogliatoio, indicò un paio di valige. «Prendile, e caricale dietro la Celta.» Bagaglio, pensò Joe, e obbedì. Con la code dell’occhio vide che Hableyat era ritornato fuori sulla balconata, e sorrideva blandamente nella sua direzione. Joe rientrò. Elfane stava indossando dei sandali e una veste blu come una ragazza Laica. L’abbigliamento accentuava l’aspetto pieno di spirito, l’aroma e la fragranza che sembravano una parte essenziale di lei. Joe distolse gli occhi. Margaret non avrebbe trattato un cadavere con tanta indifferenza. «La Celta è pronta a partire, Eminenza,» disse. «Guiderai tu,» disse Elfane. «La nostra rotta sarà in alto fino al quinto livello, a sud oltre Divinai, attraverso la baia e fuori in mare.» Joe scosse la testa. «Io non guiderò. A dire il vero io non vengo.» Il senso delle sue parole non fu subito chiaro. Poi Elfane e Manaolo girarono assieme la testa. Elfane era sorpresa, e il suo volto denotava più mancanza di comprensione che rabbia. Manaolo era inespressivo, gli occhi ottusi, opachi. Con voce più acuta, come se Joe non avesse capito, Elfane disse: «Avanti, esci; guiderai tu.» Joe fece scivolare casualmente la mano all’interno della blusa, dove riposava la piccola arma. Gli occhi di Manaolo tremolarono, l’unico movimento del volto, ma Joe sapeva che la sua mente era agile e sprezzante. «Non ho intenzione di guidare,» disse Joe. «Potete facilmente buttare a mare quel cadavere senza di me. Io non so dove state andando, né perché. So solo che non verrò con voi.» «Te lo ordino!» esclamò Elfane. Era irreale, pazzesco, contrario agli assiomi della sua esistenza. Joe scosse la testa, fissandoli con prudenza. «Spiacente.» Elfane scacciò il paradosso dalla propria mente. Si rivolse a Manaolo. «Uccidilo qui, allora. Il suo cadavere, almeno, non provocherà congetture.» Manaolo espresse con un ghigno il suo rammarico. «Temo che quell’arraffone ci stia puntando contro una pistola. Si rifiuterà di lasciarsi uccidere.» Elfane strinse le labbra. «Questo è ridicolo.» Si girò di scatto. Joe estrasse la pistola. Elfane si fermò, paralizzata, e le mancarono le parole. «Bene,» disse con voce sommessa. «Ti darò del denaro per il tuo silenzio. Sei soddisfatto?» «Moltissimo,» disse Joe con un sorriso storto. Orgoglio? Cos’era l’orgoglio? Se non fosse stato per Margaret gli sarebbe piaciuto… Ma no, era chiaro che stava scappando con il brillante e pericoloso Manaolo. Chi avrebbe voluto una donna dopo che lui le aveva messo le mani addosso? «Quanto?» chiese indolente Manaolo. Joe fece un rapido calcolo. Aveva quattrocento stipule nella sua stanza, circa un migliaio le aveva prese dal cadavere. Mise da parte i suoi calcoli. Meglio esagerare. «Cinquemila stipule e ho dimenticato tutto quello che visto oggi.» La cifra apparentemente non sembrava esorbitante a nessuno dei due. Manaolo frugò in una tasca, poi in un’altra, trovò un rotolo di denaro, sfogliò un po’ di banconote, e le gettò sul pavimento. «Ecco il tuo denaro.» Senza guardarsi indietro, Elfane corse fuori, saltò nella Celta. Manaolo si avviò dietro a lei. La Celta si alzò con uno scatto, scomparve nell’aria tersa di Kyril. Joe si ritrovò da solo nella stanza alta. Raccolse i biglietti. Cinquemila stipule. Andò alla finestra, riuscì ancora a vedere l’aeromobile ridursi a un puntino. Aveva come un fremito in gola, una fitta. Elfane era una creatura meravigliosa. Sulla Terra, se non fosse stato per Margaret, sarebbe andato in estasi. Ma quello era Kyril, dove la Terra era una favola. E Margaret, docile, morbida, bionda come un campo di giunchiglie, stava aspettando che lui ritornasse. O almeno sapeva che lui sperava che lo aspettasse. Con Margaret, pensò Joe mestamente, l’idea poteva non significare la stessa cosa. Dannato Harry Creath! Divenne spiacevolmente consapevole dell’ambiente in cui si trovava. Una qualunque di una dozzina di persone poteva entrare e trovarlo lì. Avrebbe avuto qualche difficoltà a spiegare la sua presenza. Doveva ritornare ai suoi quartieri. Si immobilizzò a metà dei pensieri. Il rumore di una porta che scorreva gli fece istantaneamente accelerare le pulsazioni, e scendere un rivolo di sudore. Indietreggiò contro l’arazzo. Dei passi, lenti, senza fretta, stavano arrivando per il corridoio. La porta si aprì. Un uomo entrò nella stanza, un uomo basso dalla pelle gialla, con un mantello di velluto azzurro: Hableyat. Hableyat gettò una breve occhiata alla stanza, scosse la testa tristemente. «Un brutto affare. Rischioso, per tutti quelli che vi sono implicati.» Joe, irrigidito contro la parete, si trovò prontamente d’accordo. Hableyat fece un paio di passi avanti, esaminò il pavimento. «Negligenti. C’è ancora molto sangue.» Alzò gli occhi, si rese conto dell’atteggiamento di Joe. «Ma ad ogni modo stai tranquillo. Davvero, stai tranquillo.» Per un momento osservò Joe con fare distaccato. «Senza dubbio la tua bocca è stata riempita di soldi. Ha del meraviglioso che tu sia ancora vivo.» Joe disse seccamente: «Sono stato chiamato qui dalla Sacerdotessa Elfane, che se n’è andata sulla Celta. Per il resto io mi dissocio da tutta la faccenda.» Hableyat scosse la testa meditabondo. «Se vieni trovato qui con il sangue sul pavimento sarai interrogato. E poiché verrà fatto ogni sforzo per nascondere l’assassinio di Empoing, tu sarai indubbiamente ucciso per essere certi del tuo silenzio.» Joe si umettò le labbra. «Ma non è a te che vogliono nascondere l’uccisione?» Hableyat annuì. «Certo. Io rappresento il Potere e l’Estensione del Dail di Mangtse, cioè la fazione Acque Azzurre. Empoing fa parte delle Correnti Rosse, che seguono una diversa scuola di pensiero. Credono in un rapida successione degli eventi.» Una strana idea si formò nella mente di Joe, e si rifiutò di essere accantonata. Hableyat notò il cambiamento di espressione. La sua bocca, una breve fessura carnosa in mezzo alle guance gialle, si ritirò agli angoli. «Proprio così. L’ho ucciso io. Era necessario, credimi. Altrimenti avrebbe ammazzato Manaolo, che è impegnato in una missione molto importante. Se Manaolo venisse fermato, da un certo punto di vista sarebbe una tragedia.» Le idee si accavallavano, passavano fuggenti nella mente di Joe come un branco di pesci in fuga da una rete. Era come se Hableyat stesse mostrando un vassoio colmo di splendide ceramiche, in attesa di vedere quale Joe avrebbe scelto. «Perché mi stai dicendo tutto questo?» disse Joe diffidente. Hableyat scrollò le spalle grassocce. «Chiunque tu sia, non sei un semplice autista.» «Ah, ma lo sono!» «Chi o cosa tu sia non è ancora stato stabilito. Questi sono tempi complessi, nei quali molte persone e molti mondi vogliono cose inconciliabili, e l’origine e le intenzioni di ogni uomo devono essere analizzate. Le mie informazioni ti fanno risalire a Tuban Nove, dove hai lavorato come istruttore di ingegneria civile all’Istituto Tecnico. Da Thuban sei andato ad Ardemizian, poi a Panapol, poi a Rosalinda, poi a Jamivetta, e infine a Kyril. «Su ogni pianeta sei rimasto solo il tempo sufficiente per guadagnare il passaggio seguente. Qui c’è uno schema, e dove c’è uno schema c’è un piano. Dove c’è un piano c’è un’intenzione, e dove c’è un’intenzione ci sono delle mete da raggiungere. E quando le mete sono state raggiunte, qualcuno perde. Ma vedo che sei a disagio. Evidentemente temi di essere scoperto. Ho ragione?» «Non mi va di essere ucciso.» «Suggerisco che ripariamo nel mio appartamento, che è qui accanto, e lì forse faremo due chiacchiere. Io sono sempre ansioso di imparare, e sarò quanto mai grato di poter uscire sano e salvo da questo appartamento…» Uno scampanio lo interruppe. Trasalì, andò rapidamente alla finestra, guardò in su, poi in giù. Dalla finestra corse alla porta, rimase in ascolto. Fece un cenno a Joe. «Mettiti da parte.» La campanella suonò ancora, una nocca pesante batté alla porta. Hableyat sibilò sottovoce. Un grattare, un raspare. La porta scivolò di lato. Un uomo alto con un’ampia faccia rossa e un piccolo naso a becco avanzò nella stanza. Indossava una veste bianca e fluente con un cappuccio, e un elmo verde scuro e oro in cima al cappuccio. Hableyat gli andò furtivamente alle spalle, eseguì un complesso movimento che comprendeva un calcio dietro le ginocchia dell’uomo, una presa sull’avambraccio, una torsione del polso… e il Druido cadde a faccia in giù sul pavimento. «È il Tearca in persona!» boccheggiò Joe. «Verremo spellati vivi…» «Vieni,» disse Hableyat, ritornando a essere il benevolente uomo d’affari. Percorsero in fretta il corridoio. Hableyat fece scorrere la sua porta. «Dentro!» L’appartamento di Hableyat era più grande delle stanze della Sacerdotessa Elfane. Il salotto era dominato da un lungo tavolo rettangolare, la cui superficie era stata tagliata da un’unica asse di legno scuro e lucente intarsiato con foglie di rame arabescate. Due guerrieri Mang erano seduti rigidamente a entrambi i lati della porta, uomini bassi e tarchiati, dai lineamenti scoscesi. Hableyat non prestò loro alcuna attenzione, li oltrepassò come se fossero inanimati. Notando lo sguardo interrogativo di Joe, parve osservarli per la prima volta. «Ipnotizzati,» disse con disinvoltura. «Finché io sono nella stanza, o la stanza è vuota, non si muovono.» Joe avanzò guardingo nella stanza dopo di lui, riflettendo che poteva essere sospettato lì come nell’appartamento della Sacerdotessa. Hableyat si sedette con un grugnito, indicò una sedia a Joe. Piuttosto che avventurarsi in un labirinto di corridoi sconosciuti, Joe obbedì. Hableyat posò i palmi delle mani grassocce sul tavolo, e fissò Joe con occhi innocenti. «Sembra che tu sia stato coinvolto in una situazione spiacevole, Joe Smith.» «Non necessariamente,» disse Joe nel disperato tentativo di fare dello spirito. «Potrei andare dal Tearca e raccontargli la mia storia, e tutto sarebbe finito lì.» La faccia di Hableyat tremolò mentre ridacchiava, aprendo la bocca come uno scoiattolo. «E poi?» Joe non disse nulla. Hableyat batté vigorosamente la mano sul tavolo. «Ragazzo mio, non hai ancora familiarità con la psicologia dei Druidi. Per loro uccidere è la risposta a quasi tutte le circostanze, un atto casuale come spegnere la luce uscendo da una stanza. Così, quando tu avessi raccontato la tua storia, saresti ucciso. Per nessun’altra ragione particolare oltre al fatto che è più semplice uccidere che non uccidere.» Hableyat tracciò pigramente il disegno di un viticcio con l’unghia gialla, e parlò come se stesse meditando a voce alta. «Talvolta gli organismi più strani sono i più efficienti. Kyril opera in una maniera notevole per la sua assoluta semplicità. Cinque bilioni di vite dedicate a nutrire e vezzeggiare due milioni di Druidi e un Albero. Ma il sistema funziona, si perpetua, e questa è la prova della vitalità economica. «Kyril è il grottesco apice della devozione religiosa. Laici, Druidi, Albero. I Laici lavorano, i Druidi officiano i rituali, l’Albero è… è immanente. Stupefacente! L’umanità crea dallo stesso protoplasma i corpi dei Laici e dei Druidi di nobile indole.» Joe si agitò sulla sedia, inquieto. «Cosa significa per me tutto questo?» «Mi limito a sottolineare,» disse Hableyat gentilmente, «che la tua vita non vale il punto umido dove sputo, per nessuno che non sia tu stesso. Cosa significa la vita per un Druido? Vedi questa lavorazione? Le vite di dieci uomini sono state spese su questo tavolo. Le lastre di marmo alle pareti sono state levigate e tagliate a mano. Costo? I Druidi non conoscono il concetto. Il lavoro è gratuito, la manodopera illimitata. «Persino l’elettricità che dà energia e luce al palazzo è generata manualmente nelle cantine, nel nome dell’Albero della Vita, dove le povere anime cieche sperano alla fine di risiedere, serene al vento e alla luce del sole. I Druidi giustificano con ciò il sistema davanti alla loro coscienza, e davanti agli altri mondi. «I Laici non conoscono nulla di meglio. Un’oncia di carne, un pesce, una ciotola di verdure; così sopravvivono. Non conoscono il rito del matrimonio, la famiglia, la tradizione, nemmeno il folclore. Sono bestiame al pascolo libero. Figliano senza passione né grazia. «Controversie? La formula dei Druidi è semplice. Uccidono entrambe le parti e così la controversia è spenta. Inattaccabile… e l’Albero della Vita incombe sul pianeta, la più possente promessa di vita eterna che la galassia abbia mai conosciuto. Vitalità pura e massiccia!» Joe si spostò in avanti sull’orlo della sedia, guardò alla sua destra i guerrieri Mang, immobili, e alla sua sinistra, dall’altra parte del tappeto arancione, fuori dalla finestra. Hableyat seguì il suo sguardo increspando le labbra in un’espressione curiosa. Con voce concisa, Joe disse: «Perché mi stai tenendo qui? Cosa stai aspettando?» Hableyat sbatté rapidamente gli occhi, con un’espressione di rimprovero. «Non sono consapevole di alcuna intenzione di trattenerti. Sei libero di andartene in qualsiasi momento tu desideri.» «Perché mi hai portato qui, prima di tutto?» domandò Joe. Hableyat si strinse nelle spalle. «Forse per puro altruismo. Se ritorni ai tuoi quartieri adesso sei buono solo morto. Specialmente dopo la riprovevole intrusione del Tearca.» Joe si rilassò sulla sedia. «Questo non è per forza vero.» Hableyat annuì vigorosamente. «Temo invece che lo sia. Considera un momento: si sa, oppure si saprà, che hai portato su la Celta nera, la quale è stata poi condotta via dalla Sacerdotessa Elfane e dall’Ecclesiarca Manaolo. Il Tearca, recatosi negli appartamenti di sua figlia, forse per indagare, o forse in risposta a una sua chiamata, viene aggredito. Subito dopo l’autista ritorna ai suoi quartieri.» Fece una pausa, allargò le mani grassocce in un gesto significativo. «D’accordo, allora,» disse Joe. «Cos’hai in mente?» Hableyat picchiettò sul tavolo con l’unghia. «Questi sono tempi difficili, tempi difficili. Vedi,» aggiunse in tono confidenziale, «Kyril si sta sovrappopolando di Druidi.» Joe corrugò la fronte. «Sovrappopolando? Con due milioni di Druidi?» Hableyat rise. «Cinque bilioni di Laici non sono in grado di provvedere a un’esistenza dignitosa per un numero maggiore. Devi capire che quei poveri disgraziati non hanno alcun interesse a produrre. La loro unica aspirazione è passare attraverso la vita il più rapidamente possibile per poter prendere il loro posto come foglie sull’Albero. «I Druidi sono alle prese con un dilemma. Per aumentare la produzione devono o istruire e industrializzare — ammettendo quindi di fronte ai Laici che la vita offre altri piaceri oltre alla contemplazione — oppure devono trovare altre fonti di ricchezza e di produzione. A questo scopo i Druidi hanno deciso di gestire una serie di industrie su Ballenkarch. Così noi Mang e il nostro mondo altamente industrializzato veniamo coinvolti. Vediamo nel piano dei Druidi una minaccia al nostro benessere.» «E come tutto questo coinvolge me?» chiese Joe con esasperata pazienza. «In generale, il mio lavoro di emissario,» disse Hableyat, «è di promuovere gli interessi del mio mondo. A questo fine ho bisogno di una grande quantità di informazioni. Quando sei arrivato qui un mese fa sei stato oggetto di un’indagine. Abbiamo seguito le tue tracce fino a un lontano pianeta del lontano sole Thuban. Prima di allora, le tue tracce si perdono.» Con incredula rabbia, Joe disse: «Ma tu conosci il mio pianeta natio! Te l’ho detto la prima volta che ti ho visto. La Terra. E hai detto di avere parlato con un altro Terrestre, Harry Creath.» Hableyat annuì con foga. «Esattamente. Ma mi è venuto in mente che la «Terra» come luogo di origine offre un comodo anonimato.» Sbirciò scaltramente Joe. «Sia per te che per Harry Creath.» Joe tirò un respiro profondo. «Sai di Harry Creath più di quanto mi hai fatto credere.» Hableyat parve sorpreso che Joe considerasse il fatto eccezionale. «Certo. È necessario che io conosca molte cose. Ora questa «Terra» di cui parli, la sua identità, è davvero più che verbale?» E fissò Joe con fare inquisitore. «Ti assicuro che lo è,» disse Joe con pesante sarcasmo. «Siete così lontani su questo ciuffo di stelle che avete dimenticato il resto dell’universo.» Hableyat annuì, tamburellò con le dita sul tavolo. «Interessante, interessante. Questo porta alla luce un risvolto piuttosto nuovo.» Impaziente, Joe disse: «Io non vedo nessun risvolto, né vecchio né nuovo. Il mio problema, così com’è, è personale. Io non ho nessun interesse nelle vostre imprese, e ancora meno voglio esservi coinvolto.» C fu un aspro bussare alla porta. Hableyat si alzò in piedi con un grugnito di soddisfazione. Ecco cosa stava aspettando, pensò Joe. «Ti ripeto,» disse Hableyat, «che non hai scelta. Sei coinvolto malgrado tu desideri il contrario. Vuoi vivere?» «Certo che voglio vivere.» Joe quasi balzò in piedi quando il bussare si ripeté. «Allora conferma tutto quello che dico, per quanto possa sembrarti inverosimile. Hai capito?» «Sì,» disse Joe rassegnato. Hableyat pronunciò una parola brusca. I due guerrieri scattarono in piedi come uomini meccanici. «Aprite la porta.» La porta si aprì. Sulla soglia c’era il Tearca con espressione adirata. Dietro di lui stavano una mezza dozzina di Druidi in vesti di differenti colori: Ecclesiarchi, Suttearchi, Presbiteri, Gerofanti. Hableyat si era trasformato. Il suo comportamento si accentuò. La sua benignità si addolcì in ossequiosità, le buone maniere divennero una levigata untuosità. Avanzò trotterellando come se la visita del Tearca lo colmasse di immenso orgoglio e delizia. Il Tearca torreggiava sulla porta, girando per la stanza gli occhi fiammeggianti, che passarono sopra ai due guerrieri e si posarono su Joe. Sollevò una mano, puntò solennemente un dito. «Ecco l’uomo! Un fellone assassino! Prendetelo, vedremo la sua fine prima che sia passata un’ora.» I Druidi incedettero con portamento altero in un rapido fruscio di vesti. Joe allungò la mano per prendere l’arma. Ma i due guerrieri Mang, muovendosi così destramente e agilmente che sembrarono non essersi mossi affatto, bloccarono lo specchio della porta. Un Druido dagli occhi brucianti in una veste verde e marrone tese la mano per scostarli. Ci fu un guizzo di luce azzurra, un crepitio, una sbigottita esclamazione, e il Druido fece un salto indietro, tremando per l’indignazione. «È caricato di elettricità statica!» Hableyat avanzò sollecito, tutto costernazione e spavento. «Tua Eminenza, cosa succede?» L’espressione del Tearca era di ampio disprezzo. «Fatti da parte, Mang, richiama i tuoi demoni elettrici. Voglio quell’uomo.» «Ma Eminenza, Eminenza,» esclamò Hableyat, «tu mi sgomenti. Può mai essere che io abbia preso un criminale al mio servizio?» «Tuo servizio?» «Sicuramente tua Eminenza sa che al fine di perseguire una politica realista il mio governo impiega un certo numero di osservatori non ufficiali?» «Spie tagliagola!» ruggì il Tearca. Hableyat si accarezzò il mento. «Se è questo il caso, tua Eminenza, sono disilluso, poiché le spie dei Druidi su Mangtse si tengono uniformemente in ombra. Esattamente di cosa è accusato il mio servitore?» Il Tearca sporse la testa e disse con amabile fervore: «Te lo dico io cosa ha fatto: ha ucciso uno dei tuoi stessi uomini, un Mang! C’è sangue giallo dappertutto sul pavimento della camera di mia figlia. E dove c’è sangue, c’è morte.» «Tua Eminenza!» esclamò Hableyat. «Questa è una grave notizia! Chi è morto?» «Come faccio a saperlo? Ti basti che un uomo è stato ucciso e che questo…» «Ma tua Eminenza! Quest’uomo è stato in mia compagnia tutto il giorno. La notizia che mi rechi è allarmante. Significa che un rappresentante del mio governo è stato aggredito. Temo che ci saranno dei disordini nel Lathbon. Dove hai visto questo sangue? Nella camera di tua figlia, la Sacerdotessa? E lei dov’è? Forse può fare un po’ di luce sulla faccenda.» «Non so dove sia.» Il Tearca si girò e puntò un dito. «Alamaina, trova la Sacerdotessa Elfane. Desidero parlarle.» Poi rivolto ad Hableyat: «Devo capire che prendi questo fellone di una spia sotto la tua protezione?» Hableyat rispose con cortesia. «I nostri ufficiali della sicurezza sono stati solleciti nel provvedere alla sicurezza dei Druidi rappresentanti di tua Eminenza su Mangtse.» Il Tearca girò sui tacchi e se ne andò a grandi passi in mezzo alle sagome incappucciate dei Druidi. «E così adesso sono una spia Mang,» disse Joe. «Cosa avesti preferito?» gli chiese Hableyat. Joe ritornò al suo posto. «Per qualche motivo che non riesco a immaginare sei determinato ad aggregarmi alla tua squadra.» Hableyat fece un gesto di disapprovazione. Joe lo fissò un momento. «Assassini i tuoi stessi uomini, abbatti il Tearca nel salotto di sua figlia, e in qualche modo scopro che sono ritenuto responsabile. Non è possibile che tu abbia programmato tutto?» «Su, su, su,» mormorò Hableyat. «Posso contare ulteriormente sulla tua cortesia?» chiese Joe educatamente. «Certamente. Nel modo più assoluto.» Hableyat aspettava sollecito. Audacemente, senza contare davvero sull’assenso di Hableyat, Joe disse: «Portami al terminale. Fammi salire sul postale per Ballenkarch che parte oggi.» Hableyat, sollevando saggiamente le sopracciglia, annuì. «Una richiesta molto ragionevole, e che io sarei poco gentile a respingere. Sei pronto a partire subito?» «Sì,» disse Joe seccamente, «sono pronto.» «E hai fondi sufficienti?» «Ho cinquemila stipule datemi dalla Sacerdotessa Elfane e da Manaolo.» «Ah! capisco. Allora erano proprio ansiosi di andarsene.» «Mi hanno fatto quell’impressione.» Hableyat alzò bruscamente gli occhi. «C’è un’emozione repressa nella tua voce.» «Il Druido Manaolo suscita in me una grandissima avversione.» «Ah!» disse Hableyat strizzandogli maliziosamente l’occhio. «E la Sacerdotessa Elfane suscita sentimenti del tutto opposti? Oh, giovincelli! Se solo potessi riavere la mia giovinezza, allora sì che mi divertirei!» Con toni precisi, Joe disse: «I miei piani futuri non prevedono né Manaolo né Elfane.» «Solo il futuro può dirlo,» intonò Hableyat. «Adesso allora… al terminale.» Non ci fu alcun segnale che Joe potesse percepire, ma dopo tre minuti, durante i quali Hableyat se ne stette appollaiato in silenzio sulla sedia, un’aeromobile pesante e bene equipaggiata scivolò lungo l’appezzamento di terreno. Joe andò cautamente alla finestra e guardò la fiancata del palazzo. Il sole era basso. Le ombre delle varie balconate, dei piani di atterraggio, e degli intagli, correvano oblique sulla pietra, creando una confusione di forme nella quale avrebbe potuto nascondersi qualsiasi cosa. Sotto c’era il garage, e il suo cubicolo. Non c’era niente di valore là dentro; le poche centinaia di stipule che aveva risparmiato dal suo salario di autista poteva lasciarle dov’erano. Più oltre sorgeva l’Albero, una massa gigantesca che la sua vista non poteva comprendere in un solo sguardo. Per vederlo da un’estremità all’altra doveva girare la testa da destra a sinistra. La forma era incerta da quella distanza ravvicinata di circa un miglio. Alcuni rami ondeggianti carichi di foglie sovrastavano il palazzo. Hableyat lo raggiunse alla finestra. «Continua a crescere. Un giorno crescerà oltre la sua forza, o forse oltre la forza del suolo. Si piegherà e cadrà con il rumore più terribile mai udito sul pianeta. E il suo crollo sarà il giorno del giudizio per i Druidi.» Guardò attentamente la facciata del palazzo dall’alto in basso. «Adesso cammina in fretta. Una volta sull’aeromobile sei al sicuro da qualunque tiratore nascosto.» Di nuovo Joe frugò le ombre con lo sguardo. Poi cautamente uscì sul terreno. Sembrava molto vasto, molto vuoto. Lo attraversò fino all’aeromobile, con un prurito sotto la pelle. Entrò dalla porta e l’aeromobile vacillò sotto il suo peso. Hableyat balzò dentro accanto a lui. «Molto bene, Juliam,» disse Hableyat all’autista, un vecchissimo Mang con gli occhi tristi, la faccia piena di rughe, e i capelli ormai chiazzati di marrone per l’età. «Partiamo per il terminale. Piattaforma Quattro, credo. Il Belsaurion per Giunzione e Ballenkarch.» Juliam schiacciò il pedale elevatore. L’aeromobile si sollevò e partì. Il palazzo si rimpicciolì sotto di loro, e si alzarono lungo il tronco bigio dell’Albero, fin sotto il primo ombrello di fronde. L’aria di Kyril di solito era densa di caligine fumosa, ma quel giorno il sole obliquo splendeva frizzante attraverso un’atmosfera perfettamente limpida. La città di Divinal — un’eterogeneità di palazzi, uffici amministrativi, templi, alcuni magazzini bassi — era completamente raccolta tra le radici dell’Albero, e lasciò subito spazio a una pianura dolcemente ondulata, affollata di fattorie e villaggi. Le strade convergevano da ogni direzione verso l’Albero, e lungo queste strade camminavano scialbi Laici, uomini e donne, in pellegrinaggio. Joe li aveva osservati una volta entrare nella Fenditura Ordinale, una breccia tra due grandi radici arcuate. Figure minuscole, come formiche, si soffermavano, si voltavano a guardare ancora una volta la terra grigia prima di proseguire all’interno dell’Albero. Ogni giorno arrivavano a migliaia da tutti gli angoli di Kyril, vecchi e giovani. Uomini smunti dagli occhi scuri, infiammati per la pace dell’Albero. Attraversarono una pianura coperta di piccole capsule nere. Su un lato un gruppo di uomini nudi eseguiva esercizi di callistenia, saltando e ruotando in perfetto tempismo. «Lì puoi vedere la flotta spaziale dei Druidi,» disse Hableyat. Joe lo guardò bruscamente per vedere se stesse indulgendo al sarcasmo, ma la faccia grassoccia era immobile. «Sono ben addestrati per la difesa di Kyril, che significa per la difesa dell’Albero. Naturalmente chiunque desideri distruggere i Druidi con la forza penserebbe di distruggere l’Albero, demolendo così il morale dei nativi. Ma per distruggere l’Albero una flotta dovrebbe arrivare relativamente vicina a Kyril, diciamo entro centomila miglia, per un bombardamento appena accurato. «I Druidi mantengono uno schermo di quelle navicelle alla distanza di un milione di miglia. Sono costruite rozzamente, ma sono molto veloci e agili. Ognuna è munita di una testata nucleare; in realtà sono navicelle suicide, e fino a oggi è comunemente riconosciuta la loro efficacia nella difesa dell’Albero.» Joe restò un momento in silenzio. Poi disse: «Queste navicelle vengono costruite qui, su Kyril?» «Sono piuttosto semplici,» disse Hableyat con velato disprezzo. «Un guscio, una propulsione, un serbatoio di ossigeno. Non ci si aspetta certo che i soldati Laici esigano o apprezzino la comodità. C’è un gran numero di queste navicelle. Perché no? Il lavoro è gratuito. L’idea del costo non ha significato per i Druidi. Credo che l’equipaggiamento dei comandi sia importato da Beland, e così il dispositivo di innesto. Per il resto le navicelle vengono costruite a mano qui su Kyril.» Il campo pieno di navicelle grandi come scarafaggi si inclinò e svanì a poppa. Di fronte apparve il muro di trenta piedi che circondava il terminale. La lunga stazione di vetro si stendeva su un lato del rettangolo. Su un altro lato c’era una fila di palazzi sontuosi, gli uffici consolari degli altri pianeti. Dall’altra parte del campo, nella quarta di cinque campate, era fermo un vascello di medie dimensioni adibito al doppio carico di merci e passeggeri, e Joe vide che era pronto al decollo. Il boccaporto di carico era stato chiuso con rinforzi, i vagoncini di carico stavano tornando indietro e solo una passerella collegava la nave alla terra. Juliam sistemò l’aeromobile in un’area di parcheggio sul lato della stazione. Hableyat posò una mano sul braccio di Joe. «Forse, per la tua stessa sicurezza, potrebbe essere più sensato che provveda io al tuo passaggio. Il Tearca potrebbe avere architettato qualche guaio. Non si sa mai di cosa si interessano questi imprevedibili Druidi.» Saltò giù dall’aeromobile. «Allora meglio che tu resti qui, fuori vista; io torno subito.» «Ma il denaro per il passaggio…» «Una sciocchezza, una sciocchezza,» disse Hableyat. «Il mio governo ha più denaro di quanto riesca a spenderne. Permettimi di investire duemila stipule in un fondo di buona volontà a favore della nostra leggendaria Madre Terra.» Joe si rilassò dubbioso sul sedile. Duemila stipule erano duemila stipule e l’avrebbero aiutato a ritornare sulla Terra. Se pensava di farlo sentire obbligato, Hableyat si sbagliava. Si agitò sul sedile. Meglio scendere mentre la via era libera. Cose come quella non accadevano senza qualche spiacevole equivoco. Alzò una mano verso la porta e incontrò lo sguardo di Juliam. Juliam scosse la testa. «No, no, signore. Il Signore Hableyat sarà subito di ritorno e i suoi desideri erano che tu rimanessi fuori vista.» In uno spasmo di sfida, Joe disse: «Hableyat può attendere.» Balzò giù dall’aeromobile e ignorando la voce querula di Juliam si diresse verso la stazione. La sua rabbia si placò camminando, e nella livrea verde bianca e nera si sentì eccessivamente appariscente. Hableyat aveva la scortese abitudine di avere costantemente ragione. Un’insegna sul marciapiede diceva: Vestiti di tutti i mondi. Cambiati qui. Arriva alla tua destinazione abbigliato alla moda. Joe entrò. Attraverso la vetrina avrebbe visto Hableyat lasciare la stazione per ritornare all’aeromobile. Il proprietario aspettava quietamente i suoi ordini, un uomo alto e ossuto di una razza imprecisata con una faccia ampia e cerulea e grandi occhi schietti azzurro pallido. «Il Signore desidera?» chiese in un tono uniforme che ignorava la livrea da servitore che Joe si stava levando. «Sbarazzarmi di questi. Dammi qualcosa di adatto per Ballenkarch.» Il negoziante si inchinò. Osservò gravemente la figura di Joe, andò a un attaccapanni, e gli portò un completo che gli fece sbattere gli occhi: pantaloni rossi, una giacca azzurra attillata e senza maniche, una voluminosa blusa bianca. Dubbioso, Joe disse: «Non è esattamente… non è inferiore, vero?» «È un abbigliamento tipico di Ballenkarch, Signore, tipico cioè tra i clan più civilizzati. I selvaggi indossano pelli e sacchi.» Rigirò il completo per mostrarglielo davanti e dietro. Per quanto semplice, non indica alcun rango particolare. Un valvassore porta una spada al fianco sinistro. Un grande della Corte di Vail-Alan indossa una fascia nera in aggiunta. Gli abiti di Ballenkarch, Signore, sono contraddistinti da una vistosità piuttosto barbarica.» «Dammi un semplice completo da viaggio grigio,» disse Joe. «Mi cambierò nello stile di Ballenkarch quando arriverò.» «Come desideri, Signore.» Il completo da viaggio era più di suo gusto. Con profonda soddisfazione Joe chiuse le cerniere lampo lungo le cuciture, coprì le caviglie e i polsi, allacciò la cintura. «E un elmo di che stile, Signore?» Joe fece una smorfia. Gli elmi erano comme il faut nell’ordine sociale di Kyril. A laici, zotici, e servi era negata l’affettazione di un elmo complesso e luccicante. Indicò un copricapo basso, di metallo lucente, con una tesa vasta e inclinata. «Quello, se va bene.» Il negoziante piegò il corpo quasi in una U capovolta. «Sì, tua Eminenza.» Joe gli lanciò un’occhiataccia, poi osservò l’elmo che aveva scelto, un bell’elmetto luccicante, utile solo come copricapo decorativo. Era alquanto simile a quello indossato dall’Ecclesiarca Manaolo. Alzò le spalle, se lo calcò in testa, trasferì il contenuto delle tasche: pistola, denaro, portafogli con i documenti di identificazione. «Quanto ti devo?» «Duecento stipule, tua Eminenza.» Joe gli diede un paio di banconote, uscì sotto il portico. Mentre camminava si rese conto che il suo passo era più fermo, che in effetti si stava pavoneggiando. Il cambiamento dalla livrea con il completo grigio e il borioso elmo aveva trasformato il suo umore. Stato d’animo, fiducia in se stesso, voglia di vincere, erano distinzioni assolutamente intangibili, eppure in definitiva determinanti. E adesso doveva trovare Hableyat. E Hableyat era proprio davanti a lui, e camminava sottobraccio a un Mang in uniforme verde azzurra e gialla; parlavano in modo molto serio ed espressivo. Joe desiderò di essere in grado di leggere sulle labbra. I due si fermarono alla rampa che scendeva nel campo. L’ufficiale Mang si inchinò brevemente, si girò, e tornò a passo di marcia sotto il portico. Hableyat scese lemme lemme la rampa, e cominciò ad attraversare il campo. Joe si scoprì a pensare che gli sarebbe piaciuto sentire cosa avrebbe detto Juliam, e quali sarebbero stati i commenti di Hableyat sulla sua assenza. Se correva fino in fondo al portico, saltava oltre il muro, e faceva di corsa il giro de! parcheggio, sarebbe riuscito ad avvicinarsi all’aeromobile da dietro, probabilmente non visto. Facendo seguire l’azione al pensiero si voltò e corse per tutta la lunghezza del terrazzo, incurante degli sguardi perplessi. Si calò su! tappeto erboso verde azzurro e proseguì nascosto vicino al muro, tenendo il maggior numero possibile di velivoli tra sé e il rilassato Hableyat. Raggiunse l’aeromobile, e si buttò carponi senza essere visto da Juliam, che stava invece fissando Hableyat. Juliam fece scorrere indietro la porta. Hableyat disse allegramente: «E adesso, amico mio, ogni cosa è…» Si bloccò. Poi si rivolse aspramente a Juliam. «Dov’è? Dov’è andato?» «È andato via,» disse Juliam, «poco dopo di te.» Hableyat borbottò una sillaba mordace. «La confusa imprevedibilità dell’uomo! Gli ho dato precise istruzioni di rimanere qui.» «Gli ho rammentato le tue istruzioni,» disse Juliam. «Mi ha ignorato.» «È questa la difficoltà,» disse Hableyat, «nel trattare con uomini di intelletto limitato. Non ci si può fidare che agiscano logicamente. Mille volte preferirei lottare con un genio. I suoi metodi, almeno, sarebbero prevedibili… Se Erra Kametin lo vede tutti i miei piani falliranno. Oh,» gemette, «quello sciocco impetuoso e ostinato!» Juliam tirò su col naso ma tenne a freno la lingua. Hableyat parlò in tono incisivo: «Vai, guarda sotto il portico. Se lo vedi rimandalo qui in fretta. Io aspetterò qui. Poi telefona a Erra Kametin… sarà al Consolato. Identificati come Aglom Quattordici. Ti farà altre domande, e tu gli rivelerai che eri un agente di Empoing, che adesso è morto, e che hai importante informazioni per le sue orecchie. «Vorrà che tu ti presenti di persona, ma gli dirai che temi la controffensiva dei Druidi. Gli dirai di avere definitivamente identificato il corriere, il quale viaggerà con l’oggetto in questione sul Belsaurion, e gli darai una veloce descrizione di quest’uomo. Poi torna qui.» «Sì, Signore.» Joe udì lo strascichio dei piedi di Juliam. Si ritrasse furtivamente, si nascose dietro una lunga berlina azzurra, si alzò in piedi. Guardò Juliam attraversare il campo, poi per un’altra strada ritornò all’aeromobile ed entrò. Gli occhi di Hableyat scintillavano, ma parlò con voce indifferente. «Eccoti qui, giovanotto. Dove sei stato? Ah, abiti nuovi, a quanto vedo. Molto prudente, molto saggio, anche se ovviamente era rischioso farsi vedere sotto il portico.» Infilò la mano in tasca, ne tolse una busta. «Ecco il tuo biglietto, Ballenkarch via Giunzione.» «Giunzione? Cosa o dove è Giunzione?» Hableyat congiunse la punta delle dita, e con esagerata puntigliosità disse: «Kyril, Mangtse e Ballenkarch, come forse ben sai, formano un triangolo approssimativamente equilatero. Giunzione è un satellite artificiale nel suo centro. È situato anche lungo la linea di traffico Mangtse — Thombol — Beland, sulla perpendicolare al passaggio del Sistema Esterno di Frums, e costituisce così una comoda stazione secondaria o punto di trasferimento. «Per molti aspetti è un luogo interessante: il metodo di costruzione è unico, gli sforzi per intrattenere i visitatori raggiungono gli eccessi, i famosi Giardini di Giunzione, la natura cosmopolita della gente che vi si incontra. Sono certo che lo troverai un viaggio interessante.» «Immagino proprio di sì,» disse Joe. «Ci saranno spie a bordo, veramente ce ne sono ovunque. Non si può fare un passo senza inciampare in una spia. Le loro istruzioni al tuo riguardo possono o meno comprendere l’esercizio della violenza. Io ti consiglio la massima vigilanza, anche se, come ben saprai, un assassino abile non può essere opportunamente evitato.» Con tetro umorismo, Joe disse: «Ho una pistola.» Hableyat incrociò il suo sguardo con limpida innocenza. «Bene, eccellente. Ora, la nave può partire in qualsiasi momento. È meglio che tu salga a bordo. Io non verrò con te, ma ti augurerò buona fortuna da qui.» Joe saltò a terra. «Grazie per i tuoi sforzi,» disse pacatamente. Hableyat levò una mano per ammonirlo. «Non ringraziarmi, prego. Sono contento di poter aiutare un mio simile quando è nei guai. Tuttavia c’è un piccolo servigio che vorrei tu mi rendessi. Ho promesso a un amico, il Principe di Ballenkarch, un esemplare dell’incantevole erica di Kyril, e forse vorrai consegnargli questo piccolo vaso con i miei omaggi.» Hableyat gli mostrò una pianta in un vaso di terracotta. «Te la metto in questa borsa. Ti prego di fare attenzione. Innaffiala una volta alla settimana, se vuoi.» Joe accettò la pianta nel vaso. Il fischio della sirena della nave risuonò per tutto il campo. «Svelto, allora,» disse Hableyat. «Forse ci rivedremo un giorno.» «Addio,» disse Joe. Si girò e si diresse verso la nave, ansioso di imbarcarsi. I passeggeri ritardatari provenienti dalla stazione stavano attraversando il campo. Joe notò una coppia lontana non più di cinquanta piedi — un giovane alto dalle spalle larghe con la faccia di un satiro maligno, una ragazza snella dai capelli scuri — : Manaolo e la Sacerdotessa Elfane. La struttura a telai della piattaforma di imbarco era una rete nera contro il cielo nuvoloso. Joe salì la consunta scala di legno fino al ponte superiore. Dietro a lui non c’era nessuno. Nessuno lo osservava. Infilò la mano sotto un travetto a L e appoggiò la pianta nel vaso sulla flangia, fuori vista. Qualunque cosa fosse, era pericolosa. Non voleva averci nulla a che fare. Gli equivoci di Hableyat potevano costare cari. Joe sorrise. «Intelletto limitato» e «sciocco impetuoso e ostinato». C’era un antico aforisma sul fatto che chi origlia non sente parlare bene di sé: sembrava applicarsi alla perfezione al suo caso. Sono stato chiamato in modi peggiori, pensò Joe. E quando arriverò su Ballenkarch non farà nessuna differenza… Davanti a lui Manaolo e Elfane attraversarono la piattaforma, sempre diritti con quella determinazione fissa e consapevole caratteristica dei Druidi. Salirono la passerella, svoltarono nella nave. Joe fece una smorfia. Le gambe snelle di Elfane, che si muovevano ammiccando sulle scale, gli avevano mandato brividi agrodolci lungo i nervi. E la schiena orgogliosa di Manaolo… era come prendere due droghe con effetti esattamente opposti. Joe maledisse il vecchio Hableyat. Immaginava davvero che sarebbe stato così ossessionato dall’infatuazione per la Sacerdotessa Elfane da sfidare Manaolo? Joe sbuffò. Vecchio ipocrita troppo maturo! In primo luogo non aveva la minima indicazione che Elfane potesse considerarlo un possibile amante. E dopo che Manaolo le aveva messo le mani addosso… gli si contrassero i muscoli dello stomaco. Sempre che, si corresse doverosamente, la sua fedeltà a Margaret gli permettesse tanto interesse. Aveva abbastanza problemi da solo senza attirarsene altri. Alla passerella c’era uno steward in un’uniforme rossa attillata. File di alamari d’oro trilobati gli decoravano le gambe, all’orecchio portava attaccata una radio, e il microfono era premuto contro la gola. Era membro di una razza che Joe non conosceva: capelli bianchi, articolazioni sciolte, occhi verdi come smeraldi. Joe si sentì crescere dentro la tensione; se il Tearca sospettava che intendeva andarsene da quel pianeta, sarebbe stato fermato. Lo steward guardò il suo biglietto, annuì cortesemente, gli fece cenno di accomodarsi. Joe passò dalla passerella al nero scafo convesso, entrando nel doppio portello in ombra. A una scrivania provvisoria sedeva il commissario di bordo, un altro uomo della razza con i capelli bianchi. Come lo steward, indossava un completo scarlatto che sembrava una seconda pelle. In più portava spalline di vetro e uno zucchetto scarlatto. Tese a Joe un registro. «Il tuo nome e l’impronta del pollice, prego. Ci tolgono ogni responsabilità in caso di incidenti che avvengano durante il viaggio.» Joe firmò, premette il pollice sullo spazio indicato mentre il commissario di bordo esaminava il suo biglietto. «Passaggio di prima classe, Cabina Quattordici. Bagaglio, Eminenza?» «Non ne ho,» disse Joe. «Immagino che ci sia un negozio a bordo, dove posso comprare della biancheria.» «Sì, tua Eminenza, sì, certo. Ora, se vuoi gentilmente accedere alla tua cabina, uno steward ti assicurerà per il decollo.» Joe diede un’occhiata al registro che aveva firmato. Immediatamente prima della sua firma lesse in una scrittura alta e spigolosa Druido Manaolo kia Benlodieth, e poi in una grafia rotonda e inclinata verso sinistra Alnietho kia Benlodieth. Aveva firmato come sua moglie — Joe si morsicò un labbro. Manaolo era assegnato alla cabina 12, Elfane alla 13. In sé non era una cosa strana. Quelle navi da carico e passeggeri, a differenza dei grandi postali solo per passeggeri che partivano dalla Terra in ogni direzione, offrivano poche comodità per i viaggiatori. Le cosiddette cabine erano degli stanzini con un’amaca, dei cassetti, e minuscoli servizi igienici pieghevoli. Uno steward nell’uniforme attillata, questa volta di colore azzurro lucciola, disse: «Da questa parte, Signore Smith.» Per incutere rispetto tutto quello di cui un uomo aveva bisogno era un cappello di latta, pensò Joe. Seguì lo steward oltre la stiva, dove i passeggeri di terza classe erano già avvolti nelle loro amache immersi nel sonno ipnotico, poi attraversò una stanza che univa bar e ristorante. La parete di fronte mostrava due file di porte, con una balconata reticolale sotto la seconda fila. La numero 14 era l’ultima porta della fila superiore. Mentre lo steward guidava Joe oltre la numero 13, la porta venne spinta da parte, e Manaolo uscì prepotentemente. Aveva il volto pallido, gli occhi spalancati in una curiosa forma ellittica a mostrare il disco intero della retina nerissima. Era evidentemente in preda a una furia cieca. Scansò Joe con una spallata, aprì la porta della numero 12, ed entrò. Joe si allontanò lentamente dalla ringhiera. Per un istante tutto il buon senso, tutta la razionalità, lo abbandonarono. Era una sensazione curiosa, mai provata prima. Un’avversione illimitata ed elementale che nemmeno Harry Creath aveva mai suscitato. Si girò piano sulla passerella. Elfane era sulla porta della sua cabina. Si era tolta il mantello azzurro, e indossava il morbido abito bianco: una ragazza dai capelli scuri, il volto sottile, mobile e vivace, immusonito nella rabbia. I suoi occhi incontrarono quelli di Joe. Per un attimo si fissarono negli occhi, i loro volti a due passi di distanza. L’odio nel cuore di Joe venne sostituito da un’altra emozione, una meravigliosa elevazione nell’aria pulita, una delizia, un fermento. Gli occhi di lei si contrassero stupiti, socchiuse la bocca come per parlare. Joe si domandò con una strana sensazione di cedimento se l’avesse riconosciuto. I loro precedenti contatti erano stati così noncuranti, così impersonali. Con gli abiti nuovi era un uomo nuovo. Elfane si girò e chiuse la porta. Joe proseguì fino al numero 14, dove lo steward lo chiuse con una rete nell’amaca per il decollo. Joe si svegliò dal sonno ipnotico. Disse: «Qualunque cosa tu stia cercando, non ce l’ho. Hableyat ti ha dato una falsa dritta.» L’uomo nella cabina restò immobile, con la schiena rivolta a Joe. Joe disse ancora: «Non muoverti, ti ho puntato contro la pistola.» Si alzò di scatto dall’amaca ma la rete lo trattenne. Al rumore dei suoi sforzi l’intruso si gettò uno sguardo al disopra della spalla, abbassò la testa, e scivolò fuori dalla cabina come un fantasma. Joe protestò aspramente, ma non udì più alcun suono. Gettando da parte la rete corse alla porta, guardò fuori nel salone. Era deserto. Tornò indietro e chiuse la porta. Essendosi appena svegliato dal sonno ipnotico non aveva avuto una chiara visione del suo visitatore: un uomo basso e tarchiato, che si muoveva su articolazioni disposte ad angoli insolitamente ottusi. Aveva scorto fugacemente la faccia dell’Uomo, ma tutto quello che Joe rammentava era un colore giallognolo, come se il sangue che scorreva sotto la pelle fosse giallo vivo. Un Mang. Adesso si comincia, pensò Joe. Dannato Hableyat, farmi fare da specchietto per le allodole! Prese in considerazione di fare rapporto al capitano, che non essendo né Druido né Mang poteva non essere comprensivo nei riguardi di chi non rispettava la legge. Ma decise di no. Non aveva niente da riferire, soltanto un intruso nella sua cabina. Il capitano difficilmente avrebbe sottoposto tutti i passeggeri alla psicolettura per scoprire un ladruncolo. Joe si sfregò la faccia, sbadigliò. Di nuovo fuori nello spazio, per l’ultima tappa del suo viaggio. A meno che, naturalmente, Harry non se ne fosse andato altrove. Alzò la protezione antiraggi davanti al portello, e guardò nello spazio. Più avanti, in direzione del volo, uno schermo respingente assorbiva le radiazioni che la nave oltrepassava o incrociava. Altrimenti l’energia, aumentata in frequenza e durezza dall’azione Doppler dovuta alla velocità della nave, l’avrebbe ridotto istantaneamente in cenere. La luce separata da un fascio gli mostrava le stelle più o meno alla loro grandezza normale, e la prospettiva cambiava e ruotava sotto i suoi occhi, mentre le stelle fluttuavano, vorticavano, andavano alla deriva come granellini di polvere in un raggio di luce. Verso poppa l’oscurità era totale: nessuna luce poteva raggiungere il vascello. Joe lasciò cadere lo scuretto. La scena gli era familiare a sufficienza. Adesso avrebbe fatto un bagno, si sarebbe vestito, avrebbe mangiato… Guardandosi allo specchio notò un’ombra di barba ispida. Il rasoio era su uno scaffale di vetro sopra al lavabo smontabile. Joe allungò la mano, la fermò di scatto a un pollice dal rasoio. Quando era entrato per la prima volta nella cabina era appeso a un gancio sulla paratia. Joe si allontanò piano dalla parete, con i nervi a fior di pelle. Di certo il suo visitatore non si era fatto la barba. Abbassò gli occhi sul pavimento, e vide un tappetino di ottone ritorto e intrecciato. Si chinò, e notò un pezzo di filo di rame che univa il tappetino al tubo di scolo. Con cautela raccolse il rasoio in una scarpa, e lo portò alla cuccetta. Una fascia di metallo circondava l’impugnatura, con una punta che entrava nella scatola vicino all’unità che prendeva la corrente dal campo generale della nave. A lungo andare, pensò Joe, doveva ringraziare Hableyat, che l’aveva così gentilmente salvato dal Tearca e l’aveva messo a bordo del Belsaurion con una pianta in un vaso. Joe suonò per lo steward. Arrivò una giovane donna, coi capelli bianchi come gli altri membri dell’equipaggio. Indossava un indumento corto e multicolore arancione e azzurro che la copriva come uno strato di vernice. Joe buttò il rasoio nella fodera di un cuscino. Le disse: «Porta questo all’elettricista. È molto pericoloso, ha un corto circuito. Non toccarlo. Non lasciare che nessuno lo tocchi. E… vuoi per favore portarmi un altro rasoio?» «Sì, Signore.» E se ne andò. Finalmente lavato, rasato e ben vestito per quanto gli permetteva il suo limitato guardaroba, se ne andò a zonzo per il salone, a grandi passi nella gravità ridotta della nave. Quattro o cinque uomini e donne sedevano nel salottino lungo una parete, impegnati in una circospetta conversazione. Joe restò un momento a guardare. Creature peculiari e artificiali, pensò, gli esseri umani dell’Era Spaziale, fragili e così completamente formali che la conversazione non era altro che uno scambio di levigate affettazioni. Così sofisticati che niente poteva scandalizzarli tanto quanto l’ingenua sincerità. Tre Mang sedevano nel gruppo: due uomini, uno vecchio e l’altro giovane, entrambi nelle ricche uniformi della fazione Rossa di Mangtse; e una giovane donna Mang di una bellezza un po’ pesante, evidentemente la moglie del giovane ufficiale. L’altra coppia, come le creature che gestivano la nave, apparteneva a una razza di umani devianti che Joe non conosceva. Erano come le illustrazioni che aveva visto in un libro di fate, da bambino: creature fragili ed eteree, con gli occhi grandi, la pelle sottile, vestite di abiti strani e ampi. Joe scese le scale fino al ponte principale e apparve un ufficiale della nave, presumibilmente il capo degli steward. Facendo un gesto cortese in direzione di Joe, parlò rivolgendosi a tutto il gruppo. «Vi presento il Signore Joe Smith del pianeta…» esitò, «…del pianeta Terra.» Si girò verso gli altri del gruppo. «Erru Kametin» — il più vecchio dei due ufficiali Mang — «Erru Ex Amma e Erritu Thi Amma, di Mangtse.» Si girò verso le creature simili a fate. «Prater Luli Hassimassa e la sua signora Hermina di Cil.» Joe si inchinò educatamente, si sedette a un’estremità del salottino. Il giovane ufficiale Mang, Erru Ex Amma, chiese incuriosito: «Ho capito bene che rivendichi la Terra come tuo pianeta madre?» «Sì,» disse Joe quasi con violenza. «Io sono nato nel continente conosciuto come Nord America, dove è stata costruita la prima nave che ha lasciato la Terra.» «Strano,» mormorò il Mang, studiando Joe con un’espressione prossima all’incredulità. «Ho sempre considerato le chiacchiere sulla Terra una superstizione nata nello spazio, come le Lune del Paradiso e la Stella Drago.» «Posso assicurarvi che la Terra non è una leggenda,» disse Joe. «In qualche modo nel corso delle migrazioni verso altri pianeti, tra le guerre e i programmi planetari di propaganda, l’esistenza reale della Terra è stata messa in discussione. E noi viaggiamo molto raramente in questa parte esterna della galassia.» La donna fata parlò con un’acuta voce musicale che ben si addiceva al suo aspetto fragile come una farfalla notturna. «E sostieni che noi tutti — tu, i Mang, noi Cil, i Beland che gestiscono la nave, i Druidi, i Frunsan, i Thabliti — che tutti noi in definitiva siamo derivati dal ceppo terrestre?» «Questa è la verità.» Una voce metallica disse: «Ciò non è completamente vero. I Druidi sono stati il primo frutto dell’Albero della Vita. Questa è la dottrina stabilita, e ogni altra asserzione non accompagnata da prove è falsa.» Con voce attenta, Joe disse: «Hai diritto alla tua credenza.» Lo steward si fece avanti. «Ecclesiarca Manaolo kia Benlodieth di Kyril.» Ci fu un momento di silenzio dopo le presentazioni. Poi Manaolo disse: «Non solo ho il diritto alla mia credenza, ma devo protestare contro la propagazione di idee erronee.» «Anche questo è un tuo privilegio,» disse Joe. «Protesta quanto ti pare.» Incontrò gli occhi neri di Manaolo, e dietro a quegli occhi gli parve di non vedere alcuna umana comprensione, alcun pensiero, solo emozione e volontà ostinata. Alle spalle di Manaolo notò un movimento; era la Sacerdotessa Elfane. Venne presentata alla compagnia, e senza parlare si sedette accanto a Hermina di Cil. L’atmosfera adesso era cambiata, e sebbene non facesse altro che mormorare arguzie con Hermina, la sua presenza dava un gusto piccante, una scintilla, un aroma speziato… Joe contò: otto con lui, quattordici cabine, mancavano ancora sei passeggeri. Uno degli altri tredici aveva cercato di ucciderlo — un Mang. Due Druidi uscirono dalle cabine 2 e 3, e vennero presentati: uomini anziani, con la faccia da pecore, in viaggio per compiere una missione su Ballenkarch. Si portavano appresso un altare portatile, che subito rizzarono in un angolo del salone, e cominciarono una serie di riti silenziosi davanti a una piccola rappresentazione dell’Albero. Manaolo li osservò senza interesse per un momento o due, poi distolse lo sguardo. Ne mancano quattro, pensò Joe. Lo steward annunciò il primo pasto del giorno, e in quel momento un’altra coppia uscì dalle cabine, due Mang in abbigliamento non militare, avvolti in ampie vesti di seta colorata, con leggeri mantelli e corsaletti ingioiellati. Si inchinarono formalmente alla compagnia, e poiché lo steward stava preparando il tavolo pieghevole, presero posto senza venire presentati. Cinque Mang, pensò Joe. Due soldati, due civili, una donna. Due cabine ancora celavano i loro occupanti. La cabina numero 10 si aprì, e una donna anziana estremamente alta uscì lentamente sulla balconata. Era calva come un uovo, e la sommità della testa era piatta. Aveva un naso grande e ossuto, occhi neri e sporgenti. Indossava una mantellina nera, e su ogni dito di entrambe le mani portava un gioiello enorme. Uno in meno. La porta della cabina numero 6 rimaneva chiusa. Il pasto venne servito da un menu sorprendentemente vario, per accontentare i palati di molte razze. Joe, nel suo viaggio di pianeta in pianeta attraverso la galassia, aveva necessariamente smesso di fare lo schizzinoso. Aveva mangiato materia organica di ogni concepibile colore, consistenza, odore e sapore. Ad alcuni elementi familiari sapeva dare un nome — felci, frutti, funghi, radici, rettili, insetti, pesci, molluschi, lumache, uova, sacchi sporiferi, mammiferi e uccelli — ma non era in grado di definire né di riconoscere almeno altrettanti elementi, la cui unica pretesa sul suo appetito stava nell’esempio altrui. Il suo posto a tavola era proprio di fronte a Manaolo e Elfane. Notò che non parlavano, e più di una volta sentì su di sé gli occhi di lei, che interrogavano e analizzavano, a metà furtivi. È sicura di avermi già visto, pensò Joe, ma non si ricorda dove. Dopo il pasto i passeggeri si separarono. Manaolo si ritirò nella palestra dietro il salone. I cinque Mang si sedettero a giocare con bastoncini di diversi colori. I Cil salirono alla passeggiata lungo la nera nervatura della nave. L’alta diavolessa si sedette in poltrona, fissando inespressiva nel vuoto. Anche a Joe sarebbe piaciuto fare un po’ di esercizio in palestra, ma la presenza di Manaolo era un deterrente. Scelse una pellicola dalla biblioteca della nave e si preparò a ritornare nella sua stanza. La Sacerdotessa Elfane gli disse con voce sommessa: «Signore Smith, vorrei parlarti.» «Certamente.» «Vuoi venire nella mia stanza?» Joe si guardò sopra la spalla. «Tuo marito non ne sarà infastidito?» «Marito?» Riuscì a mettere nella voce un’enorme quantità di disprezzo e adirato disgusto. «La relazione è puramente nominale.» Si fermò e guardò altrove, apparentemente rammaricandosi delle parole appena dette. Poi continuò con voce fredda: «Vorrei parlarti.» Si voltò e si diresse verso la sua cabina. Joe ridacchiò piano. Quella bisbetica non conosceva altro mondo al di fuori di quello nel suo cervello, non concepiva che potessero esistere altre volontà opposte alla sua. Adesso era divertente, ma che demonio quando fosse invecchiata! Gli venne in mente che sarebbe stata un’esperienza piacevole perdersi con lei su un pianeta disabitato, domare la sua pervicacia, schiudere la sua coscienza. La seguì con comodo nella sua cabina. Elfane si sedette sulla cuccetta. Joe prese posto sulla panca. «Allora?» «Hai detto che la tua patria è il pianeta Terra, la mitica Terra. È vero?» «Sì, è vero.» «Dov’è la Terra?» «Verso il Centro, forse a un migliaio di anni luce.» «Com’è la Terra?» Elfane si sporse in avanti, con un gomito sul ginocchio, il mento nell’incavo della mano, osservandolo con occhi colmi di interesse. Joe, improvvisamente turbato, alzò le spalle. «Mi fai una domanda alla quale non posso rispondere con una parola. La Terra è un mondo molto vecchio. Ovunque ci sono edifici antichi, città antiche, tradizioni. In Egitto sorgono ancora le grandi piramidi, costruite dai primi uomini civilizzati. In Inghilterra un circolo di pietre scheggiate, Stonehenge, è la reliquia di una razza quasi altrettanto vecchia. Nelle caverne di Francia e Spagna, in lunghi cunicoli sottoterra, ci sono disegni di animali, graffiati da uomini a malapena usciti dalla stessa condizione delle bestie che cacciavano.» Elfane trasse un profondo respiro. «Ma le vostre città, la vostra civiltà, sono diverse dalle nostre?» Joe assunse un’espressione saggia. «Naturalmente sono diverse. Non esistono due pianeti uguali. La nostra è una cultura antica, stabile, stagionata, benevola. Le nostre razze si sono fuse, e io sono il risultato della loro fusione. In queste regioni esterne gli uomini sono stati esclusi e separati, e si sono differenziati di nuovo. Voi Druidi, che fisicamente siete molto vicini a noi, corrispondete all’antica razza caucasica del ramo mediterraneo.» «Ma non avete un Grande Dio, un Albero della Vita?» «Attualmente,» disse Joe, «sulla Terra non c’è una religione organizzata. Siamo liberi di esprimere la nostra gioia di essere vivi in qualunque modo ci piaccia. Alcuni riveriscono un creatore cosmico, altri riconoscono semplicemente le leggi fisiche che controllano l’universo, ma il risultato è quasi identico. L’adorazione di feticci, antropoidi, animali o vegetali — come il vostro Albero — si è estinta da molto tempo.» Elfane si drizzò a sedere di scatto. «Tu… tu deridi la nostra sacra istituzione.» «Spiacente.» La ragazza si alzò in piedi, poi si sedette, ingoiando la collera. «Tu mi interessi per molti aspetti,» disse risentita, come per giustificare a se stessa la propria tolleranza. «Ho la particolare sensazione di conoscerti.» Joe, per un impulso che rasentava il sadismo, disse: «Ero lo chauffeur di tuo padre. Ieri tu e tuo… marito avevate in mente di uccidermi.» Elfane rimase paralizzata in una rigidità simile a stupore, e lo fissò con la bocca socchiusa. Poi si rilassò, rabbrividì, si ritrasse. «Tu… sei tu…» Ma Joe scorse qualcosa dietro di lei, su uno scaffale sopra la cuccetta: una pianta in un vaso, quasi identica a quella che lui aveva lasciato su Kyril. Elfane vide la direzione del suo sguardo. Chiuse d’un tratto la bocca. Poi ansimò: «Allora tu sai!» Era quasi un sussurro. «Uccidimi, distruggimi, sono stanca della vita!» Si alzò in piedi, allargando le braccia indifesa. Joe si alzò, mosse un passo verso di lei. Era come un sogno, un tempo oltre il confine della ragione, senza logica, causa, effetto. Gli occhi di lei si spalancarono, ma non più per la paura. Joe le posò le mani sulle spalle. Era calda e sottile, pulsante come un uccello. La giovane si ritrasse, si sedette di nuovo sul letto. «Non capisco,» disse con voce rauca. «Non capisco nulla.» «Dimmi,» disse Joe con voce quasi altrettanto rauca. «Chi è questo Manaolo per te? È il tuo amante?» Elfane non rispose; poi finalmente scosse appena la testa. «No, non è nulla. È stato mandato su Ballenkarch per una missione. Io ho deciso che volevo liberarmi dei rituali. Volevo l’avventura, e non mi importava nulla delle conseguenze. Ma Manaolo mi spaventa. È venuto da me ieri… ma avevo paura.» Joe sentì un meraviglioso spumeggiare intorno al cuore. Gli apparve l’immagine di Margaret, con la bocca imbronciata nell’accusa. Joe sospirò pentito. Il suo stato d’animo mutò. Il volto di Elfane era di nuovo quello di una giovane Sacerdotessa Druida. «E la tua attività qual è, Smith?» gli chiese freddamente. «Sei una spia?» «No, non sono una spia.» «Allora perché stai andando su Ballenkarch? Solo le spie e gli agenti vanno su Ballenkarch. Druidi e Mang o i loro mercenari.» «È una questione di natura personale.» Guardandola rifletté che la stessa vivace Sacerdotessa Elfane aveva gaiamente proposto di ucciderlo solo il giorno prima. Elfane notò il suo esame, inclinò la testa in una smorfia buffa e capricciosa, il trucco di una ragazza consapevole del proprio fascino, un trucco di seduzione. Joe rise, si interruppe, restò in ascolto. C’era stato un suono raschiante contro la parete. Elfane seguì il suo sguardo. «È la mia cabina!» Joe scattò in piedi, aprì la porta, rimbalzò sulla balconata, spalancò la porta della sua cabina. Erra Ex Amma, il giovane ufficiale Mang, gli stava di fronte, con un ghigno ampio e senza allegria che rivelava denti gialli e puntuti. Aveva una pistola puntata alla vita di Joe. «Indietro!» ordinò. «Indietro!» Joe indietreggiò lentamente sulla balconata. Guardò giù nel salone. I quattro Mang erano impegnati nel loro gioco. Uno dei civili alzò gli occhi, mormorò qualcosa agli altri e tutti voltarono la testa e guardarono in su. Joe scorse il lampo di quattro facce giallo limone. Poi tornarono al loro gioco. «Entra nella cabina della Druida,» disse Ex Amma. «Muoviti!» Agitò la pistola, continuando a sorridere con quel sorriso bestiale come di una volpe che mostri le fauci. Joe indietreggiò ancora nella cabina di Elfane, passando rapidamente con gli occhi dalla pistola alla faccia del Mang. Elfane ansimò, sospirò di terrore. Il Mang vide il vaso con la piantina che spuntava dal terriccio. «Ahhhh!» Si rivolse a Joe. «Contro il muro.» Mosse leggermente la pistola in avanti, fece una smorfia di anticipazione, e Joe seppe di stare per morire. La porta si aprì; ci fu un sibilo. Il Mang si irrigidì, si piegò all’indietro in un arco di agonia, sollevò la testa, la mascella si tese in un urlo senza voce, e cadde a terra. Hableyat era sulla soglia, sorridendo compassato. «Sono davvero spiacente di aver dovuto arrecare questo disturbo.» Gli occhi di Hableyat andarono alla pianta sullo scaffale. Scosse la testa, fece schioccare la lingua, rivolse a Joe uno sguardo di rimprovero. «Mio caro amico, hai contribuito a rovinare un piano molto accurato.» «Se mi avessi chiesto,» disse Joe, «se volevo donare la vita al successo dei tuoi piani, avrei potuto risparmiarti un mucchio di affanno.» Hableyat belò la sua risata senza muovere un muscolo della faccia. «Sei affascinante. Sono felice che tu sia ancora con noi. Ma ora temo che ci sarà una lite.» I tre Mang stavano marciando in un’unica fila bellicosa lungo la balconata: il vecchio ufficiale, Erru Kametin, in testa, seguito dai due civili. Erru Kametin si arrestò rigidamente, con i peli irti come un cagnaccio rabbioso. «Signore Hableyat, questo è puro oltraggio. Hai interferito con un ufficiale dell’Estensione che compiva il suo dovere.» ««Interferito»?» protestò Hableyat. «L’ho ucciso. In quanto al suo «dovere»… da quando un dissoluto rapportatore delle Correnti Rosse viene messo sullo stesso piano con un membro dell’Ampianu Generale?» «Abbiamo ricevuto i nostri ordini direttamente dal Magnerru Ippolito. Tu non hai la minima supercessione…» «Il Magnerru Ippolito, se rammenti,» disse Hableyat conciliante, è responsabile di fronte al Lathbon, che assieme alle Acque Azzurre fa parte del Generale.» «Un branco di codardi dal sangue bianco!» gridò l’ufficiale. «Tu e tutte le Acque Azzurre!» La donna Mang sul ponte principale, che si era sforzata in tutti i modi di vedere cosa stava succedendo sulla balconata, strillò. Poi si udì la voce metallica di Manaolo. «Miserabili cani bastardi!» Balzò sulla balconata, forte e flessuoso, tremendo nella sua furia. Con una mano afferrò il civile per la spalla e lo scagliò sulla passerella, e fece lo stesso con l’altro. Sollevò Erru Kametin, lo gettò di peso giù dalla balconata. Cadendo piano per la gravità ridotta, Erru Kametin atterrò con un grugnito. Manaolo si rivolse ad Hableyat, che alzò una mano in segno di protesta. «Un momento, Ecclesiarca, ti prego di non usare la forza sulla mia povera corpulenza.» Il volto bestiale non mostrò il minimo tremito di emozione. Il ricomporsi del suo corpo fu la risposta alle parole di Hableyat. Joe tirò il fiato, fece un passo avanti, sferrò un sinistro, un destro secco, e Manaolo si ritrovò a terra, dove giacque guardando Joe con gli occhi neri come la morte. «Spiacente,» mentì Joe. «Ma Hableyat ha appena salvato la vita a me e a Elfane. Dagli comunque il tempo di parlare.» Manaolo saltò in piedi, senza una parola entrò nella cabina di Elfane e chiuse la porta a chiave. Hableyat si voltò e fissò Joe con sguardo faceto. «Ci siamo restituiti la cortesia.» Joe disse: «Mi piacerebbe sapere cosa sta succedendo. No, ci ho ripensato, voglio badare ai fatti miei. Ho già i miei guai. Vorrei che tu tenessi i tuoi per te.» Hableyat scosse la testa lentamente, come in perplessa ammirazione. «Per essere uno con le intenzioni che hai dichiarato ti tuffi proprio nel folto della mischia. Ma se vuoi venire nella mia cabina ho un’eccellente acquavite che costituirà la base di un piacevole rilassamento.» «Veleno?» Si informò Joe. Hableyat scosse gravemente la testa. «Solo un ottimo brandy.» Il capitano del vascello indisse un incontro dei passeggeri. Era un uomo grosso e pesante con capelli bianchissimi, una faccia piatta e bianca, liquidi occhi verdi, una bocca rosa e sottile. Indossava l’attillato indumento dei Beland, colore verde scuro con spalline di vetro e una fascia scarlatta sopra ogni gomito. I passeggeri sedevano affondati nei divani: i due Mang civili; la donna, con gli occhi rossi per il gran piangere; Erru Kametin; Hableyat, sereno e pacato in un’ampia veste di bianco tessuto opaco, e Joe accanto a lui; accanto a Joe era seduta la donna calva e sparuta nel suo abito nero, che emanava un odore dolciastro che non era né floreale né animale; poi venivano i Cil, poi i due Druidi, placidi e tranquilli, poi Elfane e per ultimo Manaolo, che indossava uno strabiliante indumento di raso verde chiaro con strisce d’oro sulle gambe. Un leggero elmo piatto era disinvoltamente appollaiato sui riccioli scuri. Il capitano parlò con tranquillità: «Sono consapevole che esiste uno stato di tensione tra i mondi di Kyril e Mangtse. Ma questa nave è proprietà di Beland, e noi siamo decisi a rimanere disinteressati e neutrali. «Questa mattina c’è stato un omicidio. Per quanto sono stato in grado di scoprire, Erru Ex Amma è stato scoperto a perquisire la cabina del Signore Smith, e quando è stato colto sul fatto ha spinto Smith nella cabina della Sacerdotessa Alnietho,» usò il nome con il quale Elfane aveva firmato sulla lista dei passeggeri, «dove ha minacciato di ucciderli entrambi. Il Signore Hableyat, nel lodevole sforzo di evitare un incidente interplanetario, è arrivato e ha ucciso il suo compatriota Erru Ex Amma. «Gli altri Mang hanno protestato, e sono stati coinvolti in una lotta violenta dall’Ecclesiarca Manaolo, che ha anche tentato di aggredire il Signore Hableyat. Il Signore Smith, preoccupato che Manaolo, nella sua ignoranza del reale stato della situazione, ferisse il Signore Hableyat, ha colpito Manaolo con un pugno. Io credo che questo sia essenzialmente il nocciolo della faccenda.» Fece una pausa. Nessuno parlò. Hableyat si gingillava girando gli indici uno attorno all’altro, con il turgido labbro inferiore rilassato, pendulo. Joe era conscio di Elfane seduta rigida e silenziosa, e sentì una lenta occhiata di Manaolo vagare su di lui, sulla faccia, le spalle, le gambe. Il capitano continuò: «Per quanto ho appurato, il colpevole, in questo caso Erru Ex Amma, è stato punito con la morte. Gli altri sono colpevoli solo di carattere irascibile. Ma non intendo certo incoraggiare ulteriori incidenti. In una eventuale simile occasione i protagonisti verranno ipnotizzati e assicurati alle loro amache per tutta la durata del viaggio. «Secondo la tradizione di Beland le nostre navi sono terreno neutrale, e la nostra attività fiorente nasce da questa reputazione. Non tollererò che venga messa a rischio. Le liti, personali o interplanetarie, devono attendere che vi troviate affrancati dalla mia autorità.» Si inchinò pesantemente. «Grazie per la vostra attenzione.» I Mang immediatamente si alzarono, la donna diretta alla sua cabina a piangere, e i tre uomini al loro gioco con i bastoncini colorati; Hableyat alla passeggiata. La donna alta e magra rimase seduta senza muoversi fissando il punto da dove fino a poco prima aveva parlato il capitano. I Cil si avviarono verso la biblioteca della nave. I missionari Druidi si avvicinarono a Manaolo. Elfane si alzò, stiracchiò le braccia giovani e sottili, lanciò una rapida occhiata a Joe, poi all’ampia schiena di Manaolo. Infine si decise, attraversò la stanza fino a Joe, si accomodò sul divano accanto a lui. «Dimmi, Signore Smith, di che cosa ti ha parlato Hableyat quando ti ha portato nella sua stanza?» Joe si mosse a disagio al suo posto. «Sacerdotessa, io non posso essere una spia maldicente tra Druidi e Mang. In questo caso particolare non abbiamo parlato di nulla di molto importante. Mi ha chiesto della mia vita sulla Terra, era interessato all’uomo che sono venuto a cercare fin qui. Gli ho descritto qualcuno dei pianeti su cui mi sono fermato. Abbiamo bevuto una generosa dose di brandy, e questo è praticamente tutto.» Elfane si morse un labbro con impazienza. «Non riesco a capire perché Hableyat ci ha protetti dal giovane Mang… Cosa ci guadagna? È un Mang proprio come gli altri. Morirebbe piuttosto che permettere ai Druidi di conquistare la sovranità su Ballenkarch.» Joe disse: «Tu e Manaolo non starete andando a conquistare la sovranità su Ballenkarch?» Elfane lo fissò con gli occhi spalancati, poi tamburellò con le dita su una gamba. Joe sorrise fra sé. La presunzione di chiunque altro di avere un’autorità illimitata avrebbe suscitato in lui una seria irritazione. La presunzione di Elfane… Joe, incantato e stregato, la considerava un’intrigante leziosaggine. Rise. «Perché ridi?» gli chiese lei sospettosa. «Mi ricordi una gattina vestita con gli abiti della bambola… molto orgogliosa di se stessa.» Elfane avvampò, i suoi occhi mandarono scintille. «Così… tu ridi di me!» Dopo un istante di contemplazione, Joe le chiese: «Non ridi mai di te stessa?» «No. Certo che no.» «Provaci qualche volta.» Si alzò in piedi e andò in palestra. Joe si fece una bella sudata in una corsa a ostacoli sul cilindro rotante, poi saltò giù e si sedette ansimando sulla panca. Manaolo entrò lentamente nella palestra, percorse il pavimento con lo sguardo, poi si soffermò su Joe. Ecco che arrivano i guai, pensò Joe. Manaolo si guardò alle spalle, poi si girò, attraversò la stanza in tre passi. Si fermò fissando Joe dall’alto. La sua faccia non era la faccia di un uomo, ma un’immagine fugace e irreale scorta negli inferi. Disse: «Ti mi hai toccato con le tue mani.» «Toccato, per l’inferno!» disse Joe. «Ti ho mandato gambe all’aria.» La bocca di Manaolo, tanto tenera da potere essere quella di una donna, ma anche dura e muscolosa, si abbassò agli angoli; le spalle fremettero. Si chinò in avanti e sferrò un calcio. Joe si piegò in due in silenziosa agonia, stringendosi il basso ventre. Manaolo indietreggiò leggermente, mollò un altro calcio sotto la mascella di Joe. Joe scivolò lento e fiacco a terra. Manaolo si chinò velocemente, un piccolo aggeggio metallico gli scintillava in mano. Joe sollevò debolmente il braccio, Manaolo lo allontanò con un calcio. Agganciò lo strumento di metallo nelle narici di Joe, lo fece scattare. Due coltellini a uncino tagliarono la cartilagine. Una nuvola di polvere ustionò la carne. Manaolo saltò indietro, gli angoli della bocca ancora più bassi e rientranti. Girò sui tacchi e uscì baldanzosamente dalla stanza. Il dottore di bordo disse: «Ecco, non è troppo grave. Avrai le due cicatrici per un po’, ma non dovrebbero vedersi molto.» Joe esaminò il proprio riflesso nello specchio, il mento contuso, il naso incerottato. «Insomma… ho ancora un naso.» «Hai ancora un naso,» confermò legnosamente il dottore. «Fortuna che ti ho curato in tempo. Ho già avuto qualche esperienza con quella polvere. È un ormone che favorisce la crescita della pelle. Se non l’avessi eliminato, le spaccature sarebbero state permanenti, e avresti tre lembi di pelle in mezzo alla faccia.» «Spero che sia chiaro,» disse Joe, «che è stato un incidente. Non vorrei disturbare il capitano con un rapporto, e spero che nemmeno tu lo farai.» Il dottore si strinse nelle spalle, si girò e ripose gli strumenti. «Strano incidente.» Joe ritornò nel salone. I Cil stavano imparando il gioco con i bastoncini colorati, e chiacchieravano allegramente con i Mang. I missionari Druidi, uno vicino all’altro, stavano eseguendo un complicato rito sull’altare portatile. Hableyat era sdraiato comodamente su un divano, esaminandosi le unghie con ogni evidente soddisfazione. La porta della cabina di Elfane si aprì, Manaolo uscì, percorse con agio la balconata e scese le scale. Rivolse a Joe un’occhiata inespressiva, e svoltò verso la passeggiata. Joe si sistemò accanto a Hableyat, si toccò delicatamente il naso. «È ancora lì.» Hableyat annuì compostamente. «Sarà come nuovo tra una settimana o due. Quei medici Beland sono capaci, davvero capaci. Invece su Kyril, dove i dottori non esistono, un Laico avrebbe applicato un impiastro di qualche sostanza orribile, e la ferita non sarebbe mai guarita. «Infatti c’è un gran numero di Laici con il naso spaccato in tre. Dopo la morte, questa è una delle punizioni preferite dai Druidi.» osservò Joe da sotto le palpebre socchiuse. «Sembri essere molto meno preoccupato di quanto consentirebbero le circostanze.» «Non sono compiaciuto.» «Lascia che ti illustri un aspetto della psicologia dei Druidi,» disse Hableyat. «Nella mente di Manaolo l’averti inflitto quella ferita ha concluso la faccenda. È stato l’atto finale e decisivo nella lite tra voi due. Su Kyril i Druidi agiscono senza paura di ritorsioni, in nome dell’Albero. Dà loro un peculiare senso di infallibilità. Ora, accenno a questo semplicemente per farti notare che Manaolo sarebbe sorpreso e oltraggiato se tu perseguissi ulteriormente la faccenda.» Joe alzò le spalle. Hableyat disse con voce querula: «Non dici niente, non fai minacce, non c’è rabbia nella tua voce.» Joe sorrise con le labbra tirate. «Non ho avuto molto tempo per altro all’infuori dello stupore. Dammi tempo.» Hableyat annuì. «Ah, capisco. Sei rimasto sconvolto dall’aggressione.» «Direi di sì.» Hableyat annuì ancora, una serie di piccoli scatti assennati che gli fece tremolare il doppio mento. «Cambiamo argomento, allora. Mi interessa la tua descrizione dei Druidi europei precristiani.» «Dimmi una cosa,» disse Joe. «Che cos’è quel vaso che provoca tanto scompiglio? Una specie di messaggio, o di formula, o di segreto militare?» Hableyat spalancò gli occhi. «Messaggio? Segreto militare? Che cosa sono questi? No, mio caro amico, per quanto ne so il vaso è proprio un vero vaso, e la pianta una vera pianta.» «Perché tutta quell’agitazione allora? E perché cercare di affibbiarmene una uguale?» Hableyat disse, meditabondo: «A volte nelle questioni di portata planetaria si rende necessario sacrificare la convenienza di una singola persona per l’eventuale vantaggio di molti. Tu dovevi portare la pianta per depistare i miei compatrioti pistoleri da quella custodita dai Druidi.» «Non capisco,» disse Joe. «Non lavorate entrambi per lo stesso governo?» «Oh, certo,» disse Hableyat. «I nostri scopi sono identici: la glorificazione e la prosperità del nostro beneamato pianeta. Nessuno è più devoto di me. Ma c’è un disaccordo piuttosto strano nel sistema Mang, che divide i Militari delle Correnti Rosse dai Commercianti delle Acque Azzurre. Esistono come due anime in un corpo, due mariti sposati alla stessa moglie. «Entrambi amiamo Mangtse. Entrambi ci serviamo di mezzi peculiari per dimostrare questo amore. Fino a un certo punto cooperiamo, ma solo finché ci conviene. Siamo in ultima istanza responsabili solo di fronte al Lathbon, e un gradino più in basso di fronte all’Ampianu Generale, nel quale entrambi vantiamo dei membri. Sotto molti punti di vista l’intesa funziona; talvolta è prezioso avere a disposizione due modi diversi di avvicinarsi a un problema. «In generale la fazione Rossa è diretta ed energica. Essi credono che il modo migliore di porre fine alle nostre difficoltà con i Druidi sia di conquistare il pianeta a seguito di un’operazione militare. Noi Acque Azzurre sosteniamo che molti uomini verrebbero uccisi, molte materie prime distrutte, e se per qualche miracolo avessimo infine la meglio sulle orde dei Laici resi pazzi dalla religione, avremmo distrutto qualsiasi utilità che Kyril avrebbe potuto avere per noi. «Capisci,» disse facendo un cenno ragionevole con la testa, «con un ceto contadino produttivo Kyril è in grado di fornire i materiali grezzi e il lavoro manuale per le nostre industrie Mang. Noi formiamo un accoppiamento naturale, ma l’attuale politica dei Druidi costituisce un fattore di disturbo. Ballenkarch industrializzato e governato dai Druidi sconvolgerebbe l’equilibrio. Adesso la fazione Rossa vuole distruggere i Druidi. Noi Acque Azzurre speriamo di influenzare una graduale metamorfosi su Kyril verso un’economia incanalata nella produzione, anziché nell’Albero.» «E come vi proponete di riuscirci?» Hableyat agitò un dito solenne. «In confidenza, mio caro amico, lasciando che i Druidi procedano indisturbati con i loro intrighi.» Joe corrugò la fronte, toccandosi distrattamente il naso. «Ma… il vaso con la pianta come entra nel quadro?» «Quello,» disse Hableyat, «è ciò che i poveri Druidi, i quali perseguono un unico scopo, credono essere il più convincente strumento del loro piano. Io spero che sarà uno degli strumenti della loro sconfitta. Così intendo fare in modo che quel vaso arrivi su Ballenkarch, dovessi anche uccidere venti Mang miei simili a tal fine.» «Se stai dicendo la verità, del che dubito…» «Ma mio caro amico, perché dovrei mentirti?» «…comincio a capire qualcosa di questo manicomio.» Giunzione: un poliedro di un miglio di diametro, fluttuante in una luminescenza diffusa. Una dozzina di navi spaziali succhiavano come sanguisughe, e lo spazio circostante era fitto di puntini di luce come lucciole, uomini e donne in tute spaziali che andavano alla deriva nel vuoto, avventurandosi per dieci, venti, trenta miglia, sentendo la maestà dello spazio profondo. Non sembravano esserci formalità connesse all’atterraggio, un fatto che sorprese Joe, ormai abituato a controlli e ricontrolli elaborati, indici, numeri di riserva, ispezioni, quarantene, lasciapassare, visti, rivisti, firme e controfirme. Il Belsaurion avvicinò il muso a un posto vacante, si agganciò al dispositivo di tenuta con campi di colla mesonica e si fermò. I passeggeri ipnotizzati nella stiva dormivano indisturbati. Il capitano Beland indisse di nuovo una riunione dei passeggeri. «Ora ci troviamo a Giunzione, e ci resteremo per trentadue ore, il tempo di prendere a bordo la posta e il carico. Alcuni di voi sono già stati qui prima. Non ho bisogno di ammonirvi alla prudenza e alla discrezione. «Per coloro che visitano Giunzione per la prima volta dirò che non si trova sotto la giurisdizione di nessun pianeta, che la sua legge sta al capriccio del proprietario e del suo sovrintendente, e che il loro principale interesse è nell’estrarre denaro dalle vostre tasche attraverso piaceri e passatempi di varia natura. «Perciò vi consiglio di stare alla larga dalle case da gioco. Alle donne suggerisco di non entrare nel Parco dei Profumi da sole, perché significa che desiderate una scorta pagata. Gli uomini che si recheranno all’Ordine Tre lo troveranno costoso e forse pericoloso. Sono stati riferiti casi di omicidio a scopo di rapina. Un uomo tenuto occupato da una ragazza è facile bersaglio per un coltello. Inoltre sono state filmate delle persone impegnate in atti discutibili, e le pellicole sono state usate per ricattarle. «Infine non lasciate che il desiderio per l’eccitazione e il brivido vi trascini nell’Arena, perché potete facilmente essere costretti a salire sul ring per affrontare un guerriero esperto. Una volta pagato l’accesso vi rendete disponibili alla scelta di chiunque sia il vincitore del momento. È stupefacente quanti visitatori casuali, sotto l’influenza di droghe, alcolici, della brama di eccitazione o della pura spavalderia, osino sfidare l’Arena. In molti vengono uccisi, o feriti gravemente. «Con gli avvertimenti ho finito. Non desidero allarmarvi. Ci sono parecchi piaceri legittimi nei quali potete indulgere. I Diciannove Giardini sono rinomati in tutto l’Universo. Nel Celestium potete pranzare col cibo del vostro pianeta, ascoltando la musica di casa vostra. I negozi lungo l’Esplanade vendono qualsiasi cosa possiate desiderare a prezzi davvero ragionevoli. «E così con queste parole vi lascio a voi. stessi. Trentadue ore da adesso e partiamo per Ballenkarch.» Si ritirò. Ci fu un generale tramestio di piedi. Joe notò che Manaolo seguiva Elfane alla sua cabina. I due missionari Druidi ritornarono al loro altare portatile, apparentemente senza nessuna intenzione di sbarcare. L’ufficiale Mang, Erri Kametin, scese a passo di marcia con la giovane vedova alle calcagna, e dietro a loro andarono i due Mang in abiti civili. La vecchia smunta e calva non si mosse di un pollice dalla sua poltrona, e restò seduta a fissare il pavimento. I Cil, ridacchiando e saltellando, si precipitarono giù dalla nave. Hableyat si fermò davanti a Joe, con le mani grassocce allacciate dietro la schiena. «Ebbene, amico mio, intendi scendere a terra?» «Sì,» disse Joe. «Probabilmente lo farò. Sto aspettando di vedere cosa fanno la Sacerdotessa e Manaolo.» Hableyat dondolò sui talloni. «Stai lontano da quel tipo, è il consiglio migliore che posso darti. È un esempio vizioso di megalomania, spinta — posso aggiungere — al massimo dall’ambiente che lo circonda. Manaolo considera se stesso divino e consacrato, letteralmente e realmente, a un grado che nessuno di noi due può immaginare. Manaolo non conosce né giusto né sbagliato. Conosce soltanto pro e contro Manaolo.» La porta della cabina 13 si aprì. Manaolo e Elfane uscirono sulla balconata. Manaolo, davanti a Elfane, portava un pacchetto. Indossava una corazza cesellata d’oro e di lucente metallo, e un lungo mantello verde, ricamato a foglie gialle, gli scendeva dietro le spalle. Senza guardare né a destra né a sinistra scese le scale, attraversò il salone e uscì dal portello. Elfane si fermò in fondo alle scale, lo seguì con lo sguardo, scosse la testa in un gesto di evidente fastidio. Poi si girò e raggiunse Joe e Hableyat dall’altra parte del salone. Hableyat inclinò rispettosamente la testa, gesto che Elfane ricambiò freddamente. Poi disse a Joe: «Voglio che tu mi conduca a terra.» «È un invito oppure un ordine?» Elfane sollevò le sopracciglia perplessa. «Significa che voglio che tu mi porti a terra.» «Benissimo,» disse Joe alzandosi in piedi. «Ne sarò felice.» Hableyat sospirò. «Se soltanto fossi giovane e bello…» Joe sbuffò. «Bello?» «…nessuna giovane signora così incantevole dovrebbe chiedermelo due volte.» Elfane, con voce contratta, disse: «Credo sia giusto farti sapere che Manaolo ha promesso di ucciderti se ti scopre a parlare con me.» Ci fu silenzio. Poi Joe disse in una voce che risuonò strana alle sue stesse orecchie: «E così la primissima cosa che fai è di venire qui a chiedermi di portarti a terra.» «Hai paura?» «Non sono un temerario.» Elfane si girò di scatto e si diresse al portello. Hableyat disse incuriosito: «Perché l’hai fatto?» Joe sbuffò esasperato. «È una sobillatrice. Ha la ridicola convinzione che io rischierò di farmi abbattere da un Druido pazzo furioso soltanto per il privilegio di accompagnarla in giro.» La guardò lasciare la nave, sottile come una betulla nella mantellina blu. «Ha ragione,» disse Joe. «Io sono proprio quel tipo di dannato sciocco.» E partì correndo al suo inseguimento. Hableyat li guardò andarsene assieme, sorrise tristemente, si fregò le mani. Poi, slacciando la fibbia che gli opprimeva la pancia, si sedette di nuovo sul divano, e con aria sognante seguì le devozioni dei due Druidi al loro altare. Stavano percorrendo un corridoio fiancheggiato da piccoli negozi. «Ascolta,» disse Joe, «sei una Sacerdotessa Druida, che mozzerebbe con indifferenza la testa a un cittadino, oppure sei una bella ragazza che è uscita per un appuntamento?» Elfane scosse altezzosamente la testa, tentò di darsi un contegno dignitoso e mondano. «Sono una persona molto importante e un giorno sarò Supplicante per l’intera Contea di Kelminester. Una piccola contea, è vero, ma la guida di tre milioni di anime di fronte all’Albero sarà nelle mie mani.» Joe le rivolse uno sguardo disgustato. «E non si troveranno bene lo stesso anche senza di te?» Elfane rise, si rilassò per un istante e divenne un’allegra ragazza dai capelli scuri. «Oh… probabilmente. Ma sono costretta a mantenere le apparenze.» «Il guaio è che dopo un poco comincerai a credere a tutta quella roba.» Elfane per un attimo non disse nulla. Poi, maliziosamente: «Perché ti stai guardando in giro con tanta attenzione? Questo corridoio è davvero così interessante?» «Sto cercando quel demonio di Manaolo,» disse Joe. «Sarebbe proprio da lui appostarsi in una di queste zone d’ombra e poi saltare fuori e pugnalarmi.» Elfane scosse la testa. «Manaolo è andato giù all’Ordine Tre. Ha tentato di fare di me la sua amante ogni notte del viaggio, ma non ho alcun desiderio di lui. Questa mattina ha minacciato che a meno che non mi arrendessi si sarebbe dato alla dissolutezza all’Ordine Tre. Gli ho detto chiaro e tondo di farlo, che forse allora la sua virilità non sarebbe stata così ardentemente diretta contro di me. Se n’è andato tutto stizzito.» «Manaolo sembra sempre essere in uno stato di dignità offesa.» «È un uomo che esalta molto il suo rango,» disse Elfane. «Adesso scendiamo qui. Voglio…» Joe la prese per un braccio, la fece voltare, la fissò negli occhi sbigottiti col naso a un pollice dal suo. «Ascolta, signorina. Non ho intenzione di cercare di affermare la mia virilità, ma nemmeno di trotterellare di qua e di là dietro a te, portandoti i pacchettini come un autista.» Sapeva che era la parola sbagliata. «Autista, ah! Allora…» «Se non ti piace la mia compagnia,» disse Joe, «adesso è il momento di andartene.» Dopo un momento, gli chiese: «Come ti chiami, oltre a Smith?» «Il mio nome è Joe.» «Joe… sei un uomo notevole. Molto strano. Tu mi stupisci, Joe.» «Se vuoi venire con me — un autista, un meccanico, un ingegnere civile, un piantatore di muschio, un barista, un istruttore di tennis, uno scaricatore di porto, una dozzina di altre cose — allora andiamo ai Diciannove Giardini a vedere se vendono una birra terrestre.» I Diciannove Giardini occupavano una fetta proprio in mezzo alla costruzione, composta da diciannove sezioni a forma di cuneo intorno a una piattaforma centrale che serviva da ristorante. Trovarono un tavolo libero, e con grande sorpresa di Joe venne loro servita birra in boccali ghiacciati da un quarto senza alcun commento. «Se così piace a tua Divinità,» disse Elfane umilmente. Joe sogghignò imbarazzato. «Non hai bisogno di esagerare. Dev’essere un tratto druidico, essere una valanga che travolge ogni cosa in un modo, nel modo opposto, in tutti i modi. Ebbene, cosa volevi?» «Niente.» Si girò sulla sedia, guardò verso i giardini. A quel punto Joe si rese conto che volente o nolente, bene o male che fosse, era follemente innamorato. Margaret? Sospirò. Era lontanissima, un migliaio di anni luce. Anche lui guardò verso i diciannove giardini, con la flora di diciannove pianeti diversi, ognuno con le sue caratteristiche sfumature di colore: nero, grigio e bianco di Kelce; arancioni, gialli, intenso verde limone di Zarjus; i soffici rosa, verde, azzurro e giallo pastello dei boccioli che crescevano sui pianeti piccoli e tranquilli di Jonapah; cento ricchi toni di verde, rosso vivo, azzurro cielo… Joe trasalì, quasi scattò in piedi. «Cosa succede?» chiese Elfane. «Quel giardino laggiù… quelle sono piante terrestri, oppure io sono una scimmia con la coda ad anelli colorati.» Si alzò, andò alla ringhiera, e Elfane lo seguì. «Gerani, caprifogli, petunie, zinnie, rose, cipressi italiani, pioppi, salici piangenti. E un prato. E un ibisco…» Guardò la targhetta descrittiva. «Pianeta Gea. Ubicazione incerta.» Ritornarono al tavolo. «Ti comporti come se avessi nostalgia di casa,» disse Elfane con voce offesa. Joe sorrise. «Ne ho… molta nostalgia. Dimmi qualcosa di Ballenkarch.» Elfane assaggiò la birra, la fissò sorpresa, fece una smorfia. «A nessuno piace la birra la prima volta che la beve,» disse Joe. «Dunque… non so davvero molto di Ballenkarch. Fino a pochi anni fa era completamente selvaggio. Nessuna nave ci si fermava perché gli autoctoni erano cannibali. Poi l’attuale principe ha unito tutti i continenti più piccoli in una nazione. È successo in una notte. Molta gente è stata uccisa. «Ma adesso non ci sono più assassinii, e le navi possono atterrare in relativa sicurezza. Il Principe ha deciso di industrializzarlo, e ha importato molti macchinari da Beland, Mangtse e Grabo, oltre la corrente. A poco a poco sta estendendo il suo dominio sul continente principale, riportando vittorie sui capi, ipnotizzandoli o uccidendoli. «Ora devi capire che i Ballenkart non hanno nessuna religione, e noi Druidi speriamo di legare a noi il loro nuovo potere industriale attraverso una fede comune. Allora non dipenderemo più da Mangtse per le merci confezionate. I Mang naturalmente non sono molto d’accordo, e allora…» Spalancò gli occhi. Allungò una mano, gli strinse il braccio. «Manaolo! Oh, Joe, spero che non ci veda!» Il velo di cautela di Joe si lacerò. Era impossibile che riuscisse a essere umile, adesso che l’oggetto del suo amore temeva per la sua incolumità. Si appoggiò allo schienale della sedia, osservò Manaolo arrivare a grandi passi sulla terrazza come un eroe di Demonlandia. Una donna dalla carnagione color tortora, con una calzamaglia arancione, babbucce a punta di stoffa azzurra e copricapo ugualmente di stoffa azzurra, era appesa al suo braccio. Nell’altro braccio aveva il pacchetto che aveva portato fuori dalla nave. Con un fremito dei suoi occhi smorti riconobbe Elfane e Joe, cambiò direzione senza cambiare espressione, sembrò continuare a passeggiare, e con noncuranza estrasse uno stiletto dalla cintura. «Ci siamo,» mormorò Joe. «Ci siamo!» Si alzò in piedi. Gli avventori seduti a bere o a pranzare si sparpagliarono. Manaolo si fermò a una iarda di distanza, sulla faccia scura c’era lo spettro di un sorriso. Appoggiò il pacchetto sul tavolo, poi avanzò con disinvoltura e affondò lo stiletto con una semplicità quasi ingenua, come se si aspettasse che Joe restasse fermo a farsi accoltellare. Joe gli gettò in faccia la birra, gli colpì il polso con il boccale e lo stiletto cadde a terra tintinnando. «E adesso,» disse Joe, «ho intenzione di picchiarti fino a lasciarti con un briciolo di vita.» Manaolo giaceva a terra. Joe, ansimando, gli si mise a cavalcioni. La fasciatura sul naso si era rotta, e il sangue gli colava dal naso e sul mento. La mano di Manaolo cadde sullo stiletto. Con un grugnito represso fece per colpire. Joe gli afferrò il braccio e diresse l’arma lontano da sé e nella spalla di Manaolo. Manaolo grugnì ancora, si strappò la lama dalla spalla. Joe gliela tolse di mano, trapassò l’orecchio di Manaolo conficcandola nel pavimento di legno, dove la fece affondare tempestandola di pugni; poi si alzò in piedi e rimase a guardarlo. Manaolo si mosse un po’ in modo sgraziato, come un pesce, poi giacque immobile, esausto. Una squadra di uomini impassibili con una lettiga si fecero strada tra la folla, rimosse lo stiletto, caricarono Manaolo, e lo portarono via. La donna dalla pelle color tortora gli corse accanto. Manaolo le parlò. Lei si volse, corse al tavolo, prese il pacchetto, ritornò sempre di corsa dove gli inservienti stavano mettendo Manaolo su un veicolo a ruote, e gli depose il pacchetto sul petto. Joe si lasciò cadere sulla sedia, prese la birra di Elfane, bevve a lungo. «Joe,» sussurrò Elfane. «Sei… ferito?» «Sono blu e nero dappertutto,» disse Joe. «Manaolo è un tipo manesco. Se non ci fossi stata tu me la sarei svignata. Ma,» disse con un sorriso impastato di sangue, «non potevo farmi vedere da te che me la svignavo davanti al mio rivale.» «Rivale?» Sembrava sorpresa. «Rivale?» «Per te.» «Oh,» disse in tono incolore. «Adesso non dire ‘Io sono la Reale Sacerdotessa Druida Divina Onnipotente’!» Elfane alzò lo sguardo stupita. «Non stavo pensando a questo. Stavo pensando che Manaolo non è mai stato il tuo… rivale.» Joe disse: «Devo darmi una ripulita e cambiarmi d’abito. Vuoi venire con me oppure…» «No,» disse Elfane, con la stessa voce incolore. «Resterò qui nel frattempo. Voglio… voglio pensare.» Trentuno ore. Il Belsaurion stava per decollare. I passeggeri tornarono a bordo alla spicciolata per essere registrati dal commissario di bordo. Trentuno ore e mezzo. «Dov’è Manaolo?» chiese Elfane al commissario. «È tornato a bordo?» «No, Eminenza.» Elfane si morsicò un labbro, torcendosi le mani. «È meglio che controlli all’ospedale. Non partirete senza di me, vero?» «No, Eminenza, certamente no.» Joe la seguì fino a un telefono. «Ospedale,» disse Elfane alla voce meccanica. Poi: «Voglio avere informazioni sull’Ecclesiarca Manaolo, che è stato ricoverato ieri. È stato dimesso?… Va bene ma in fretta. La sua nave sta aspettando per decollare…» Si girò a dire due parole di commento a Joe. «Sono andati a controllare nella sua stanza.» Trascorse un momento; poi Elfane si chinò sul ricevitore. «Cosa! No!» «Cosa succede?» «È morto. È stato assassinato.» Il capitano accettò di trattenere la nave fino a quando Elfane fosse ritornata dall’ospedale. Corse all’ascensore con Joe alle calcagna. All’ospedale venne indirizzata a un’infermiera di Beland, magra e con i capelli bianchi stretti in una crocchia severa. «Sei sua moglie?» chiese l’infermiera. «Se è così vuoi prendere accordi per disporre del corpo?» «Non sono sua moglie. Non mi importa cosa fate con il corpo. Dimmi, cosa ne è stato del pacchetto che aveva con sé?» «Nella sua stanza non ci sono pacchetti. Ricordo che ne aveva uno quando è arrivato, ma adesso non c’è più.» «Che visite ha avuto?» chiese Joe. «Non lo so con certezza. Ma suppongo di poterlo scoprire.» Gli ultimi visitatori di Manaolo erano tre Mang, che avevano firmato sul registro con nomi sconosciuti. L’inserviente di corsia aveva notato che uno di essi, un uomo anziano dall’atteggiamento rigidamente militare, era uscito dalla stanza con un pacchetto. Elfane si appoggiò alla spalla di Joe. «Quello era il vaso con dentro la pianta.» Joe la strinse fra le braccia, le accarezzò la testa bruna. «E adesso ce l’hanno i Mang,» disse disperata. «Scusami se sono eccessivamente curioso,» disse Joe. «Ma cosa c’è in quel vaso che lo rende tanto importante?» Elfane lo guardò, prossima alle lacrime, e infine disse: «La seconda creatura vivente più importante dell’universo. L’unico germoglio vivente dell’Albero della Vita.» Lentamente ripercorsero il corridoio, piastrellato di azzurro, verso la nave. Joe disse: «Non sono solo curioso, sono anche stupido. Perché prendersi il disturbo di portare un germoglio dell’Albero della Vita in giro per tutto il creato? A meno che, naturalmente…» Elfane annuì. «Come ti ho detto volevamo costituire un vincolo con i Ballenkart, un vincolo religioso. Questo germoglio, il Figlio dell’Albero, sarebbe stato il simbolo vitale.» «Allora,» disse Joe, «i Druidi si sarebbero infiltrati gradatamente, gradatamente avrebbero preso dominio, fino a quando Ballenkarch fosse diventato un altro Kyril. Cinque bilioni di miserabili servi della gleba, un milione o due di Druidi che vivono nel lusso, e un Albero.» La guardò con aria critica. «Non c’è nessuno su Kyril che consideri il sistema… insomma, sbilanciato?» Elfane lo fulminò con uno sguardo indignato. «Sei un completo Materialista. Su Kyril il Materialismo è un’offesa punibile con la morte.» ««Materialismo» che significa «distribuzione dei profitti»,» suggerì Joe, «o forse «incitamento alla ribellione».» «La vita è la soglia della gloria,» disse Elfane. «La vita è lo sforzo che determina il posto di ognuno sull’Albero. I lavoratori industriosi diventano foglie alte nella Scintillanza. Il fannullone deve arrancare per sempre nella fanghiglia scura come una radichetta.» «Se il Materialismo è quel peccato che pensi, perché i Druidi se la spassano tanto, che significa vivere in una così vezzeggiata sontuosità? Non è strano che coloro che hanno più da perdere col «Materialismo» siano quelli che più vi si oppongono.» «Chi sei tu per criticare?» esclamò Elfane incollerita. «Un barbaro selvaggio come i Ballenkart! Se fossimo su Kyril le tue parole impulsive verrebbero messe a tacere alla svelta!» «Sei ancora la solita dea di latta, vero?» disse Joe sprezzante. In un oltraggiato silenzio Elfane lo precedette con andatura rigida e maestosa. Joe sogghignò tra sé, e la seguì sulla nave. Il blocco del portello si aprì. Elfane si fermò di colpo. «Il Figlio è perduto, probabilmente distrutto.» Guardò Joe di traverso. «Non c’è ragione per cui io debba proseguire fino a Ballenkarch. Il mio dovere è di ritornare a casa e fare rapporto al Collegio dei Tearchi.» Joe si massaggiò il mento dispiaciuto. Aveva sperato che quell’aspetto della faccenda non le venisse in mente. Esitante, non sapendo esattamente quanta rabbia Elfane sentisse nei suoi confronti, disse: «Ma tu hai lasciato Kyril con Manaolo per sfuggire alla vita di palazzo. I Tearchi verranno a sapere ogni dettaglio della morte di Manaolo attraverso le loro spie.» Elfane lo studiò con un’espressione indecifrabile per i suoi sensi terrestri. «Vuoi che prosegua con te?» «Sì, lo voglio.» «Perché?» «Temo,» disse Joe piegando tristemente le labbra, «che tu mi colpisca emotivamente, in modo molto intenso e piacevole. E questo a dispetto della tua filosofia distorta.» «Questa era la risposta giusta,» dichiarò Elfane. «Benissimo, proseguirò. Forse,» disse con aria importante, «forse riuscirò a persuadere i Ballenkart ad adorare l’Albero su Kyril.» Joe trattenne il respiro per timore di ridere e offenderla così ancora una volta. Elfane lo guardò cupamente. «Vedo che mi trovi divertente.» Hableyat era in piedi accanto alla scrivania del commissario di bordo. «Ah, vedo che siete di ritorno. E gli assassini di Manaolo sono scappati con il Piglio dell’Albero?» Elfane rimase paralizzata per lo stupore. «Come lo sapevi?» «Mia cara Sacerdotessa,» disse Hableyat, «il più piccolo ciottolo che cade nella pozza manda le sue increspature fino alla lontana sponda. In verità, mi accorgo di essere forse più vicino di te alla realtà della situazione.» «Cosa vuoi dire con questo?» Il portello si chiuse, e lo steward educatamente disse: «Decolliamo tra dieci minuti. Sacerdotessa, Signori, posso assicurarvi alle vostre cuccette contro l’accelerazione?» Joe si risvegliò dal sonno ipnotico. Rammentando il risveglio precedente si alzò di scatto nella rete, perlustrò la cabina. Ma era da solo e la porta era chiusa con la chiave, col catenaccio, e sbarrata come l’aveva lasciata prima di prendere la pillola e di avviare gli schemi ipnotici sullo schermo. Saltò giù dall’amaca, si fece un bagno, la barba, infilò il nuovo completo di gabardine azzurro che aveva comprato a Giunzione. Uscì sulla balconata e trovò il salone quasi al buio. Evidentemente si era svegliato presto. Si fermò davanti alla porta della cabina 13, pensò a Elfane che giaceva calda e rilassata all’interno, i capelli scuri sparsi sul cuscino, il viso ammorbidito dall’assenza di dubbi e orgogliose affettazioni. Mise la mano sulla porta. Era come se qualcosa ce la trascinasse. Con uno sforzo di volontà ritrasse il braccio, si girò, e si avviò lungo la balconata. Si fermò di scatto. Qualcuno era seduto nel grande salotto vicino al portello panoramico. Si sporse in avanti, scrutò nell’oscurità. Hableyat. Joe proseguì lungo la balconata, scese le scale. Hableyat fece un breve gesto di saluto. «Siediti, amico mio, e unisciti a me nelle contemplazioni che precedono il pasto.» Joe si sedette. «Ti sei svegliato presto.» «Al contrario,» disse Hableyat. «Non mi sono sottomesso al sonno. Sono seduto qui in questo salotto da sei ore, e tu sei la prima persona che vedo.» «Chi ti aspettavi?» Hableyat concesse che un’espressione prudente gli si formasse sulla faccia gialla. «Non mi aspettavo nessuno in particolare. Ma da alcune abili domande e indagini a Giunzione ho scoperto che la gente non è tutta quello che sembra. Ero curioso di osservare ogni attività alla luce di questa nuova conoscenza.» Joe disse con un sospiro: «Dopotutto, non sono affari che mi riguardano.» Hableyat agitò il dito grassoccio. «No, no, amico mio. Tu sei modesto. Tu dissimuli. Io temo che tu sia rimasto assai avvinto nei casi dell’incantevole giovane Sacerdotessa, e non possa perciò essere ritenuto disinteressato.» «Mettila in questo modo. Non mi importa se i Druidi riescono oppure no a portare la loro pianta su Ballenkarch. E non capisco esattamente perché sei così ben disposto ad aiutare i loro sforzi.» Rivolse ad Hableyat un’occhiata di stima. «Se io fossi nei Druidi riconsidererei tutta la questione.» «Ah, mio caro amico,» disse Hableyat raggiante, «tu mi fai un complimento. Ma io mi muovo al buio. Vado a tentoni. Ci sono sottigliezze che ancora non ho compreso. Ti sorprenderebbe sapere della doppiezza di alcune nostre conoscenze.» «Bene, sono disposto a venire sorpreso.» «Per esempio, la vecchia calva vestita di nero, seduta a fissare nel vuoto come una che è già morta, cosa pensi di lei?» «Oh, un buzzago innocuo e poco attraente.» «Ha quattrocento dodici anni. Suo marito, secondo il mio informatore, ha elaborato un elisir di lunga vita quando lei aveva quattordici anni. Lei l’ha assassinato, e solo vent’anni fa ha perduto la freschezza della sua gioventù. In tutto questo tempo ha avuto amanti a migliaia, di tutte le forme e dimensioni, di ogni sesso, razza, sangue, e colore. Negli ultimi cento anni la sua dieta è consistita quasi esclusivamente di sangue umano.» Joe affondò nel divano, si sfregò la faccia. «Vai avanti.» «Sono venuto a sapere che uno dei miei compatrioti è di gran lunga più in alto per rango e autorità di quanto avessi supposto, e devo perciò muovermi con molta cautela. Ho scoperto che il Principe di Ballenkarch ha un agente a bordo di questa nave.» «Continua,» disse Joe. «Ho appreso anche — come forse ti ho accennato prima che decollassimo da Giunzione — che la morte di Manaolo e la perdita del suo vaso di fiori forse non sono state una tragedia senza conforto dal punto di vista dei Druidi.» «Come mai?» Hableyat alzò gli occhi pensieroso verso la balconata. «Ti è mai passato per la mente,» chiese piano, «che Manaolo era una strana scelta come corriere in una missione di tanta importanza?» Joe corrugò la fronte. «Immaginavo invece che gli fosse stato assegnato questo incarico per via del suo rango, che secondo Elfane è — era — piuttosto considerato. Un Ecclesiarca, inferiore solo al Tearca.» «Ma i Druidi non sono completamente inflessibili, né completamente stupidi,» disse Hableyat pazientemente. «Sono riusciti a controllare cinque bilioni di uomini e donne con nient’altro che un albero gigantesco per quasi mille anni. Non sono ottusi. «Il Collegio dei Tearchi senza dubbio conosceva Manaolo per quello che era, un egocentrico vanaglorioso. Decisero che sarebbe stato lo specchietto ideale per le allodole. Io, che non avevo colto la complessità del piano, ho pensato che Manaolo a sua volta aveva bisogno di un’esca per distogliere l’attenzione da lui. A questo proposito ho scelto te. «Ma i Druidi avevano previsto la difficoltà della missione, e avevano preso provvedimenti. Manaolo venne fatto partire con un alberello spurio, e investito esattamente dello stesso grado di ostentata segretezza. Il vero Figlio dell’Albero è stato inviato in un altro modo.» «E quest’altro modo?» Hableyat si strinse nelle spalle. «Posso solo fare delle ipotesi. Forse la Sacerdotessa l’ha astutamente nascosto sulla propria persona. Forse il germoglio è stato affidato al bagagliaio, anche se ne dubito per la paura delle spie. Immagino che il germoglio sia in custodia di un rappresentante di Kyril… Forse su questa nave, forse su un’altra.» «E allora?» «E allora mi siedo qui e osservo, per vedere se qualcuno condivide i miei sospetti. Finora tu sei il primo che è apparso.» Joe sorrise debolmente. «E che conclusioni ne trai?» «Nessuna.» Apparve lo steward dai capelli bianchi, braccia e gambe particolarmente aggraziati nel vestito attillato. Vestito? Joe, per la prima volta, guardò attentamente. Lo steward chiese: «Signori, desiderate fare colazione?» Hableyat annuì. «Io sì.» Joe disse: «Prenderò della frutta.» Poi, incoraggiato dalla scoperta della birra a Giunzione, aggiunse: «Suppongo che non abbiate del caffè.» «Credo che possiamo trovarne un poco, Signore Smith.» Joe si rivolse a Hableyat. «Non indossano molti vestiti. Quella che hanno addosso è vernice!» Hableyat parve divertito. «Certo. Non hai mai saputo che i Beland indossano più vernice che vestiti?» «No,» disse Joe. «I vestiti li ho sempre dati per scontati.» «Questo è un grave errore,» disse Hableyat solennemente. «Quando hai a che fare con una qualsiasi creatura o manifestazione o personalità su un pianeta sconosciuto, non dare mai niente per scontato! Quand’ero giovane ho visitato il mondo di Xenchoy su Kim, e lì commisi lo sbaglio di sedurre una delle ragazze native. Una creatura deliziosa con pampini intrecciati ai capelli. Rammento che si sottomise prontamente ma senza entusiasmo. «Nel momento in cui ero più indifeso tentò di pugnalarmi con un lungo coltello. Protestai, e lei ne fu sbalordita. In seguito scoprii che su Xenchoy solo una persona intenzionata al suicidio avrebbe posseduto una ragazza fuori dal vincolo del matrimonio, e poiché non esiste alcun onere per il suicidio, né per l’impudicizia, realizza così il sogno di tutta l’umanità, morire in estasi.» «E la morale?» «È certamente chiara. Le cose non sono sempre quello che sembrano.» Joe si rilassò sul divano, meditando, mentre Hableyat canticchiava sottovoce una fuga Mang su quattro toni, accompagnandosi con le sei tavolette che portava appese al collo come un ciondolo, ognuna delle quali vibrava al tocco di una nota diversa. È evidente che o sa o sospetta qualcosa, pensò Joe, che è chiaro come la mia faccia e io non riesco a vederlo. Hableyat una volta ha detto che ho un intelletto limitato, forse ha ragione. Di certo mi ha dato sufficienti indizi. Elfane? Lo stesso Hableyat? No, stava parlando del Figlio dell’Albero. Davvero un sacco di eccitamento per un vegetale. Hableyat pensa che sia ancora a bordo, questo è chiaro. Ebbene, io non ce l’ho. Lui non ce l’ha, altrimenti non parlerebbe così tanto. Elfane è all’oscuro. I Cil? L’orribile vecchia? I Mang? I due missionari Druidi? Hableyat lo stava osservando attentamente. Quando Joe si drizzò a sedere di scatto, Hableyat sorrise. «Adesso hai capito?» «Sembra ragionevole,» disse Joe. Tutti i passeggeri erano seduti ancora una volta nel salone, ma adesso c’era un’atmosfera diversa. La prima parte del viaggio aveva sofferto di una certa tensione, ma si era trattato di un vago fastidio, di una questione di simpatie e antipatie personali, dominate forse dalla personalità di Manaolo. Adesso le relazioni individuali sembravano sommerse in un più vasto odio razziale. Erru Kametin, i due civili Mang — procuratori del comitato politico delle Correnti Rosse, così Joe apprese da Hableyat — e la giovane vedova Mang sedevano vicino alla clessidra impegnati nel loro gioco con i bastoncini colorati, scoccando occhiate di fuoco all’imperturbabile Hableyat dall’altra parte della stanza. I due missionari Druidi erano chini sul loro altare in un angolo buio del salone, occupati con riti interminabili davanti alla rappresentazione dell’Albero. I Cil, offesi dall’assenza di attenzione alle loro eleganti capriole, se ne stavano sulla passeggiata. La donna in nero sembrava sempre come morta, con gli occhi che si spostavano di un ottavo di pollice per volta. Forse una volta ogni ora sollevava una mano trasparente fino alla testa liscia come vetro. Joe si trovò travolto da correnti psicologiche incrociate, come una pozza sferzata contemporaneamente da venti provenienti da ogni direzione. Prima di tutto c’era la sua missione personale su Ballenkarch. Strano, pensò Joe, mancavano solo giorni, ore, a Ballenkarch e adesso la sua missione sembrava svuotata di ogni urgenza. Possedeva solo una limitata quantità di emozioni, volontà, energia, e sembrava averne investito una grande parte in Elfane. Investito? Gli erano state strappate, spremute, divelte. Joe pensò a Kyril, all’Albero. Ai palazzi di Divinai raggruppati attorno alla massa subplanetaria del tronco, alle distese infinite di misere fattorie e villaggi maleodoranti, ai pellegrini che a spalle curve e occhi spenti entravano nel tronco, con l’ultimo gesto di trionfo, lo sguardo retrospettivo al paesaggio piatto e grigio. Pensò alla disciplina dei Druidi, imposta con la morte. E tuttavia la morte non era nulla da temere su Kyril. La morte era comune come nutrirsi. La soluzione dei Druidi a ogni dilemma, la valanga che tutto travolge, l’approccio universale all’esistenza. La moderazione era una parola con poco significato per uomini e donne senza nessun limite a capricci, appagamenti o eccessi. Considerò ciò che sapeva di Mangtse, un piccolo mondo di laghi e isole trasformate e pianificate in parchi naturali, un popolo innamorato delle circonvoluzioni intricate, con un’architettura di curve fantasiose, sinuosi ponti di legno su corsi d’acqua e canali, viste pittoresche e affascinanti nell’antica luce gialla del piccolo sole sfocato. Poi le fabbriche, ordinate, efficienti, sistematiche, sulle isole industriali; e i Mang, un popolo elaborato, involuto e sottile come i loro ponti scolpiti. C’era Hableyat, nella cui anima Joe non aveva mai guardato, nemmeno per un solo istante. C’erano le ardenti Correnti Rosse, inclini all’imperialismo: medievalisti, secondo un termine terrestre. E Ballenkarch? Niente, se non che era un mondo barbaro, con un principe intento a sviluppare un complesso industriale nello spazio di una notte. E da qualche parte su quel pianeta, tra i selvaggi del sud o tra i barbari del nord, c’era Harry Creath. Harry aveva affascinato Margaret, e se n’era andato a cuor leggero, lasciandosi alle spalle uno scompiglio emozionale che non poteva trovare pace senza il suo ritorno. Due anni prima Harry si era trovato a poche ore di distanza su Marte. Ma quando Joe era arrivato per riportarlo sulla Terra per una chiarificazione, Harry era già partito. Fumante di rabbia per il ritardo, ma tenace e forte della sua ossessione, Joe aveva persistito. Su Thuban aveva perso le sue tracce, quando la sciabola corta di un ubriaco l’aveva spedito all’ospedale per tre mesi. Poi altri mesi di angoscianti ricerche e indagini, e finalmente era venuto a galla il nome di un oscuro pianeta: Ballenkarch. Adesso Ballenkarch era vicino, e da qualche parte sul pianeta c’era Harry Creath. E Joe pensò, All’inferno anche Harry! Perché Margaret non era più al centro dei suoi pensieri. Adesso c’era una Sacerdotessa, sfacciata e senza scrupoli. Joe immaginò se stesso e Elfane a esplorare gli antichi luoghi della Terra, Parigi, Vienna, San Francisco, la Valle di Cashmir, la Foresta Nera, il Mare del Sahara. Poi si chiese se Elfane si sarebbe adeguata. Sulla Terra non c’erano sgobboni inebetiti da uccidere o battere o vezzeggiare come animali. Forse erano vere le parole di Hableyat: Le cose non sono sempre quello che sembrano. Elfane all’apparenza era fondamentalmente una creatura simile a lui, come caratteristiche generali. Forse non aveva mai capito con esattezza la profondità dell’egotismo dei Druidi. Benissimo, allora, l’avrebbe scoperto. Hableyat alzò mitemente gli occhi quando Joe si alzò in piedi. «Se fossi in te, amico mio, penso che aspetterei. Almeno un altro giorno. Dubito che a quest’ora abbia già apprezzato completamente la sua solitudine. Credo che apparirle davanti adesso, specialmente con quel cipiglio bellicoso, provocherebbe soltanto il suo antagonismo, e ti classificherebbe assieme al resto dei suoi nemici. Lasciala nel suo brodo ancora un giorno, e poi lascia che sia lei a venire da te, sulla passeggiata oppure in palestra, dove ho notato che trascorre un’ora tutti i giorni.» Joe riaffondò nel divano. Disse: «Hableyat, tu mi confondi.» Hableyat scosse tristemente la testa. «Ah, ma sono trasparente.» «Prima su Kyril mi salvi la vita. Poi cerchi di farmi uccidere.» «Solo per una spiacevole necessità.» «Talvolta penso che tu sia amichevole, comprensivo…» «Ma certo!» «…proprio adesso mi hai letto nella mente e mi hai dato un consiglio paterno. Ma non sono mai perfettamente sicuro del fine per cui mi usi tanto riguardo. Così come l’oca che viene ingrassata per il paté de fois gras non comprende la sconfinata generosità del suo padrone. Le cose non sono sempre quello che sembrano.» Rise brevemente. «Non credo che tu voglia dirmi per quale macello mi stai ingrassando.» Hableyat fece un gesto perplesso. «In questo momento non sono affatto ambiguo. Non fingo, e non mi nascondo dietro ad altro che sincerità. Il mio interesse per te è genuino ma, ne convengo, tale interesse non mi impedisce di sacrificarti a un fine più grande. Non c’è alcuna contraddizione. Io tengo separati i miei gusti e le mie avversioni personali dal lavoro. E così sai tutto di me.» «Come faccio a sapere quando stai lavorando e quando no?» Hableyat allargò le braccia. «È una domanda alla quale nemmeno io posso rispondere.» Ma Joe non era interamente insoddisfatto. Si mise comodo sul divano, e Hableyat allentò la fascia attorno alla vita grassoccia. «La vita a volte è molto difficile,» disse Hableyat, «e molto improbabile, molto esigente.» «Hableyat,» disse Joe, «perché non torni con me sulla Terra?» Hableyat sorrise. «Potrei anche dar retta al tuo suggerimento… se le Correnti Rosse sconfiggono le Acque Azzurre nell’Ampianu.» Erano passati quattro giorni dalla partenza da Giunzione, e mancavano tre giorni a Ballenkarch. Joe, appoggiato alla ringhiera della passeggiata nel ventre della nave, sentì un passo lento avvicinarsi lungo la struttura. Era Elfane. Aveva il volto pallido e tormentato, gli occhi grandi e luminosi. Si fermò esitante di fianco a Joe, come se stesse solo facendo una pausa durante la passeggiata. Joe disse: «Salve,» e ritornò a guardare le stelle. Con una minima variazione della posizione Elfane gli fece capire di essersi fermata definitivamente, di essersi unita a lui. Gli disse: «Hai tentato di evitarmi, quando ho più bisogno di parlare con qualcuno.» Joe disse, inquisitorio: «Elfane… sei mai stata innamorata?» La sua espressione era stupefatta. «Non capisco.» Joe grugnì. «Solo un’astrazione terrestre. Con chi vi accoppiate su Kyril?» «Oh, persone che ci interessano, con le quali ci piace stare, che ci rendono consci del nostro corpo.» Joe guardò di nuovo le stelle. «L’argomento è un po’ più profondo.» La voce di Elfane era sommessa e divertita. «Capisco molto bene, Joe.» Joe girò la testa. Elfane stava sorridendo. Labbra turgide e mature, un volto appassionato, gli occhi scuri e ardenti. La baciò, come un uomo assetato che beva. «Elfane…?» «Sì?» «Su Ballenkarch… invertiamo la rotta e puntiamo sulla Terra. Niente più preoccupazioni, niente più complotti, niente più morti. Ci sono così tanti posti che voglio mostrarti, i luoghi antichi della vecchia Terra, che è ancora così fresca e dolce.» Elfane si mosse tra le sue braccia. «C’è il mio mondo, Joe, e la mia responsabilità.» Teso, Joe disse: «Sulla Terra lo vedrai come è veramente, spregevole sterco, degradante per i Druidi quanto è miserabile per gli schiavi.» «Schiavi? Essi servono l’Albero della Vita. Tutti serviamo l’Albero della Vita in modi diversi.» «L’Albero della Morte!» Elfane si sciolse senza calore dal suo abbraccio. «Joe… è qualcosa che non posso spiegarti. Noi siamo legati all’Albero. Siamo i suoi figli. Tu non capisci la grande verità. C’è un universo, con l’Albero al suo centro, e i Druidi e i Laici servono l’Albero, impotenti di fronte allo spazio pagano. «Un giorno sarà diverso. Tutti gli uomini serviranno l’Albero. Noi nasceremo dal suolo, serviremo e lavoreremo e finalmente daremo la nostra vita nell’Albero e diverremo foglie nella luce eterna, ognuno al suo posto. Kyril sarà la meta, il luogo sacro della galassia.» Joe protestò. «Ma voi date a questo vegetale — un vegetale enorme, ma comunque un vegetale — un’importanza maggiore che all’umanità. Sulla Terra lo faremmo a pezzi come legna da ardere nella stufa. No, questo non è vero. Ci costruiremmo attorno una pista a spirale, faremmo fare delle escursioni e venderemmo hot dog e bibite sulla cima. Lo useremmo, invece di lasciarci ipnotizzare dalla sua mole.» Elfane non l’aveva ascoltato. «Joe… puoi essere il mio amante. E vivremo la nostra vita su Kyril, e serviremo l’Albero e uccideremo i suoi nemici…» Si fermò di colpo, sbalordita dall’espressione di Joe. «Questo non è bene… per nessuno di noi due. Io tornerò sulla Terra. Tu resta laggiù, trovati un altro amante che uccida i tuoi nemici per te. E faremo tutti e due ciò che vogliamo. Ma l’altro non sarà incluso.» Elfane si voltò e si appoggiò alla ringhiera, fissando tetramente le stelle a mezzanave. Dopo un poco disse: «Sei mai stato innamorato di un’altra donna?» «Niente di serio,» mentì Joe. E poi: «E tu… hai avuto altri amanti?» «Niente di serio…» Joe la guardò di scatto, ma sul suo viso non c’era traccia di umorismo. Sospirò. La Terra non era Kyril. Elfane disse: «Quando atterreremo su Ballenkarch cosa farai?» «Non lo so, non ho ancora deciso. Di certo niente che abbia a che fare con Druidi e Mang, questo almeno lo so. Alberi e imperi posso esplodere tutti insieme per quello che mi riguarda. Ho già i miei problemi…» La sua voce si abbassò, si spense. Vide se stesso incontrare Harry Creath. Su Marte, con la mente ancora piena di Margaret — su Io, Pluto, Altair, Vega, Giansar. Polaris, Thuban, e anche di recente su Jamivetta e Kyril — non si era reso conto dell’aspetto donchisciottesco e ridicolo del suo viaggio. Adesso l’immagine di Margaret aveva iniziato a farsi indistinta, ma per quanto indistinta sentiva ancora lo scampanio tintinnante della sua risata. Con un’improvvisa vampata di imbarazzo seppe che Margaret si sarebbe divertita parecchio a sentirlo raccontare le sue avventure, così come avrebbe provato sbalordimento, incredulità e forse appena un poco di disprezzo. Elfane lo stava guardando incuriosita. Joe ritornò al presente. Strano, come Elfane sembrasse concreta e reale in contrasto con i suoi pensieri randagi. Elfane non avrebbe trovato niente di divertente in un uomo errante per l’universo per amore di lei. Al contrario si sarebbe indignata se non l’avesse fatto. «Cosa farai su Ballenkarch allora?» gli chiese. Joe si massaggiò il mento, fissò le stelle che cambiavano continuamente posizione. «Credo che andrò a fare una visitina a Harry Creath.» «E dove lo cercherai?» «Non lo so. Prima proverò nel continente civilizzato.» «Nessun luogo su Ballenkarch è civilizzato.» «Il continente meno barbaro, allora!» disse Joe paziente. «Se lo conosco, sarà nel mezzo della mischia.» «E se è morto?» «Allora mi girerò e tornerò a casa con la coscienza pulita.» Margaret avrebbe detto: «Harry morto?» Vide il suo mento rotondo alzarsi impertinente. «In questo caso perde per abbandono. Prendimi, mio cavalleresco amore, e portami via sulla tua navicella bianca.» Lanciò un’occhiata furtiva a Elfane, d’un tratto consapevole del profumo agre e fiorito d’incenso che aveva addosso. Elfane era elettrizzante per quanta vitalità aveva, per ciò che pensava e lo stupore che provava. Prendeva la vita e le emozioni seriamente. Certo Margaret aveva con le cose un rapporto più leggero, rideva con maggiore facilità, non era dedita a uccidere i nemici della sua religione. Religione? Joe rise brevemente. Margaret conosceva appena la parola. «Perché ridi?» chiese Elfane sospettosamente. «Stavo pensando a una vecchia conoscenza,» disse Joe. Ballenkarch! Un mondo di violente tempeste grigie e luce splendente. Un mondo di colori fiammeggianti e paesaggi impetuosi; di scogliere rocciose che si levavano come muri nel cielo; di foreste, buie, alte, segregate; di savane nell’erba più verde alta fino alle caviglie, attraversate da fiumi lenti e possenti. Alle basse latitudini le giungle si affollavano e si urtavano, calpestavano la vegetazione più debole, ammucchiavano humus miglio su miglio, fino a quando l’elevazione così raggiunta agiva da freno al loro rigoglio. E tra i passi montani, in mezzo alle foreste, vagando attraverso le pianure, rullavano i carri vivacemente dipinti dei clan di Ballenkarch. Erano grandi uomini dalla voce tuonante, vestiti di armature di acciaio e cuoio, che spargevano sangue in vendette e duelli. Vivevano in un’atmosfera epica di scorrerie, massacri, battaglie contro gli alti bipedi neri della giungla, spaventosi e semi intelligenti. Come armi usavano spade, lance, balestre che lanciavano pietre grosse come un pugno. Il loro linguaggio, separato da mille anni dalla corrente della civiltà galattica, era un miscuglio a malapena comprensibile, e scrivevano in pittogrammi.. Il Belsaurion scese su una pianura verde immersa nella luce del sole. In lontananza la pioggia scendeva a veli da un nero tumulto di nubi, e un arcobaleno sontuoso si inarcava sopra a una foresta di alti alberi verdazzurri. Un grezzo padiglione di tronchi e lamiera ondulata serviva da deposito e da salad’aspetto, e, quando finalmente il Belsaurion si acquietò con un fremito, un vagoncino uscì sbuffando su otto ruote cigolanti in mezzo all’erba e si fermò a fianco della nave. «Dov’è la città?» chiese Joe rivolto a Hableyat. Hableyat ridacchiò. «Il Principe non consente ad alcuna nave di atterrare più vicino di così ai suoi insediamenti, per paura dei mercanti di schiavi. Questi corpulenti Ballenkart sono molto richiesti come guardie del corpo su Frums e Perkins.» Il portello che dava all’esterno venne aperto. L’aria fresca, odorosa di terra umida, pervase la nave. Lo steward annunciò a tutto il salone: «I passeggeri che desiderano sbarcare possono farlo. Vi consigliamo di non lasciare le vicinanze della nave fino a quando sarà pronto il trasporto per Vail-Alan.» Joe si guardò attorno in cerca di Elfane. Stava parlando con veemenza ai due missionari Druidi, che l’ascoltavano con un’espressione di testarda ostinazione. Elfane si adirò, si allontanò con rabbia, si diresse marciando, pallida in volto, al portello e uscì. I Druidi la seguirono, bisbigliando tra loro. Elfane si avvicinò al guidatore del veicolo a otto ruote. «Desidero essere portata subito a Vail-Alan.» Il guidatore la guardò inespressivo. Hableyat le toccò un gomito. «Sacerdotessa, un’aeromobile arriverà tra breve per portarci a Vail-Alan molto più rapidamente di questo veicolo.» Elfane si voltò e si allontanò a passi veloci. Hableyat si chinò vicino al guidatore, che sussurrò poche frasi. Il volto di Hableyat mutò impercettibilmente: una contrazione muscolare, l’approfondirsi della piega sulla guancia. Vide Joe che lo guardava, subito riprese i suoi modi da uomo d’affari, e il guidatore tornò a essere inespressivo. Hableyat si allontanò da solo con fare preoccupato. Joe lo raggiunse. «Allora,» disse sarcastico, «quali sono le novità?» Hableyat disse: «Molto brutte, molto brutte davvero.» «Come mai?» Hableyat esitò un istante, poi sbottò nel primo schietto sfogo di emozioni che Joe l’avesse visto esprimere. «I miei avversari in patria sono molto più forti di quanto credessi nel Lathbon. Il Magnerru Ippolito in persona è a Vail-Alan. Ha raggiunto il Principe, ed evidentemente ha rivelato qualche spiacevole verità riguardo ai Druidi. Così adesso vengo a sapere che i progetti per una cattedrale e un monastero dei Druidi sono stati abbandonati e che Wanbrion, un Suttearca, è sorvegliato a vista.» Esasperato Joe studiò l’imponente Hableyat. «Ebbene, non è quello che volevi? Sicuramente un Druido come consigliere del Principe non sarebbe d’aiuto ai Mang.» Hableyat scosse tristemente la testa. «Amico mio, te la si può dare a bere facilmente come ai miei militanti compatrioti.» «Suppongo di essere ottuso.» Hableyat staccò le mani dai fianchi come per rivelare a Joe ogni cosa solo con un gesto. «È talmente ovvio.» «Spiacente.» «In questo modo i Druidi hanno in mente di assimilare Ballenkarch a loro stessi. I miei avversari su Mangtse, conosciute le loro intenzioni, si precipitano a opporvisi con le unghie e coi denti. Non considerano le implicazioni, le probabili eventualità. No, poiché è un piano dei Druidi deve essere contrastato. E con un programma che secondo la mia opinione metterà Mangtse in grave imbarazzo.» «Capisco a cosa alludi,» disse Joe, «ma non come funziona.» Hableyat lo considerò con espressione divertita. «Mio caro amico, la venerazione umana non è affatto infinita. Direi che i Laici di Kyril profondono il massimo sul loro Albero. Così, quale sarebbe la reazione alla notizia dell’esistenza di un altro Albero divino?» Joe sogghignò. «Dividerebbero in due la loro venerazione verso il primo albero.» «Naturalmente sono incapace di valutare la diminuzione, ma in ogni caso sarà considerevole. Dubbi ed eresie prenderanno piede, e i Druidi si accorgeranno che i Laici non sono più ciechi e fiduciosi e innocenti. Essi si identificano con l’Albero. Appartiene a loro, è unico nel suo genere, solitario nell’universo. «Poi, improvvisamente, su Ballenkarch esiste un altro Albero, piantato dai Druidi, e girano voci secondo le quali la sua presenza è motivata politicamente.» Sollevò espressivamente le sopracciglia. «Ma i Druidi, controllando Ballenkarch e queste nuove industrie possono sempre finire vittoriosi.» Hableyat scosse la testa. «Amico mio, Mangtse è potenzialmente il mondo più debole dei tre. Questo è il punto cruciale di tutta la faccenda. Kyril ha la manodopera, Ballenkarch ha la ricchezza minerale e agricola, una popolazione aggressiva, una tradizione guerresca. In qualunque associazione tra mondi Ballenkarch alla fine sarà il coniuge cannibale che divora la sua sposa. «Pensa ai Druidi, gli epicurei, i padroni sofisticati di cinque bilioni di schiavi. Immaginateli che tentano di dominare Ballenkarch. È ridicolo. Nel giro di cinquant’anni i Ballenkart caccerebbero a frustate i Tearchi dai cancelli di Divinai, e brucerebbero l’Albero nel rogo della vittoria. «Considera l’alternativa: Ballenkarch legato a Mangtse. Un periodo di tribolazioni, profitti per nessuno. E allora i Druidi non avranno scelta, dovranno piegare la schiena e lavorare. Senza le industrie di Ballenkarch dovranno per forza introdurre su Kyril nuovi sistemi, fabbriche, industrie, istruzione. Alla vecchia maniera. «I Druidi potrebbero perdere le redini del potere, o forse no, ma Kyril rimarrebbe un gruppo industriale integrato, e costituirebbe il mercato naturale per i prodotti di Mangtse. Perciò capisci, eliminati entrambi i mercati di Kyril e Ballenkarch, la nostra economia Mang scemerebbe, soffrirebbe. Saremmo costretti a riconquistare i nostri mercati con un’azione militare, e potremmo perdere.» «Capisco tutto ciò,» disse Joe lentamente, «ma non conduce da nessuna parte. Esattamente tu cosa vuoi?» «Ballenkarch è autosufficiente. In questo momento né Mangtse né Kyril possono esistere da soli. Formiamo una coppia naturale. Ma come vedi i Druidi non sono soddisfatti dell’affluenza di ricchezza. Ne esigono dell’altra, e credono di ottenerla controllando le industrie di Ballenkarch. «Io voglio evitare questo, e voglio anche evitare un accordo tra Mangtse e Ballenkarch, che sarebbe prima facie contro natura. Io desidero vedere un nuovo regime su Kyril, un governo impegnato a migliorare il potere di produzione e di acquisto dei Laici, un governo impegnato nell’alleanza naturale con Mangtse.» «Peccato che i tre mondi non possano costituire un consiglio comune.» Hableyat sospirò. «L’idea, per quanto felice, è violentemente contrastata da tre realtà. Prima, la politica attuale dei Druidi; seconda, l’ascendente della fazione Rossa su Mangtse; e terza, le ambizioni del Principe di Ballenkarch. Se tutte e tre queste realtà cambiassero, una tale unione potrebbe consumarsi. Io per esempio l’approverei, perché no?» Parve meditare fra sé, e dietro la blanda maschera gialla Joe scorse il volto di un uomo molto stanco. «Cosa sarà di te adesso?» Hableyat strinse mestamente le labbra. «Se la mia autorità è realmente stata soppiantata ci si aspetterà che io mi uccida. Non essere sorpreso, è un costume Mang, un modo per sottolineare la disapprovazione. Temo di non avere ancora molto da stare al mondo.» «Perché non ritorni su Mangtse e ripari il tuo steccato politico?» Hableyat scosse la testa. «Non è nel nostro costume. Puoi anche sorridere, ma dimentichi che le società esistono per un accordo generale riguardante certi simboli, necessità alle quali bisogna obbedire.» «Ecco che arriva l’aeromobile,» disse Joe. «Se fossi in te, invece di commettere suicidio, cercherei di inventare un piano per portare il Principe dalla tua parte. Sembra che sia lui la chiave. Lo corteggiano entrambi, Druidi e Mang.» Hableyat scosse di nuovo la testa. «Non il Principe. È un uomo bizzarro, un misto tra un bandito, un giullare e un visionario. Sembra che consideri il nuovo Ballenkarch come un gioco interessante, un’allegra ricreazione.» L’aeromobile atterrò, un mezzo di trasporto panciuto e bisognoso di una riverniciata. Due uomini grandi e grossi in brache rosse lunghe fino al ginocchio, ampie giubbe azzurre e berretti neri, scesero baldanzosamente dall’aeromobile, con l’espressione placidamente arrogante dell’élite militare. «Il Principe manda i suoi saluti,» disse il primo all’ufficiale Beland. «Ha sentito che tra i passeggeri ci sono degli agenti stranieri, perciò tutti coloro che sbarcano verranno condotti subito al suo cospetto.» Non ci furono ulteriori discorsi. Sull’aeromobile salirono in gruppo Elfane e Hableyat, i due Druidi con il loro altare portatile, i Mang scoccando gialle occhiate fulminanti a Hableyat, e Joe, tutti diretti su Ballenkarch. I Cil e la vecchia vestita di nero avrebbero continuato il loro viaggio fino a Castlegran, Cil o Beland, e nessuno venne scaricato dalla stiva. Joe attraversò la fusoliera e si lasciò cadere accanto a Elfane, che si girò e gli mostrò un volto che sembrava privato di tutta la sua giovinezza. «Che cosa vuoi da me?» «Niente. Sei arrabbiata con me?» «Sei una spia Mang.» Joe rise, a disagio. «Oh… perché sono in confidenza con Hableyat?» «Cosa ti ha mandato a dirmi adesso?» La domanda prese Joe alla sprovvista, e lo mise di fronte a tutta una serie di speculazioni. Era possibile che Hableyat lo stesse usando per trasmettere ai Druidi attraverso Elfane le idee che gli interessavano? Disse: «Non so se volesse che tu lo venissi a sapere: Ma mi ha spiegato perché vi ha aiutato a portare qui il vostro Albero, e mi sembra convincente.» «In primo luogo,» disse Elfane caustica, «non abbiamo più l’Albero. Ci è stato rubato a Giunzione.» I suoi occhi si ingrandirono, e lo guardò con subitaneo sospetto. «Anche questo è stato opera tua? È mai possibile che…» Joe sospirò. «Sei determinata a pensare il peggio di me. Benissimo. Se tu non fossi così dannatamente bella e seducente penserei due volte peggio di te. Ma stai pensando di irrompere dal Principe con quei due Druidi dalla faccia color latte, e credi di potertelo avvolgere attorno al dito mignolo. Forse puoi farlo. So benissimo che non ti fermeresti davanti a nulla. E adesso mi toglierò dal petto il peso di quello che mi ha detto Hableyat, e di quest’informazione puoi farci ciò che ti pare.» La fissò con sguardo penetrante, sfidandola a parlare, ma Elfane gettò indietro la testa e fissò gli occhi fuori dal finestrino. «Crede che se riuscirai in questa missione, allora tu e i tuoi Druidi finirete per fare la parte del secondo violino a questi rozzi Ballenkart. Se non riuscirai, ebbene, i Mang probabilmente prevederanno qualcosa di spiacevole per te personalmente, ma i Druidi — secondo Kableyat — alla fine ne usciranno in vantaggio.» «Vattene,» disse Elfane con voce strozzata. «Non fai che spaventarmi. Vattene.» «Elfane, dimentica tutta questa storia di Druidi, Mang e Albero della Vita, e io ti riporterò sulla Terra. Sempre che riesca a lasciare vivo questo pianeta.» Elfane gli mostrò le spalle. L’aeromobile ronzò, vibrò, si alzò in aria. Il paesaggio si distese sotto di loro: montagne massicce spruzzate e screziate di neve e ghiaccio, praterie lussureggianti con l’erba lucente di un verde prismatico, vivido e sgargiante. Attraversarono la catena montuosa. L’aeromobile sobbalzò e avanzò a scossoni nell’aria ineguale, poi scese obliqua verso un mare interno. Un insediamento, chiaramente nuovo, agli albori della sua esistenza, era cresciuto sulla sponda di quel mare. Tre importanti bacini, e una dozzina di grossi edifici rettangolari con le pareti di vetro e il tetto di luccicante metallo, formavano il cuore della città. Un miglio oltre la città un promontorio boscoso dominava il mare, e all’ombra di quel promontorio atterrò l’aeromobile. La porta si aprì. Uno dei Ballenkart fece un cenno brusco. «Da questa parte.» Joe seguì Elfane a terra e vide davanti a sé un edificio lungo e basso con la facciata di vetro che dava sul panorama del mare e della pianura. Il soldato Ballenkart fece un altro gesto perentorio. «Alla Residenza,» disse seccamente. Risentito Joe si diresse all’edificio, pensando che quei soldati erano ben miseri emissari di disponibilità. Camminando gli si tesero i nervi. L’atmosfera non era certo di benvenuto, e notò che la tensione stringeva tutti in una morsa. Elfane si muoveva come se avesse le gambe rigide. La guancia di Erru Kametin splendeva color giallo vivo lungo la mascella. In fondo al gruppo Joe notò Hableyat che parlava con urgenza ai due missionari Druidi. Sembravano riluttanti. Hableyat alzò la voce. Joe lo udì dire: «Qual è la differenza? In questo modo avete almeno una possibilità, che vi fidiate oppure no delle mie motivazioni.» I Druidi finalmente sembrarono acconsentire. Hableyat marciò vivacemente in testa al gruppo e disse a voce alta: «Basta! Questa impudenza non deve continuare!» I due Ballenkart si girarono di scatto, sorpresi. Con espressione dura, Hableyat disse: «Andate a chiamare il vostro padrone. Non sopporteremo oltre questo trattamento indegno.» I Ballenkart sbatterono le palpebre, leggermente mortificati nel vedere messa in dubbio la loro autorità. Erru Kametin, con sguardo di fuoco, disse: «Cosa stai dicendo, Hableyat? Stai cercando di comprometterci agli occhi del Principe?» «Deve imparare che noi Mang teniamo in gran conto la nostra dignità. Non ci muoveremo da qui finché non verrà a salutarci come si conviene a un ospite cortese.» Erra Kametin rise sprezzante. «Resta qui, allora.» Si avvolse nel mantello scarlatto, si girò, e proseguì verso la Residenza. I Ballenkart si consultarono, e uno accompagnò i Mang. L’altro sorvegliò Hableyat con occhi truculenti. «Aspetta che il Principe venga a saperlo!» Il resto del gruppo aveva girato un angolo. Hableyat tirò fuori con disinvoltura la mano da sotto il mantello, e scaricò un tubo addosso alla guardia. Gli occhi della guardia divennero colore del latte, e l’uomo crollò a terra. «È soltanto stordito,» disse Hableyat a Joe, che si era voltato per protestare. E ai Druidi: «Svelti.» Tenendo sollevate le vesti corsero a un vicino mucchietto di terra soffice. Uno scavò un buco con un bastone, l’altro aprì l’altare, e ne trasse teneramente la miniatura dell’Albero. Un piccolo vaso circondava le sue radici. Joe sentì Elfane boccheggiare. «Voi due…» «Silenzio,» scattò Hableyat. «Occupati dei tuoi interessi, se sei saggia. Questi sono Arcitearchi, entrambi.» «Manaolo… un inganno!» Le radici scesero nel buco. La terra venne pressata attorno alla pianticella. I Druidi chiusero l’altare, si spolverarono le mani, e ritornarono a essere monaci dalla faccia inespressiva. E il Figlio dell’Albero era ritto nel suolo di Ballenkarch, immerso nella calda luce gialla. Se non lo si guardava con particolare attenzione, sembrava solo un altro arbusto. «E adesso,» disse Hableyat placidamente, «possiamo proseguire per la Residenza.» Elfane fulminò con lo sguardo Hableyat e i Druidi, con occhi brucianti di rabbia e di umiliazione. «E per tutto questo tempo avete riso di me!» «No, no, Sacerdotessa,» disse Hableyat. «Mantieni la calma, te ne imploro. Avrai bisogno di tutto il tuo ingegno quando affronterai il Principe. Credimi, la tua parte è stata molto utile.» Elfane si volse alla cieca, come per correre via verso il mare, ma Joe la trattenne. Per un attimo Elfane lo fissò negli occhi, con i muscoli come filo spinato. Poi si rilassò, come svuotata di ogni vigore. «Va bene, ci andrò.» Continuarono, e incontrarono a metà strada una squadra di sei soldati evidentemente mandati a fare loro da scorta. Nessuno badò al corpo privo di sensi della guardia. Al portale vennero sottoposti a una perquisizione, rapida ma così dettagliata e completa da suscitare adirate proteste dai Druidi e uno strillo oltraggiato da Elfane. L’arsenale così scoperto era sorprendente: piccole armi coniche su entrambi i Druidi, il tubo stordente di Hableyat e uno stiletto a serramanico, la pistola di Joe, un piccolo tubo lurido che Elfane portava infilato nella manica. Il soldato indietreggiò, fece un gesto. «Siete autorizzati a entrare nella Residenza. Badate di osservare le comuni forme di rispetto.» Attraversando un’anticamera dipinta di animali grotteschi e semidemoniaci, entrarono in un grande salone. Le travi del soffitto erano tronchi enormi, sbozzati a mano e intagliati con decorazioni convenzionali, le pareti erano rivestite di canne intrecciate. Su ogni lato file di piante verdi e rosse correvano lungo la parete, e il pavimento era coperto da un soffice tappeto di fibra tessuto e tinto in uno strabiliante disegno scarlatto, nero e verde. Sul lato opposto all’entrata c’era un palco, fiancheggiato da due massicce balaustre di legno rosso ruggine, e un seggio enorme a foggia di trono dello stesso legno rossiccio. Il trono era vuoto. Venti o trenta uomini erano sparsi per il salone, uomini grandi e grossi, abbronzati dal sole, qualcuno con un paio di baffi ispidi; si muovevano con imbarazzo, a disagio, come se non fossero usi ad avere un tetto sopra la testa. Tutti indossavano brache rosse lunghe fino al ginocchio. Alcuni portavano bluse di vari colori, mentre altri erano a petto nudo, con mantelli di pelliccia nera gettati dietro le spalle. Tutti avevano delle pesanti sciabole alla cintura, e tutti fissavano i nuovi arrivati senza benevolenza. Joe guardò da una faccia all’altra. Harry Creath non sarebbe stato lontano da Vail-Alan, il centro dell’attività. Ma non era in quella sala. Accanto al palco, in gruppo, c’erano i Mang delle Correnti Rosse. Erra Kametin parlò alla donna in un aspro falsetto. I due procuratori ascoltavano in silenzio, girati a metà da un’altra parte. Un cerimoniere con una lunga chiarina di ottone entrò nella stanza e suonò una vivace fanfara. Joe sorrise debolmente. Come una commedia musicale: guerrieri in uniformi sgargianti, ostentazione, pompa, formalità… Di nuovo la fanfara, squillante, eccitante. «Il Principe di Vail-Alan! Sovrano per prelazione su tutta la superficie di Ballenkarch!» Un uomo biondo, esile vicino ai Ballenkart, salì con passo svelto sul palco, e si sedette sul trono. Aveva una faccia tonda e ossuta con rughe spiritose attorno alla bocca, mani nervose e incapaci di stare ferme, un’aria di allegra intelligenza, di impazienza irrequieta. Dalla folla salì un rauco «Aaaaah» di venerazione. Joe annuì lentamente senza sorpresa. Chi altri? Harry Creath mosse a scatti gli occhi per la stanza. Si posarono su Joe, lo oltrepassarono, tornarono indietro. Per un minuto lo fissarono esterrefatti. «Joe Smith! In nome del cielo, cosa stai facendo quaggiù?» Quello era il momento per il quale aveva percorso mille anni luce. E adesso la mente di Joe si rifiutava di funzionare correttamente. Balbettò le parole che aveva ripassato per due anni, in mezzo a tribolazioni, pericoli, fastidi, le parole che esprimevano l’ossessione di due anni: «Sono venuto a prenderti.» Le aveva dette, era vendicato. La testardaggine che era quasi autosuggestione era stata placata. Ma le parole erano state pronunciate, e la faccia mobile di Harry esprimeva stupore. «Quaggiù? Tutta questa strada… per prendere me?» «Esatto.» «Prendermi per fare cosa?» Harry si appoggiò allo schienale e la larga bocca si aprì in un ghigno. «Ebbene… hai lasciato una questione in sospeso sulla Terra.» «Nessuna che io sappia. Dovresti farmi un breve riassunto per rinfrescarmi la memoria.» Si rivolse a una guardia alta con una faccia che sembrava di sasso. «Hai fatto perquisire queste persone per vedere se avevano armi?» «Sì, Principe.» Harry ritornò a Joe con una smorfia di scuse giocose. «C’è troppa gente interessata a me. Non posso ignorare i rischi ovvi. Allora, stavi dicendo che vuoi che ritorni sulla Terra. Perché?» Perché? Joe pose la domanda a se stesso. Perché? Perché Margaret credeva di essere innamorata di Harry, e Joe credeva che fosse innamorata di un sogno. Perché Joe pensava che se Margaret avesse potuto frequentare Harry per un mese, invece che per due giorni, se avesse potuto vederlo nella vita di tutti i giorni, se avesse potuto riconoscere che l’amore non era una serie di salti e brividi come una corsa sulle montagne russe, che il matrimonio non era un ciclo mozzafiato di scappatelle… In breve, se la testolina graziosa e frivola di Margaret avesse potuto essere scossa e liberata da tutte quelle scempiaggini, allora in quella testolina ci sarebbe stato posto per Joe. Era così? Era sembrato facile, precipitarsi su Marte in cerca di Harry, solo per scoprire che Harry era partito per Io. E da Io a Pluto, il trampolino del viaggio. E poi la volontà, la testardaggine, avevano iniziato a impadronirsi di lui. Via da Pluto, avanti, sempre più lontano. Poi Kyril, Giunzione, e adesso Ballenkarch. Joe arrossì, intensamente consapevole della presenza di Elfane alle sue spalle, che lo osservava con occhi intelligenti e riflessivi. Aprì la bocca per parlare, la richiuse. Perché? Gli occhi erano fissi su di lui, gli occhi di tutti quelli riuniti nel salone. Occhi curiosi, disinteressati, ostili, indagatori, gli occhi placidi di Hableyat, gli occhi penetranti di Elfane, gli occhi beffardi di Harry. E nella mente confusa di Joe si fece strada un fatto inconfutabile: che avrebbe fatto la figura dell’asino più totale nella storia dell’universo se avesse detto la verità. «Qualcosa a che fare con Margaret?» chiese Harry senza misericordia. «Ti ha mandato lei?» Joe vide Margaret come in una visione, che li fissava entrambi ironicamente. Girò gli occhi su Elfane. Era un mascalzone, ostinato, intollerante, troppo veemente e appassionato nel volere il suo bene. Ma era sincero e onesto. «Margaret?» Joe rise. «No. Niente a che fare con Margaret. Per la verità ho cambiato idea. Stattene pure lontano dalla Terra.» Harry si rilassò leggermente. «Se aveva a che fare con Margaret… ebbene, sei arrivato un po’ in ritardo.» Allungò il collo. «Dove diavolo è? Margaret!» «Margaret?» mormorò Joe. Margaret uscì sul palco accanto a Harry. «Ciao, Joe,» come se si fossero salutati il pomeriggio precedente, «Che bella sorpresa.» Stava ridendo dentro di sé, sommessamente. Anche Joe sorrise, sardonico. Benissimo, avrebbe mandato giù la sua medicina. Sostenne il loro sguardo, e disse: «Congratulazioni.» Si rese conto che Margaret stava vivendo nella pura realtà la vita che sosteneva di voler vivere: eccitazione, intrigo, avventura. E sembrava che le stesse a pennello. Harry gli stava parlando. Joe d’un tratto divenne consapevole della sua voce. «Capisci, Joe, è una cosa meravigliosa quella che stiamo facendo quaggiù, un mondo meraviglioso. È ricco di metalli preziosi di prima qualità, legna, prodotti organici, forza lavoro. Ho un quadro in mente, Joe: Utopia. «Ho alle spalle un bel gruppo di ragazzi, e stiamo lavorando insieme. Sono ancora un po’ rustici ma vedono questo mondo come lo vedo io, e sono disposti a correre il rischio con me. Per cominciare, naturalmente, ho dovuto sbattere un po’ di teste una contro l’altra, ma adesso sanno chi è il capo e andiamo d’accordo.» Harry girò amorevolmente lo sguardo sulla folla di Ballenkart, ognuno dei quali avrebbe potuto strangolarlo con una mano. «Ancora vent’anni,» disse Harry, «e non crederai ai tuoi occhi. Cosa non faremo a questo pianeta! È meraviglioso, Joe, te lo dico io. Adesso scusami, per pochi minuti. Ci sono degli affari di stato.» Si sistemò sul suo seggio, e passò lo sguardo dai Mang ai Druidi. «Potremmo anche discuterne adesso. Vedo che è tutto fresco e maturo nelle vostre menti. Ecco il mio vecchio amico Hableyat.» Strizzò l’occhio a Joe. «Vecchia volpe. A cosa devo la visita, Hableyat?» Hableyat avanzò impettito. «Tua Eccellenza, mi trovo in una posizione peculiare. Non ho avuto modo di comunicare con il mio governo, e non conosco con certezza l’estensione della mia autorità.» Harry disse a una guardia: «Trova il Magnerru.» E a Hableyat: «Il Magnerru Ippolito è arrivato fresco da Mangtse, e sostiene di parlare con la voce del vostro Ampianu Generale.» Da un’arcata laterale si avvicinò un Mang, robusto e con la faccia quadrata, luminosissimi occhi neri, pelle giallo limone, labbra arancione vi vo. Indossava una veste scarlatta ricamata con un orlo purpureo a scacchi verdi, e un cappello cubico nero. Erru Kametin e gli altri Mang del suo gruppo si inchinarono profondamente, rendendo omaggio con le braccia spalancate. Hableyat fece un cenno rispettoso col capo, un sorriso stereotipato sulle labbra grassocce. «Magnerru,» disse il Principe Harry. «Hableyat vuole sapere fin dove arriva la sua libertà nel prendere decisioni politiche.» «Nessuna,» disse il Magnerru con voce stridula. «Assolutamente nessuna. Hableyat e le Acque Azzurre sono state screditate nell’Ampianu, e il Lathbon è dalla parte delle Correnti Rosse. Hableyat non ha altra voce che la sua, e anch’essa verrà presto messa a tacere.» Harry annuì. «Allora sarebbe saggio, prima del suo decesso, udire quali sono le sue opinioni.» «Mio Sire,» disse Hableyat, la faccia ancora immobile nella sua maschera gioviale, «le mie parole sono triviali. Preferisco udire le dichiarazioni del Magnerru e dei due Arcitearchi che sono con noi. Mio Sire, posso affermare che i maggiori di Kyril sono al tuo cospetto: gli Arcitearchi Oporeto Implan e Gameanza. Essi sapranno presentare destramente il loro pensiero.» «La mia modesta residenza è piena di celebrità,» disse Harry. Gameanza si fece avanti guardando il Magnerru con occhi che brillavano. «Principe Harry, ritengo la presente atmosfera inadatta a discutere di politica. In qualunque momento tu lo desideri — quanto prima, tanto meglio — ti comunicherò la tendenza della politica dei Druidi assieme alle mie opinioni riguardanti la situazione politica ed etica.» Il Magnerru disse: «Parla pure con quel lumacone senza guscio e con la bocca secca. Ascolta i suoi sforzi per introdurre lo schiavismo su Ballenkarch. Poi rimandalo nel suo fetido mondo grigio nella stiva di una nave bestiame.» Gameanza si irrigidì. La sua pelle sembrò diventare irsuta. Con voce acuta e tagliente disse a Harry: «Sono a tua disposizione.» Harry si alzò in piedi. «Bene, ci ritiriamo mezz’ora per discutere le vostre proposte.» Levò una mano all’indirizzo del Magnerru. «Tu avrai lo stesso privilegio, quindi sii paziente. Parla dei vecchi tempi con Hableyat. Mi pare di capire che prima occupava il tuo posto.» Quando Harry saltò giù dal palco e lasciò il salone l’Arcitearca Gameanza lo seguì, e così fece l’Arcitearca Oporeto Implan. Margaret agitò disinvolta una mano verso Joe. «Ci vediamo.» E scivolò via attraverso un’altra porta. Joe trovò una panca su un lato della stanza, e vi si sedette stancamente. Davanti a lui, come un quadro vivente, c’erano i rigidi Mang, lo squisito cosino di carne e ossa che era Elfane, Hableyat — all’improvviso distratto e impotente — e i Ballenkart nei loro sontuosi costumi, turbati, confusi, non abituati agli alterchi a base di mordaci battute, che si guardavano l’un l’altro a disagio da sopra le spalle robuste, borbottando. Elfane voltò la testa, girò lo sguardo per la stanza. Vide Joe, esitò, poi attraversò la stanza e andò a sederglisi accanto. Dopo un po’ disse altezzosamente: «Stai ridendo di me, ti stai beffando di me.» «Non me ne sono accorto.» «Hai trovato l’uomo che stavi cercando,» disse con le sopracciglia inarcate. «Perché non fai qualcosa?» Joe alzò le spalle. «Ho cambiato idea.» «Perché quella donna coi capelli gialli — Margaret — è qui?» «In parte.» «Non me ne hai mai parlato.» «Non credevo che ti interessasse.» Elfane fissò impassibile un punto dall’altra parte della stanza. Joe disse: «Sai perché ho cambiato idea?» Elfane fece segno di no con la testa. «No. Non lo so.» «Per causa tua.» Elfane si girò con occhi di fuoco. «E così è stata la donna bionda a farti venire quaggiù.» Joe sospirò. «Ogni uomo può essere un dannato stupido una volta nella vita. Almeno una volta…» Elfane non era soddisfatta. «Suppongo che adesso, se io ti mandassi a cercare qualcuno non ci andresti. Suppongo che lei contasse per te più di me adesso.» Joe emise un gemito. «Oh, Signore! Innanzitutto tu non mi hai mai dato motivo di pensare che tu… oh, all’inferno!» «Ti ho proposto di essere il mio amante.» Joe la fissò esasperato. «Mi piacerebbe…» Si ricordò che Kyril non era la Terra, che Elfane era una Sacerdotessa, e non una ragazza del college. Elfane rise. «Ti capisco benissimo, Joe. Sulla Terra gli uomini sono abituati a fare le cose a modo loro, e le donne sono abitanti ausiliari, E non dimenticare, Joe, che non mi hai mai detto una cosa… che mi ami.» Joe ringhiò: «Avevo paura.» «Prova.» Joe provò, e con immensa felicità apprese che, nonostante mille anni luce di distanza, e due culture alle estremità opposte, le ragazze erano ragazze. Sacerdotesse o studentesse. Harry e l’Arcidruido Gameanza ritornarono nella stanza, e sulla faccia del Druido era stampata un’espressione risoluta. Harry disse al Magnerru: «Forse vuoi essere tanto buono da scambiare qualche parola con me?» Il Magnerru batté le mani con ira repressa contro la veste, e seguì Harry nelle camere interne. Evidentemente l’approccio informale non trovava risposta in lui. Hableyat si sedette accanto a Joe. Elfane guardò impassibile da una parte. Hableyat aveva un’espressione preoccupata. Le guance gialle pendevano flaccide, le palpebre gli scendevano stanche sugli occhi. Joe disse: «Su con la vita, Hableyat, non sei ancora morto.» Hableyat scosse la testa. «Gli schemi di tutta la mia vita stanno cadendo a pezzi.» Joe lo guardò attentamente. Era forse esageratamente tetro, i sospiri erano un po’ troppo dolenti? Diffidente, disse: «Devo ancora conoscere il tuo programma concreto.» Hableyat scrollò le spalle. «Sono un patriota. Desidero vedere il mio pianeta prosperare e crescere in ricchezza. Sono un uomo imbevuto della cultura del mio mondo; non so concepire modo di vivere migliore, e desidero vedere questa cultura espandersi, arricchirsi delle culture di altri mondi, adattando il bene, sconfiggendo il male.» «In altre parole,» disse Joe, «sei un imperialista accanito quanto i tuoi amici militari. Solo che i tuoi metodi sono diversi.» «Temo che tu mi abbia definito correttamente,» sospirò Hableyat. «E per di più temo che in questa era l’imperialismo militare sia quasi impossibile, e che l’imperialismo culturale sia l’unica forma praticabile. Un pianeta non può venire soggiogato e occupato con successo da un altro pianeta. Può essere devastato, raso al suolo, ma la logistica della conquista è praticamente insuperabile. Temo che le avventure proposte dalle Correnti Rosse esauriranno Mangtse, rovineranno Ballenkarch e spianeranno la strada per un imperialismo religioso dei Druidi.» Joe sentì Elfane irrigidirsi. «E perché mai sarebbe peggiore dell’imperialismo culturale dei Mang?» «Mia cara Sacerdotessa,» disse Hableyat, «non potrò mai esporre argomentazioni abbastanza persuasive da convincerti. Dirò solo una cosa: che i Druidi producono molto poco con un’enorme potenzialità; che vivono sulle spalle di una massa sofferente; e che spero che il sistema non venga mai esteso tanto da includere me tra i Laici.» «E nemmeno me,» disse Joe. Elfane scattò in piedi. «Siete delle persone spregevoli!» Joe sorprese se stesso allungando una mano e tirandola a sedere con un tonfo. Elfane lottò per un poco, poi si calmò. «Lezione numero uno di cultura terrestre,» disse Joe allegramente. «È maleducazione discutere di religione.» Un soldato entrò a precipizio nel salone, ansimando, con la faccia contorta per il terrore. «È orribile… fuori, lungo la strada… Dov’è il Principe? Chiamate il Principe… una crescita terribile!» Hableyat balzò in piedi, con un’espressione vigile e acuta. Corse agilmente fuori dalla porta, e dopo un secondo Joe disse: «Vado anch’io.» Elfane, senza una parola, lo seguì. Joe ebbe l’impressione violenta di un’assoluta confusione. Una folla disordinata di uomini si accalcava attorno a un oggetto che non riuscì a identificare, una cosa rannicchiata, verde e marrone, che sembrava dimenarsi e sollevarsi. Hableyat si fece strada in mezzo alla gente in circolo, con Joe al suo fianco e Elfane premuta contro la schiena di lui. Joe guardò meravigliato. Il Figlio dell’Albero? Era cresciuto, diventato più complesso. Non assomigliava più all’Albero di Kyril. Il Figlio si era adattato a un nuovo scopo, la protezione, la crescita e la flessibilità. Joe pensò a un gigantesco dente di leone. Una palla bianca e lanuginosa si manteneva a venti piedi dal suolo su uno stelo sottile e ondeggiante, circondato da un cono rovesciato di fronde piatte e verdi. Alla base di ogni fronda sporgeva un viticcio verde, striato e chiazzato di nero. Stretti nei viticci c’erano i corpi di tre uomini. Hableyat emise un grido spezzato. «Quella cosa è un demonio,» e batté la mano contro la borsa. Ma la sua arma era stata requisita dalle guardie della Residenza. Un capitano Ballenkart, la faccia pallida e contorta, caricò il Figlio agitando la sciabola. La palla lanuginosa ondeggiò un poco verso di lui, i viticci scattarono all’indietro come le zampe di un insetto, poi si mossero tutti assieme, avvolsero strettamente l’uomo, gli segarono la carne. L’uomo urlò, poi tacque, si irrigidì. I viticci si illuminarono di rosso, pulsarono, e il Figlio si alzò ancora. Altri quattro Ballenkart, agendo in cupo accordo, caricarono il Figlio, seguiti da altri sei. I viticci colpirono, scattarono, e dieci corpi giacquero bianchi e rigidi al suolo. Il Figlio si espanse come se ne venisse magnificato. La voce leggera e sicura del Principe Harry disse: «Fatevi da parte… Su, avanti, fatevi indietro.» Harry si fermò a guardare la pianta, venti piedi fino in cima alle fronde, mentre la palla bianca e lanuginosa si elevava altri dieci piedi sopra di esse. Il Figlio si avventò, con un’astuzia simile all’intelligenza. I viticci si spiegarono, intrappolarono una dozzina di uomini ruggenti, li trascinarono vicini a sé. E allora la folla impazzì, ondeggiò avanti e indietro in spasmi alterni di rabbia e paura, infine caricò in una mischia stridente. Le sciabole scintillarono, rotearono, mozzarono. Sopra a tutti la palla bianca e lanuginosa ondeggiava senza fretta. Era ragionevole, sentiva, programmava, con una consapevolezza vegetale, calma, impavida, con un unico proposito. I suoi viticci strisciavano, si torcevano, stringevano, tornavano a defluire. E il figlio dell’Albero cresceva in altezza e in corposità. Gli ansimanti superstiti della folla caddero all’indietro, fissando impotenti il terreno cosparso di cadaveri. Harry fece segno a una delle sue guardie personali. «Portate fuori un cannone termico.» Gli Arcitearchi si fecero avanti, protestando. «No, no, quello è il Sacro Germoglio, il Figlio dell’Albero.» Harry non prestò loro attenzione. Gameanza gli ghermì un braccio con un’insistenza allarmata. «Richiama i tuoi soldati. Nutrilo solo di criminali e di schiavi. In dieci anni sarà gigantesco, un Albero magnifico.» Harry se ne liberò con uno strattone, fece un cenno col capo a un soldato. «Porta via questo maniaco.» Un proiettore su ruote venne fatto rotolare fuori dalla Residenza, e venne fermato a cinquanta piedi dal Figlio. Harry fece segno. Un raggio bianco e denso di energia sputò contro il Figlio. «Aaah!» sospirò la folla, in una gratificazione che rasentava la voluttà. Ma il sospiro esultante tacque di colpo. Il Figlio beveva l’energia come la luce del sole, e cresceva e diventava sempre più lussureggiante. A cento piedi torreggiava la palla bianca e lanuginosa. «Puntatelo contro la cima,» disse Harry ansiosamente. La barra di energia salì lungo l’esile stelo, si concentrò sulla sommità della pianta, che si corruscò, gocciolò, si ritrasse. «Non gli piace!» gridò Harry. «Continuate a inondarlo!» Gli Arcitearchi, trattenuti dietro la folla, ulularono in un’agonia che pareva la loro: «No, no, no!» La palla bianca ritrovò l’equilibrio, e sputò un fiotto di energia. Il proiettore esplose, scagliando teste e braccia e gambe in ogni direzione. D’un tratto ci fu un silenzio di morte. Poi cominciarono i gemiti, che si tramutarono in urla improvvise quando i viticci scattarono in avanti per nutrirsi. Joe tirò indietro Elfane, e un viticcio la mancò per un passo. «Ma io sono una Sacerdotessa Druida,» disse in preda a un ottuso stupore. «L’Albero protegge i Druidi. L’Albero accetta solo i pellegrini Laici.» «Pellegrini!» Joe rammentava i pellegrini di Kyril, stanchi, impolverati, con le piaghe ai piedi, malati, che entravano dal portale all’interno dell’Albero. Rammentava la pausa al portale, l’ultimo sguardo verso la terra grigia, e su verso il fogliame prima di girarsi e di entrare nel tronco. Giovani e vecchi, di tutte le condizioni, migliaia ogni giorno… Ormai Joe doveva piegare il collo all’indietro per vedere la cima del Figlio. Il flessibile stelo centrale si stava irrigidendo, la piccola palla bianca ondeggiava e si torceva e scrutava il suo nuovo dominio. Procedendo a fatica, Harry si avvicinò a Joe. La sua faccia era una maschera bianca. «Joe… questa è la creatura più empia che ho visto su trentadue pianeti.» «Io ne ho vista una più grande, su Kyril. Mangia i cittadini a migliaia.» Harry disse: «Questa gente si fida di me. Credono che io stesso sia una specie di dio, solo perché conosco un po’ di ingegneria terrestre. Devo uccidere quell’abominio.» «Non hai intenzione di metterti con i Druidi, allora?» Harry sogghignò. «Per che razza di gonzo mi hai preso, Joe? Non ho intenzione di mettermi con nessuno di loro. Che venga un accidente a tutti e due i loro governi. Li ho tenuti a bada, li ho illusi per avere il tempo di sistemare le cose. Non sono ancora soddisfatto, ma di certo non mi aspettavo una cosa simile. Chi diavolo ha portato qui quella cosa?» Joe taceva. Elfane disse: «È stata portata da Kyril per ordine dell’Albero.» Harry la fissò esterrefatto. «Mio Dio, quella cosa parla anche?» Elfane disse, vagamente: «Il Collegio dei Tearchi legge la volontà dell’Albero grazie a vari segni.» Joe si grattò il mento. «Bah,» disse Harry. «Una decorazione fantasiosa per una bella piccola tirannia un po’ stretta. Ma non è questo il problema. Quella cosa deve essere uccisa!» E borbottò: «E mi piacerebbe beccare anche la bestia più grande, se avessi fortuna.» Joe sentì e guardò Elfane aspettandosi di vederla infiammarsi di collera. Ma Elfane se ne stava in silenzio, osservando il Figlio. Harry disse: «Sembra che si sviluppi rigogliosamente nutrendosi di energia… Il calore è escluso. Una bomba? Proviamo a farlo saltare in aria. Mando qualcuno giù al magazzino a prendere dell’esplosivo.» Gameanza riuscì a liberarsi, arrivò correndo con la veste grigia che gli sbatteva intorno alle gambe. «Eccellenza, noi protestiamo con veemenza per la vostra aggressione contro quest’Albero!» «Spiacente,» disse Harry sarcastico. «Io lo chiamo bestia assassina.» «La sua presenza simbolizza il legame tra Kyril e Ballenkarch,» giustificò Gameanza. «Simbolizza la mia caviglia. Togliti quella spazzatura metafisica dalla mente, amico. Quella cosa è un uccisore di uomini, e non voglio averlo tra i piedi. Vi compatisco per il mostro gigantesco che avete sul vostro pianetucolo, anche se immagino che non dovrei farlo.» Guardò Gameanza dall’alto in basso. «Avete fatto piuttosto buon uso dell’Albero. È stato il vostro buono pasto per un migliaio di anni. Beh, questo sta per andarsene. Ancora dieci minuti e sarà un acro di schegge.» Gameanza roteò sui tacchi, si allontanò marciando di venti piedi, e lì si fermò a discutere sottovoce con Oporeto Implan. Dieci libbre di esplosivo legate a un detonatore vennero sollevate contro il grosso trinco dell’Albero. Harry sollevò la pistola a radiazioni che avrebbe proiettato frequenze di innesco. Colto da un pensiero improvviso, Joe balzò avanti, gli afferrò il braccio. «Aspetta un minuto. Supponi di farne un acro di schegge… e se ognuna delle schegge si mette a crescere?» Harry mise a terra il proiettore. «Questa è un’idea macabra.» Joe indicò con un gesto la campagna. «Tutte queste fattorie, sembrano ben curate, moderne.» «Seguono le più recenti tecniche terrestri. E allora?» «Non lascerai che i tuoi gorilla strappino le erbacce a mano?» «Certo che no. Abbiamo una dozzina di diserbanti differenti… ormoni…» Si interruppe all’improvviso, batté una mano sulla spalla di Joe. «Diserbanti! Ormoni della crescita! Joe, ti farò Segretario dell’Agricoltura!» «Prima,» disse Joe, «vediamo se quella roba ha effetto sull’Albero. Se è un vegetale impazzirà.» Il Figlio dell’Albero impazzì. I viticci si attorcigliarono, si contorsero, schioccarono. Il capo bianco e lanuginoso sputò a casaccio archi crepitanti di energia in ogni direzione. Le fronde si sollevarono grottescamente fino a duecento piedi in pochi secondi, poi si afflosciarono al suolo. Venne portato un altro proiettore termico. Adesso il Figlio resisteva solo debolmente. Il tronco si carbonizzò; le fronde si disseccarono e annerirono. Dopo alcuni minuti il Figlio dell’Albero era un moncone maleodorante. Il Principe Harry si sedette sul trono. Le facce pallide degli Arcitearchi Gameanza e Oporeto Implan erano avvolte nei cappucci. I Mang della fazione Rossa aspettavano in gruppo su un lato del salone, in un rigido ordine di precedenza, prima il Magnerru in corazza cesellata e veste scarlatta, poi Erru Kametin, e dietro di lui i due procuratori. Harry, con la sua voce chiara e leggera, disse: «Non ho molto da annunciare, se non che da diversi mesi a oggi c’è stata una diffusa incertezza sulla direzione nella quale salterà Ballenkarch, verso Mangtse oppure verso Kyril. «Ebbene,» si mosse sul trono e posò le mani sui braccioli, «tali speculazioni sono state interamente nella mente dei Druidi e dei Mang, perché qui su Ballenkarch non c’è mai stata indecisione alcuna. Una volta per tutte non ci assoceremo a nessuno dei due pianeti. «Noi ci svilupperemo in una direzione diversa, e credo che finiremo con l’avere il mondo più bello da questa parte della Terra. Per quanto riguarda il Figlio dell’Albero non ritengo nessuno personalmente responsabile. Voi Druidi avete agito, io credo, secondo i vostri migliori lumi. Siete vittime delle vostre credenze, quasi quanto i vostri Laici. «Un’altra cosa: seppure non scenderemo a compromessi politici, siamo in affari. Commerceremo. Costruiremo utensili, martelli, seghe, chiavi, saldatori. Tra un anno cominceremo a costruire apparecchiature elettriche. Tra cinque anni avremo uno spazioporto sulle sponde del Lago Alan. «Tra dieci anni trasporteremo le nostre merci su ogni stella che vedete nella notte, e forse qualcun’altra. Perciò, Magnerru, tu puoi ritornare e riferire il mio messaggio al vostro Ampianu Generale e al Lathbon. In quanto a voi Druidi dubito che desideriate fare ritorno. Potrebbero esserci dei bei tumulti su Kyril per quando arriverete.» «Cosa significa?» chiese Gameanza bruscamente. Harry torse la bocca. «Consideratela un’intuizione.» Dal solarium privato di Harry, l’acqua del Lago Alan risplendeva delle mille sfumature del tramonto. Joe era seduto su una poltroncina. Accanto a lui c’era Elfane, in un semplice abito bianco. Harry passeggiava nervosamente avanti e indietro, parlando, gesticolando, millantando. Nuove fornaci di riduzione a Palinth, cento scuole nuove, centrali elettriche per la nuova classe agricola, armi per l’esercito. «Hanno ancora quel tocco barbarico,» disse Harry. «Amano combattere, amano la sfrenatezza, le loro feste di primavera, le loro notti passate a ballare intorno al fuoco. È nato e cresciuto dentro di loro e non potrei toglierlo nemmeno se provassi.» Ammiccò a Joe. «I lanciafiamme li mando contro i clan di Vail Macrombie, che è l’altro continente. Prendo due piccioni con una fava. Sfogano la loro belligeranza contro i cannibali Macrombie e gradatamente conquistano il continente. È sanguinoso, certo, ma soddisfa un bisogno che hanno nell’anima. «I giovani li educheremo in modo diverso. I loro eroi saranno gli ingegneri invece dei soldati, e ogni cosa dovrebbe risolversi all’incirca nello stesso periodo. La nuova generazione crescerà mentre i loro padri staranno rastrellando Matenda Cape.» «Molto ingegnoso,» disse Joe. «E a proposito di ingegnosità, dov’è Hableyat? Non lo vedo da qualche giorno.» Harry si lasciò cadere in poltrona. «Hableyat se n’è andato.» «Andato? Dove?» «Ufficialmente, non lo so, specialmente quando ci sono dei Druidi in mezzo a noi.» Elfane si agitò. «Io non… non sono più una Druida. È una cosa che ho strappato da dentro di me. Adesso sono una…» sollevò gli occhi su Joe, «una cosa?» «Una profuga,» disse Joe. «Una trovatella dello spazio. Una donna senza terra.» Si rivolse di nuovo a Harry. «Meno misteri. Non può essere così importante.» «Ma lo è! Forse.» Joe scrollò le spalle. «Fai come vuoi.» «No,» disse Harry. «Te lo dirò. Hableyat, come sai, è in disgrazia. È out, e il Magnerru Ippolito è in. La politica dei Mang è complessa e criptica, ma sembra che dipenda parecchio dal prestigio, dalla dignità. Il Magnerru ha perduto la faccia qui su Ballenkarch. Se Hableyat riesce a compiere una qualche impresa notevole, tornerà in campo. Ed è a nostro vantaggio che il potere su Mangtse sia in mano alle Acque Azzurre.» «Ebbene?» «Ho dato a Hableyat tutti gli ormoni diserbanti che avevamo, circa cinque tonnellate. Li ha fatti caricare su una nave che ho messo a sua disposizione ed è partito.» Harry fece un gesto stravagante. «Dove stia andando… non lo so.» Elfane sospirò piano e a lungo sottovoce, rabbrividì, girò lo sguardo sul Lago Alan al tramonto, rosa, oro, lavanda, turchese. «L’Albero…» Harry si alzò in piedi. «Ora di cena. Se il suo piano è questo — spruzzare l’Albero con gli ormoni — dovrebbe essere un bello spettacolo.» I SIGNORI DI MAXUS La stazione fortificata di entrata era sospesa a dieci miglia sopra Maxus, un anello bianco e pesante di un miglio di diametro, trapunto di finestre panoramiche. Attraverso l’aria rarefatta ogni dettaglio era nitido, chiaro, distinto. La navicella di Gardius non ricevette alcuna immediata intimazione. Attese, quasi rannicchiato sui comandi, guardando la stazione fortificata, poi l’altoparlante, ancora la stazione. Un minuto… due minuti… Gardius imprecò, premette l’interruttore sul comunicatore, parlò per la seconda volta nella griglia. «Permesso visitatore undici A cinque cento e sei… Voglio atterrare… Datemi istruzioni… un segnale, un riconoscimento.» Una voce crepitò. «Il permesso è in fase di controllo. Prego attendere nostri ordini.» Gardius si abbandonò sul sedile, poi si alzò e guardò giù verso la città di Alambar. Si stendeva fino all’orizzonte e oltre, un tappeto disegnato a colori cupi, verdi e neri ossidati, ruggini e ocre scure, grigi di fumo e cemento e mattoni. Direttamente sotto di lui tre fiumi plumbei si univano sfociando in un lago di mercurio, circondato e adombrato dai grandi edifici amministrativi, dai palazzi e dalle case di città dei Sommi. Strade elevate andavano e venivano per la città come vene esposte; lì, altrove, ovunque c’era un incessante ammiccare di movimento, una miriade di tremolii. Gardius alzò lo sguardo, fissò la stazione fortificata oltre lo spazio vuoto. Risalire con la navicella, speronare la stazione, sbriciolare la città come pane raffermo. Mettere in fila i Signori di Maxus, lacerare le facce, squarciare i ventri… «Undici A cinquecento e sei,» disse l’altoparlante, «avvicinarsi alla Piattaforma Sei, prepararsi a ricevere una squadra di ispezione.» Gardius balzò a sedere, fece avanzare la navicella. Una serie di campate piatte bordava il perimetro interno della stazione. Gardius scese sul cemento macchiato della campata col numero sei. Tre uomini in tenuta da altitudine apparvero e batterono al portello esterno. Gardius li fece entrare; erano uomini dalla faccia dura e i capelli neri, smunti, pallidi, con uniformi nere e berretti di cuoio a punta. Il caporale, un uomo con una faccia lunga e stretta, le guance incavate, il naso a uncino, salì sul ponte di controllo. «Vediamo il tuo permesso.» Gardius gli diede il documento. Il caporale arricciò le labbra mentre leggeva: «Pianeta di origine… Exar. Titoli segnalati… diecimila milreis. Durata prevista della visita… una settimana. Motivo della visita…» Sollevò le sopracciglia. «Oh, va bene,» disse con indulgenza, «buona fortuna, buona fortuna.» Gardius non disse nulla. «Darai la caccia all’ultimo carico di Arman.» «Corretto.» «Saresti dovuto arrivare prima,» disse il caporale. Gettò il permesso sul tavolo dei comandi. «È tutto in ordine.» Guardò i suoi due uomini, che stavano ritornando dalla sezione posteriore. «Come l’avete trovata, ragazzi?» «Pulita.» Il caporale fece un cenno di assenso. I due uomini rimisero a posto il casco con uno scatto e lasciarono la nave. Il caporale si sporse sul tavolo. «Un uomo con uno scopo come il tuo ha con sé un sacco di soldi. E ha fretta. Io vorrei aiutarti, ma c’è un intendente di campo ostinato, che si è appisolato e non si s veglierà senza un grugnito, a meno che gli porti qualcosa che lo plachi. E naturalmente, se non apre il campo, tu non atterri.» Gardius strinse forte le labbra. «Quanto?» «Oh… duecento milreis.» Gardius gli voltò la schiena, tirò fuori un paio di certificati dal portafoglio. «Duecento. Eccoli. Per favore, fate in fretta.» «Cinque minuti e sarai a terra,» disse il caporale. «Vai al portello di atterraggio appena oltre il parco. Chi è, tua moglie?» «Mia madre, due sorelle, un fratello.» Il caporale fischiò tra i denti. «Devi essere un milionario.» Esitò, lanciò un’occhiata alla tasca di Gardius. «Non lo sono,» scattò Gardius. «E ho fretta.» «Temo che sia troppo tardi per il carico di Arman. Adesso osserva quel globo. Quando si accende la luce abbassati attraverso il buco, scendi verticalmente fino a un’altitudine di trentamila piedi, poi da lì sei da solo. Non svoltare più in alto, o il campo ti ridurrà a un carboncino.» Gardius rallentò la navicella fino a quando si arrestò stridendo. Aprì il portello, saltò fuori nell’aria che sapeva di pietre combuste e fumo. Corse a un portale di mattoni neri che dava su una via stretta, lo attraversò, si irrigidì, fece un balzo indietro per evitare un veicolo rombante. Esitò pochi secondi, guardò su e giù lungo la via. I passanti — individui alti dai lineamenti affilati, scura e saturnina — lo fissarono con viva curiosità. Sentì un bambino con una giacchetta marrone dire con voce squillante: «Guarda quell’Orth, e non ha il marchio!» E Gardius sentì un sussurro sommesso: «Sst! Nessuno l’ha ancora comprato.» Si avvicinò a un vecchio con un camiciotto aderente di gabardine nero. «Dov’è il Distributore di Schiavi, per favore? Come ci arrivo?» Il vecchio lo osservò un momento, e Gardius pensò che non avrebbe risposto. Invece disse con voce piatta: «Prendi lo svincolo, segui la striscia rossa e verde. Passato il secondo tunnel troverai alla tua destra un edificio di cemento marrone con il tetto piatto.» «Grazie.» Gardius si girò, attraversò la via, fece il grande passo che lo portò a bordo dello svincolo. Strisce multicolori di luce si allungavano sulla superficie. Gardius si spostò obliquamente di lato, trovò la striscia rossa e verde, e avanzò camminando tanto in fretta quanto permetteva il traffico. La striscia rossa e verde deviò verso l’estremità. Gardius la seguì. Lo svincolo si divise, la striscia rossa e verde entrò in un tunnel stretto che odorava di ammoniaca e gas illuminante. Dopo un tratto di oscurità piena di rumori, si ritrovò di nuovo fuori alla luce del giorno. Alte residenze a ripidi spioventi fiancheggiavano la striscia, strutture complesse precedute da colonne di pietra levigata, cornalina, diaspro, onice. Un miglio; due miglia… poi la striscia si allontanò dalle case di città, girò attorno a una collina di scisto alterato, salì per un pendio fiancheggiato dal mercato alimentare. L’aria era pregna dell’odore acre del pesce secco, dell’aceto, della frutta. Gardius allungò il passo, proseguì al piccolo trotto. La striscia saliva lungo un argine scosceso, si tuffava in uri altro tunnel. Il tempo sembrava non passare mai. Gardius aumentò il trotto, e si mise a correre. Nel buio si scontrò con una figura alta e, ignorando le aspre imprecazioni, continuò a correre. Apparve una fioca chiazza di luce, ed eccolo sotto il cielo caliginoso di Maxus. Alla sua destra sorgeva un enorme blocco marrone di cemento, senza finestre, con la facciata liscia. Mentre Gardius si avvicinava una nave spaziale lasciò il tetto, e si allontanò galleggiando sullo scintillante piano di gravitoni. I portelli erano oscurati. Gardius la guardò sfrecciare via in un’agonia di frustrazione. Su quella stessa nave forse… Vide davanti a sé la porta al livello della via, e si avvicinò ansimando, senza più fiato. Una guardia in uniforme nera di pelle uscì e gli sbarrò la strada. «Vediamo il tuo lasciapassare.» «Non ho un lasciapassare. Sono appena arrivato sul pianeta.» «Non ha importanza, non puoi entrare. Nessuno può entrare senza il lasciapassare firmato dall’Alto Ricognitore.» Gardius si sporse in avanti, curvò le spalle, quasi abbassò la testa. La guardia si appoggiò al muro, rise piano, diede una pacca sull’arma appesa contro la gamba rivestita di nero. «Il cancello è chiuso. Fallo a pezzi con le unghie, se ci tieni.» Gardius disse con voce roca: «Dov’è l’Alto Ricognitore?» «Il suo quartiere generale si trova all’Arco Guchman,» disse la guardia, e indicò lo svincolo. «Torna per dove sei venuto, cambia a Bosfor Strali e prendi la striscia arancione e marrone. Se ti sbrighi forse riesci ancora ad avere un appuntamento.» Contorse la bocca in un ghigno cadaverico. «Adesso se fossi in te mi darei via… a un uomo come me. L’Alto Ricognitore ha una mente agile e potrebbe pensare a qualche sgradevolezza tecnica. Io ti venderei soltanto, e a un signore altolocato, per le faccende di cucina.» Le tempie di Gardius pulsavano. Fissò in faccia la guardia, poi si girò e ritornò sullo svincolo. L’Alto Ricognitore sedeva con il capo mezzo reclinato su un seggio foderato color cremisi, e girava tra le dita un calice azzurro lattiginoso. Era magro come uno spillo, con i capelli neri impastati in un ricciolo appuntito che gli scendeva sulla fronte. Le palpebre cascavano sdegnose, il naso gli tagliava la faccia come una falce, la pelle era del colore e della consistenza di un guscio d’uovo. Portava una veste di seta verde prato e un mostruoso rubino dondolava appeso a una catena d’oro all’orecchio. Dopo averlo lentamente esaminato, gli fece cenno di sedersi. Gardius si sedette. «Che cosa vuoi?» chiese cortesemente l’Alto Ricognitore. «Voglio un lasciapassare per il Distributore di Schiavi. Ho molta fretta. Devo ritornare subito se voglio fare in tempo.» L’Alto Ricognitore annuì. «Naturalmente. Parenti? Tua moglie?» Gardius disse: «Mia madre, le mie due sorelle, e mio fratello.» «Un bel colpo, un bel colpo davvero,» disse l’Alto Ricognitore sorseggiando dal calice. «Posso comprendere il tuo desiderio di fare in fretta. Specialmente se si trovavano sul carico consegnato da… vediamo, il suo nome è…» «Arman.» «Arman. Corretto. Un nuovo operatore, di molto successo.» Si appoggiò allo schienale. «Temo che sia troppo tardi.» «Ne sono certo,» mormorò Gardius, «a meno che non torni laggiù.» L’Alto Ricognitore sorrise debolmente, scribacchiò su una tessera, e gliela gettò. «Eccoti il lasciapassare. Dopo la tua visita, ripassa a trovarmi, vorrei parlarti ancora.» La notte scendeva sgocciolando come acqua tenebrosa, e le luci di Alambar scintillavano bianche e gialle. Un vento gelido sferzò le guance di Gardius, mentre per la seconda volta si avvicinava al Distributore di Schiavi. La guardia inarcò le sopracciglia alla vista del lasciapassare, e lo rigirò tra le dita. «Fai in fretta,» lo pregò Gardius. La guardia si strinse nelle spalle, parlò in una cellula dietro di sé. La porta si aprì. Gardius si trovò in una piccola stanza senza uscita apparente. Percepì un’ispezione, raggi alla ricerca di armi, esplosivi, droghe. La parete in fondo alla stanza scorse via. Gardius uscì in un corridoio illuminato, e chiese a una donna seduta a una scrivania: «Dov’è la sala dei compratori?» «In fondo al corridoio. Le camere di ispezione sono alla tua destra, ci passi davanti.» Gardius corse in fondo al corridoio. Oltrepassò una cortina di aria gelida, un’altra scrivania in un’ampia sala. Un vecchio con una sgargiante sopravveste albicocca lo esaminò. «Lasciapassare, prego.» Gardius glielo mostrò. «Il carico che Arman ha portato da Exar è già andato?» Il vecchio alzò le spalle, emise un sibilo. «Vengono, vanno. Mi pare che abbiamo vagliato quell’elenco stamattina.» Gardius si chinò in avanti con la faccia tesa. «Devo saperlo!» Fece per afferrare una spalla del vecchio, rammentò la propria posizione precaria di visitatore in permesso, si trattenne. «Dove posso accertarmene?» Il vecchio, che aveva iniziato a gonfiarsi dentro la sopravveste albicocca, agitò la mano. «Laggiù c’è affisso l’elenco, con le descrizioni. Il materiale ancora invenduto è confinato nelle camere di ispezione.» Gardius attraversò la sala. Alla sua sinistra c’era una fila di divani imbottiti di morbida pelle. Sui divani erano comodamente seduti alcuni Sommi, che consultavano liste, bevevano da pesanti calici, parlavano, scherzavano. L’arena davanti a loro per il momento era vuota. Gardius trovò l’elenco, scorse le liste del giorno. Sul fondo, segnato con spessi tratti di matite di diverso colore, trovò quello che cercava: N° Nome Sesso Età Osservazioni Minimo richiesto 1 Vitaly Galwane F 4 Allegra, attenta Ms 600 2 Donal Camus M 4 Intelligente 400 3 Rabald Retts M 5 Svelto ad apprendere 200 4 Glee Kerlo F 8 Diventerà una bellezza 1000 5 Temmi Helva M 9 Ragazzo incantevole e ben fatto 2800 6 Jonalisma Stanisius F 9 Obbediente di buon carattere 1000 Molti nomi avevano accanto funesti visti in matita blu; quelli erano stati venduti, suppose Gardius. Scese col dito fino in fondo alla lista: N° Nome Sesso Età Osservazioni Minimo richiesto 29 Lenni Gardius F 14 Fresca come un fiore 5000 Un grosso visto in matita blu precedeva il suo nome. Il respiro gli raschiò nella gola. Pallido, con gli occhi sbarrati, continuò. N° Nome Sesso Età Osservazioni Minimo richiesto 64 Thalla Gardius F 18 Squisita 5000 Nessun visto, niente. Lesse ancora. N° Nome Sesso Età Osservazioni Minimo richiesto 115 Gray Gardius M 21 Ingegnere metallurgico 3000 Un visto in matita blu. Gardius si umettò le labbra secche. Poi scese proprio in fondo: N° Nome Sesso Età Osservazioni Minimo richiesto 427 Iardeth Gardius F 58 Amabile, affascinante 300 Il nome era stato malamente cancellato — Gardius l’aveva quasi saltato. Dopo il nome era scarabocchiata la parola Morta. Gardius fissò la parola con la testa che gli girava. C’era del rumore dietro di lui, delle voci, uno scalpiccio di piedi, uno scoppio di risate. «Seimila e cinquecento,» disse una voce, «e sento seicento e sessanta… sessanta… sessanta… settanta… Signori miei, signori miei, un bocconcino delicato. Parlate, signori, parlate! Seicento e ottanta… e novanta… seicento e novanta… ah, settemila da Lord Erulite. Settemila… settemila… è tutto signori? Tu, forse, Lord Spangle? No? Venduta a Lord Erulite per settemila milreis. Venduta, parola mia.» Gardius si voltò, e nell’arena vide sua sorella. Il suo acquirente, un uomo alto e robusto di mezza età con un naso carnoso, una testa mezza calva e la carnagione rosa porporina, le stava girando attorno, evidentemente compiaciuto della sua proprietà. Gardius la chiamò: «Thalla!» Lord Erulite alzò gli occhi; il banditore rivolse uno sguardo sbigottito all’arena mentre Gardius vi entrava correndo. «Jaime! Hanno preso anche te?» Gardius si spinse oltre il torvo Erulite, prese tra le braccia la ragazza. Stava tremando, ansimava. «Sono venuto più in fretta che ho potuto per riportarvi tutti indietro,» disse Gardius. Thalla gli disse: «Jaime, la mamma è morta questa mattina.» Si abbandonò singhiozzando contro la sua spalla. Gardius si rivolse a Lord Erulite, che se ne stava poco lontano con espressione minacciosa. «Signore, questa è mia sorella. Volete permettermi di pagare l’importo dell’incanto, e di riportarla a casa?» Lord Erulite farfugliò e divenne rosso in volto. Infine rispose: «Adesso è di mia proprietà. Non mi va di separarmene. L’ho avuta legalmente…» Gardius disse: «Signore, ti prego umilmente di non portarmi via questa poveretta. Ho percorso diciotto anni luce per trovare lei e gli altri della mia famiglia. Sicuramente non vorrete ostacolarci così grandemente.» Una voce da dietro esclamò: «Fai valere i tuoi diritti, Erulite. Non lasciare che l’Orth ti persuada a forza di moine. L’hai comprata e pagata.» Lord Erulite spinse in fuori il petto. «Fatti da parte, allora. Meglio per te essere discreto.» La voce disse: «È qui solo col permesso di visitatore, sulla sua buona condotta. Se solo infrange il codice stradale può venire preso e venduto anche lui.» «Jaime, è inutile,» disse Thalla con voce fioca, spenta ed esangue. «Lord Erulite,» disse Gardius, «ti pagherò diecimila milreis per mia sorella.» Erulite si spostò di fianco per esaminare meglio il suo acquisto. «Assolutamente no,» disse con voce compiaciuta. «Nemmeno per quindicimila. Dubito che la venderei per ventimila.» Gardius insistette. «Te ne darò quattordicimila in contanti, e il mio impegno per settemila.» Erulite aggrottò la fronte colto da una furia improvvisa. «Vattene, tu e le tue proposte!» Thalla si strinse a Gardius. Era fredda, tesa, tremante. «Ho mancato,» mormorò Gardius depresso. «Ho mancato al mio impegno!» Thalla si agitò, emise un sospiro profondo e singhiozzante. «Non preoccuparti, Jaime, starò bene. Non puoi aiutarmi ora. Stai attento, Jaime.» Gardius rise sordamente. «Stai attento a cosa? A me stesso? Non mi importa cosa sarà di me.» «Oh, Jaime, non dire così. Hai tutta la vita davanti. Forse puoi aiutare qualcun altro.» Deglutì a fatica. «C’è un’altra ragazza, che hanno tenuto per ultima. Mi ha aiutato a prendermi cura della mamma. Mi ha dato tutto il suo cibo. Jaime, se potessi aiutarla sarebbe come se aiutassi me.» «Tenterò, Thalla. Dov’è la mamma?» Thalla chiuse forte gli occhi, e disse con voce atona: «Poco prima che morisse l’hanno portata fuori. L’hanno messa in una stanza che chiamano il Mattatoio. È per quelli che sono morti, e per quelli che devono uccidere, anche, immagino…» Gli occhi di Gardius erano palle di fuoco. «Un giorno, in un modo o nell’altro, cose come questa avranno fine.» Erulite prese Thalla per un braccio e la tirò via. «Basta, basta, questa scena è molto commovente. Non può continuare più a lungo.» Thalla rabbrividì sotto la sua stretta, si divincolò. Erulite la guardò adirato. «Niente storie, ragazzina, adesso sei una mia proprietà. Ti accorgerai che sono un padrone gentile, ma devi marcare il passo. Adesso vai nella sala d’aspetto, mentre vedo la fine dell’asta.» Thalla si allontanò. Gardius rimase immobile, poi lentamente la seguì. La voce roca borbottò qualcosa a Erulite. Erulite disse: «Bene, allora, la prenderò io.» E mugghiò al banditore: «Quando ci fai vedere quel fiore di cui tessi tante lodi?» «Tra poco, mio signore, venti minuti.» Erulite chiamò Thalla: «Vieni, andiamo dal supervisore del registro.» E passò attraverso un portale. Thalla lo seguì, guardando infelice Gardius. Gardius fece un breve passo verso di lei, si fermò, poi la seguì. Il corridoio fiancheggiava le camere di ispezione; Thalla si fermò davanti a una finestra. «È li dentro, Jaime, la ragazza nell’angolo. Cerca di aiutarla. Il suo nome è Mardien…» Gardius vide una ragazza con un camiciotto azzurro, appoggiata contro il muro. Si stava fissando le mani, accarezzandole una con l’altra, e la sua espressione era rapita, quasi assente. Mentre guardavano mosse la testa, e un ricciolo di capelli chiari le scivolò sulla guancia. «Vieni,» disse Erulite, a dieci iarde lungo il corridoio. «Ho poco tempo a disposizione.» Thalla sussurrò: «L’aiuterai, Jaime?» «Farò del mio meglio, Thalla.» Si voltarono, seguirono Erulite su piedi che sembravano insensibili. Davanti a una porta di ferro Thalla si fermò. «Questa è la stanza che chiamano il Mattatoio… e lì dentro c’è nostra madre.» La mano di Gardius si tese come costretta da una forza che andava oltre la sua volontà. Spinse. La porta si aprì verso l’interno. L’aria gelida uscì a fiotti attorno alle loro ginocchia. Thalla sospirò a fondo, entrò nella stanza ondeggiando come una sonnambula. Gardius la seguì, rigido. Le pareti della stanza erano di mattoni scuri, il soffitto era ad arco e sostenuto da contrafforti. A destra c’era una depressione quadrata nella quale si apriva un pozzo nero. Era stata lavata di fresco, ma l’acqua non aveva levato le macchie dai mattoni. Dalla parte opposta c’era un disordinato mucchio di cadaveri. Thalla si lasciò cadere grottescamente sul pavimento di mattoni, e nascose la testa sulle ginocchia. Gardius era incapace di muoversi. Da qualche parte in quel mucchio di carne morta giaceva qualcuno che aveva amato. Meglio adesso lasciarla in pace, meglio voltarsi, spostare lo sguardo sull’uomo che li aveva portati lì: Arman. Una voce rude e impaziente disse: «Vieni, andiamo… subito!» Ringhiando, Gardius balzò avanti, dirigendo un colpo terribile alla faccia rosa porporino. Erulite barcollò all’indietro, con le sopracciglia alzate, la bocca aperta in un cerchio di carne molle. Il pugno di Gardius gli colpì ancora la spalla, sfiorò la guancia. Erulite gracchiò, preso dalla rabbia: «Dannato Orth, adesso ti ucciderò!» Batté la mano dietro alla cintura, sganciò la pistola. Gardius gli si avvicinò, sferrò un pugno violento al fianco di Erulite. Erulite tirò il grilletto. Raggi ionici si dispersero per la stanza, bruciando dove cadevano. I cadaveri fremettero, si mossero a scatti. Gardius si fece sotto, deviò con un colpo il braccio di Erulite, lo strinse alla gola. Il raggio si abbatté sul pavimento, schizzò sul soffitto. La pistola cadde dalle dita ormai inerti di Lord Erulite, il corpo vibrò, si contrasse, la faccia perse mobilità, si rilassò. Gardius mollò la presa, si raddrizzò ansante. «Thalla…» Thalla era morta. Uno sfregio scuro le correva diagonalmente al volto, dove gli ioni della pistola di Erulite avevano colpito. Gardius restò lì, indolenzito, con le braccia staccate dal corpo. Alzò gli occhi al soffitto, li spostò lungo le pareti. Lentamente, faticosamente, come un vecchio, si chinò, raccolse la pistola di Erulite, se la mise in tasca… Un rumore di passi e di voci alte risuonò nel corridoio. Gardius sollevò la testa, eretta in una posa ferina, selvaggio come un lupo. I rumori oltrepassarono la porta, che si era richiusa dietro Erulite, si spensero in lontananza. «Perché no?» chiese Gardius rivolto alla stanza umida e fredda e ai cadaveri. «Perché no? Sarà una bella vita. Uccidere…» Si girò, prese tra le braccia il corpo della sorellina. «Povera piccola Thalla.» Lo adagiò delicatamente accanto agli altri corpi. E adesso Erulite. La giacca ricamata, rosso fiamma, era appariscente. Gardius la strappò via dalla schiena massiccia. Sentì un oggetto duro in una tasca, lo tirò fuori. Era l’astuccio portadenaro di Erulite. All’interno c’era un ordinato fascio di banconote da mille milreis. Gardius mise in tasca il denaro e gettò l’astuccio in un raccoglitore etichettato rifiuti. Gli abiti di Erulite seguirono l’astuccio, e poi Gardius trascinò il cadavere nel mucchio. Gardius scivolò fuori nel corridoio, ritornò nella sala d’aste. Nessuno notò il suo ingresso. Gli occhi di tutti erano sull’arena, sulla ragazza che il banditore stava vendendo. «… Voi gentiluomini siete prudenti, lo so bene,» disse il banditore, «ma queste offerte sono ridicolmente caute; ferirete i sentimenti di questa squisita creatura. Settemila, dice Lord Spangle. Ora… ah, Lord Jonas settemila cinquecento… Ci sono altre offerte? Lord Hennex, settemila seicento. Andiamo, andiamo, signori, chi dice ottomila?» «Settemila settecento,» disse la voce roca. Gardius ne identificò la fonte in Lord Spangle, un uomo magro e curvo con radi capelli neri, guance flosce e un enorme naso a becco. Gardius si avvicinò lentamente. La ragazza lo guardò. Era Mardien. Era davvero bellissima, pensò Gardius, di una bellezza che sembrava comportare o condividere un ricco e giusto orgoglio con il cervello. Aveva un’espressione determinata, né spaventata né arrabbiata, uno spettatore, piuttosto che un oggetto in vendita. «Settemila ottocento,» disse Lord Jonas. «Ottomila,» disse Lord Spangle. Il banditore si rilassò, si fece mellifluo. Lo schema era chiaro. Prima offerte basse, e i clienti che ostentavano disinteresse. Era poco probabile che la merce venisse venduta a basso prezzo. «Ottomila cento,» squillò una voce da in fondo alla sala. «Ottomila duecento,» replicò Lord Jonas. «Signori, gentiluomini,» implorò il banditore, «cerchiamo di procedere più velocemente. Novemila, ho sentito novemila?» «Novemila,» squillò la voce. «Novemila cento,» disse Lord Spangle. «Chi dice novemila cinquecento? Novemila cinquecento? Novemila cinquecento?» «Diecimila,» disse Gardius con voce piatta. «Ah, bene, signore. Diecimila, diecimila, diecimila…» La ragazza aveva voltato la testa all’udire la voce di Gardius. Gardius incontrò i suoi occhi, sentì la fragranza della sua personalità: frutta, vino, profumo, pioggia. La ragazza distolse lo sguardo. Con la sua voce roca, Spangle disse: «È l’Orth. Un dannato oltraggio, lasciarli entrare qui dentro a fare offerte!» «Dovrebbe essere all’incanto anche lui,» borbottò Lord Jonas. «Lo comprerei dovesse costarmi il mio ultimo ana, quel selvaggio. Lo farei lavorare nei banchi di zolfo fino a diventare giallo come la giacca di Ollifans.» «Diecimila… diecimila… diecimila,» strillò il banditore. «Diecimila cinquecento,» disse Lord Spangle. «Bene, mio signore,» gridò il banditore. «Adesso siamo a diecimila cinquecento. E chi può pagare ciò che vale questo bocciolo in gioia pura? Chi dice undicimila?» «Undicimila,» disse Gardius. «Undicimila cinquecento,» disse Spangle. «Dannazione a lui, avrei dovuto averla per ottomila.» «Undicimila seicento,» disse Gardius. Jonas toccò Spangle con il gomito. «Sta calando, comincia a essere a corto. Undicimila settecento ed è tua.» «Undicimila settecento,» disse Spangle. «Dodicimila,» disse Gardius. «Dodicimila,» urlò felice il banditore. «Ho sentito dodicimila!» «Tredicimila,» giunse la voce squillante da in fondo alla sala. La mente di Gardius ragionò freneticamente. Aveva venduto le tenute di famiglia su Exar, aveva macellato le mandrie, venduto i gioielli e i manufatti che possedeva, e aveva messo insieme un totale di quarantunomila milreis. Con undicimila aveva comprato la navicella spaziale, c’era stata una cauzione di diecimila milreis, molte altre spese. Valutava approssimativamente i propri averi a quindicimila milreis. Disse: «Tredicimila cento.» Spangle brontolò: «Quell’Orth sta gonfiando i prezzi. È così che succede quando permettiamo loro di ricomprarsi i congiunti. Dico tredicimila duecento, dovessi impegnare il cimiero.» «Quattordicimila,» disse la voce acuta. «Quattordicimila cento,» ruggì Spangle disperatamente. «Quindicimila,» disse Gardius. «Quindicimila… quindicimila… quindicimila!» gridò il banditore. «Ho sentito sedici?» Spangle si sedette pesantemente. «Quindicimila cento,» mormorò. Gardius trovava arduo pensare. Quarantunomila… meno dieci ne restavano trentuno. Trentuno meno undici faceva ventimila. Mille per un permesso di visita, e altri cinquecento di tangente. Duemila per il carburante, mille per carte e provviste, i duecento milreis scucitigli dal caporale alla stazione fortificata… possedeva ancora quattordicimila milreis. Di nuovo un fallimento; girò la testa dall’altra parte allo sguardo interrogativo del banditore. Un forestiero che facesse un’offerta superiore alle sue possibilità era colpevole di un illecito, e poteva essere preso e venduto. E l’offerta era già troppo alta per lui. Poteva vendere la navicella spaziale, ma non gli sarebbe certo stato di aiuto in quel momento. Notò gli sguardi furtivi nella sua direzione, trionfo, malignità, disgusto. Cercando il portafogli, la sua mano toccò una forma non familiare. Era il denaro di Erulite. «Quindicimila cinquecento,» disse. Si fece silenzio. Poi il banditore disse: «Quindicimila cinquecento è l’ultima offerta…» Spangle bestemmiò, sottovoce, pesantemente. «Quindicimila cinquecento… chi dice sedicimila? Tu, signore? Tu, Lord Jonas? Lord Hennex? Lord Spangle? Sedicimila? No?… Venduta, allora, è tuo, signore, questo prezioso gioiello biondo.» Gardius non disse una parola alla ragazza. Pagò la somma a Ollifans, il vecchio con la sopravveste color albicocca, e ricevette un certificato rosa di proprietà. Ollifans sfogliò uno schedario. «La sua frequenza penale è ventisei punto settecento trentatré millesimi di megaciclo. Lo scrivo sul certificato.» «Frequenza penale? Che cos’è?» Ollifans ridacchiò. «Dimenticavo. Tu sei un Orth, un sempliciotto. Un circuito è stato iniettato sotto la pelle della sua incantevole schiena, una ragnatela di polvere conduttiva che entra in risonanza a una determinata frequenza. «Se si è perduta e vuoi ritrovarla, invia un segnale alla frequenza giusta, e lei ti rimanderà le sue coordinate. E se è insolente e pigra, e tuttavia non vuole lasciarsi battere, metti a punto la forza del segnale e la griglia si riscalderà, e lei imparerà da che parte si trova l’autorità.» Ollifans infilò le dita nelle asole della dorata giacca albicocca, si appoggiò all’indietro e fece un cenno pomposo con la testa. Gardius aprì la bocca per parlare, la richiuse, infine disse: «Dimmi, chi ha comprato queste due persone?» Indicò i numeri ventinove e centoquindici sulla lista: suo fratello e sua sorella. Ollifans corrugò la fronte, arricciò le labbra. «Queste sono informazioni riservate.» «Quanto?» chiese Gardius, sogghignando come una maschera di legno scolpito. Ollifans esitò. Gardius mise sulla scrivania cinque banconote da cento milreis. «Mille,» disse Ollifans. Gardius arrivò a mille. «Cosa sta succedendo qui?» domandò una voce roca. Apparve Lord Spangle, passando con occhi acuti dal denaro a Gardius a Ollifans. «Ho forse sorpreso il tentativo di corruzione di un servo del Distributore? Se è così…» «No, no, mio signore,» protestò Ollifans, mettendo il denaro nella borsa che portava alla cintura. «Una regalia, mio signore, solo una regalia. Come ben sai, sono incorruttibile.» Lord Spangle si rivolse a Gardius. «E allora sparisci, spandidenaro di un Orth, sparisci con la tua donna.» Gardius si voltò lentamente verso la porta. «Allora, Jonas,» disse Spangle in tono lamentoso. «Se quel pappamolla di Erulite tornasse come ha promesso, ce ne andremmo.» Mentre uscivano dalla porta Mardien disse, esitante: «Ti ha chiamato Orth. Sei un forestiero, quindi?» «Ti sembra che assomigli a uno di questi Sommi?» «No… molto poco.» «Sono venuto dalla Grande Isola Farees di Exar,» disse Gardius, «per comprare mia madre, le mie due sorelle e mio fratello. Ho fallito. Mia madre e una sorella sono morte. Mio fratello e mia sorella minore sono stati venduti, è come se fossero morti. La sorella che è morta, Thalla…» Mardien gli lanciò uno sguardo esterrefatto. «Thalla… morta?» «Sì,» disse Gardius. «Morta. Mi ha chiesto di comprarti e di portarti a casa. Lo farò al meglio delle mie capacità.» La ragazza distolse lo sguardo. «Oh!» Gardius la fissò intensamente. La sfumatura della sua voce non era certo di esultanza. Era forse tristezza per la morte di Thalla… disappunto? «Pensavo che mi avessi comprata perché… ti serviva una schiava,» disse lentamente Mardien. «No,» disse Gardius. «Non mi servono schiavi. Non appena lasceremo il pianeta — e lo lasceremo stanotte…» Si gettò un’occhiata alle spalle. Non c’era segno di agitazione. Il corpo di Erulite giaceva ancora nel Mattatoio. «…strapperò questo certificato rosa. Fino a quel momento… potrei dover esibire un attestato di possesso.» Arrivarono dalla donna alla scrivania. La donna guardò distrattamente il foglio rosa, spinse un bottone. Il divisorio si aprì con uno scatto. Uscirono nella notte fredda e umida di Maxus. Gardius respirò a fondo. Lì fuori almeno poteva correre. Tre delle cinque lune erano già alte nel cielo, e i rigorosi edifici di Alambar erano canuti e smerigliati dal gelo nella luce bianca. Mardien rabbrividì. Il leggero camiciotto azzurro non era certo caldo. Gardius si levò la cappa e gliela pose sulle spalle. Con fare introverso Mardien disse: «Non voglio andarmene da Maxus.» «Che cosa?» «Ho una missione qui.» Gardius si sentì travolgere da una rabbia improvvisa e testarda. «Di che missione si tratta?» Nella stessa voce assente, la ragazza gli rispose: «Una faccenda privata.» Gardius si allontanò. «Privata o no, tu vieni via con me.» Mardien gli lanciò un’occhiata lunga e fredda che sembrava irriderlo, come per dirgli: «Hai fallito nel recare aiuto alla tua famiglia, perciò volente o nolente io devo essere trascinata a casa per placare il tuo ego.» «Dov’è casa tua?» le chiese Gardius bruscamente. «Non è su Exar.» «Dove allora?» L’atteggiamento forzatamente distaccato l’abbandonò per un istante. La sua espressione rivelò un mondo interno di fuoco e di emozioni, di colori sontuosi solo temporaneamente celati. «Non te lo dirò.» È proprio una situazione confusa, pensò Gardius. Ingratitudine, perversità, come diceva quella citazione?: la donna è la tua dannazione. Che andasse al diavolo, allora! L’avrebbe scaricata sul primo pianeta civilizzato e avrebbe considerato compiuto il suo dovere. Poi… davanti a lui si stendeva il corso della sua vita. Come sembrava facile e largo! Nessuna ambiguità, nessuna esitazione; il futuro era fissato. Prima — e Gardius sorrise, un sorriso ampio che gli scoprì i denti — prima Arman. Arman! Aggrottò la fronte. Chi era Arman? Mardien forse lo sapeva. Mentre lo svincolo li portava attraverso il tunnel, adesso fiocamente illuminato da una lunga tubatura azzurra, le chiese: «Tu devi avere visto Arman.» La ragazza si irrigidì. «Sì.» «Com’è il suo aspetto?» La sua voce era diffidente. «È un uomo magnifico. Giovane come te, più alto, un viso… oh, meraviglioso! Come il sogno di Penthe. La sua voce è pronta, diretta, come una tromba. Sta ritto sul ponte dalla sua nave come un dio dello spazio.» Gardius torse la bocca. «Parli come se lo ammirassi.» Mardien tacque un momento. Poi disse: «Tu non lo conosci?» «Intendo conoscerlo,» disse Gardius. «E bene anche. E lui mi conoscerà altrettanto bene. La mia sarà l’ultima faccia che guarderà.» Mardien si ritirò in se stessa. Gardius non notò nemmeno lo sdegno col quale alzò la testa. Come trovare Arman? Come attraversare l’estremità settentrionale della galassia con il suo mezzo bilione di stelle e dire: «Qui posso trovare l’uomo che cerco?» Ma c’era un uomo su Maxus che doveva sapere dove si trovava Arman: l’Alto Ricognitore. E l’Alto Ricognitore aveva suggerito un secondo colloquio. La mente di Gardius ribolliva. Uscirono in fretta dal tunnel, scesero il pendio fiancheggiato dal mercato alimentare, ormai chiuso per la notte. Un grosso gatto nero fuggì a precipizio davanti a loro lungo la striscia. Tra gli alberi alla loro sinistra si vedeva lo scintillio metallico delle tre lune su uno dei fiumi di Alambar. Gardius tentò di ordinare gli elementi della situazione. Innanzitutto il corpo di Erulite sarebbe stato presto scoperto. Poi un grido d’allarme si sarebbe levato contro Gardius. E se l’avessero preso non l’avrebbero sprecato per un’esecuzione. Sarebbe stato assegnato a una squadra nelle miniere di piombo sotto la calotta glaciale di Sraban. Non avrebbe mai più rivisto il cielo. Perciò era meglio lasciare Maxus finché era ancora in tempo. Eppure… doveva trovare Arman. L’Alto Ricognitore poteva saperlo, ma glielo avrebbe rivelato? Un mercante di schiavi di successo era un bene da tenere caro per i Sommi di Maxus. Poi c’era Mardien. Le lanciò un’occhiata obliqua, vide il luccichio dei suoi occhi sparire di colpo. Allora lo stava guardando. Sentì un fremito per la sua vicinanza, inquietante, conturbante. La sua bellezza era più di una conformazione di carne e ossa. Era un incantesimo della mente. Era una ninfa, una creatura di seta e sogno, un pallido loto notturno della Foresta Calda. Poteva portarla sulla nave con sé senza subire una grande tensione mentale? E se avesse dimenticato la sua missione, dimenticato la sua promessa a Thalla, e avesse pensato di prendere la sua dolcezza, e se lei avesse resistito, non avrebbe forse potuto conquistare con la violenza ciò che non gli fosse stato dato spontaneamente? E allora… dove sarebbe stata la sua integrità, l’anima pura che gli avrebbe consentito di uccidere Arman senza dolore né dubbio? E se l’avesse presa, avrebbe nello stesso tempo perso la parte migliore di lei, anche se fra sé non si esprimeva certo così. Dannata donna! Che cosa poteva volere su Maxus? Arman ce l’aveva portata. Era stata scelta per uno scopo. Ovviamente la sua bellezza aveva giocato una parte importante nella selezione. Le belle donne erano buone spie. Ma… che valore avevano le spie su Maxus, quando uno schiavo, dopo essere passato attraverso il Distributore, era perduto per tutto il resto dell’universo? Un moderno adagio diceva che mandare una spia su Maxus era come dare del latte a un pesce. Dannata donna! Gardius si chinò in avanti. Ma si raddrizzò di nuovo. C’erano gli altri problemi. Probabilmente poteva concedersi la notte, prima che venisse dato l’allarme per la morte di Erulite. In effetti, se l’eliminazione dei corpi era compiuta dagli schiavi, la presenza di Erulite in mezzo ai cadaveri poteva non venire denunciata. Tutto considerato, sembrava ragionevole tornare a far visita all’Alto Ricognitore. E Mardien… cosa fare di lei? Era imbarazzante doversela portare appresso. Tuttavia, a causa del suo espresso desiderio di restare su Maxus, non sarebbe stato consigliabile perderla di vista. Si sarebbe sottratta con facilità al suo controllo. Decise improvvisamente ma definitivamente che non desiderava vederlo succedere. «Vieni,» le disse bruscamente. «Questo è il Bosfor Strali. Cambiamo qui. Andiamo a far visita all’Alto Ricognitore.» Sua Eccellenza l’Alto Ricognitore indossava una guaina lucente di gabardine color cinnamomo, con un colletto alquanto frivolo di seta verde slavata. Era in piedi all’estremità opposta di una biblioteca, con il pavimento coperto da un tappeto verde acceso e le pareti da pannelli di marmo bianco tra tozzi pilastri di muratura nera. In mano aveva un grosso libro di pelle chiara dalla legatura flessibile, che posò quando Gardius entrò, con Mardien che lo seguiva a un passo di distanza. Gardius indicò una sedia a quella che ufficialmente aveva acquistato come schiava. «Siediti lì.» L’Alto Ricognitore fece un cenno con la mano elegante. «Bene, Gardius, hai avuto fortuna nella tua ricerca?» «Molto poca,» disse Gardius. L’Alto Ricognitore si sedette su una panca di metallo, fece segno a Gardius di fare altrettanto. «Senza dubbio provi un certo risentimento contro il popolo di Maxus,» suggerì, fissando attentamente Gardius con gli occhi neri. «Non posso negarlo,» disse Gardius. L’Alto Ricognitore rise mestamente. «È il peso dell’incomprensione che subiamo. Sai tu, Gardius, quanti Sommi vivono su Maxus?» Gardius si strinse nelle spalle. «Non ho mai sentito dire una cifra affidabile.» «Siamo in poco più di quaranta milioni. Pensaci, Gardius! Soltanto quaranta milioni! Noi progettiamo e produciamo industrialmente per tutta la galassia. Le nostre industrie producono i complicati meccanismi grazie ai quali voi dei pianeti esterni soggiogate l’ambiente. Quaranta milioni di uomini che posseggono e dirigono il più grande complesso industriale di tutti i tempi!» Gardius, che non desiderava venire coinvolto in una discussione sociologica, non disse nulla. «Questi quaranta milioni di uomini ci mettono il cervello,» continuò l’Alto Ricognitore. «Noi organizziamo, sovrintendiamo. Capisci? Il nostro talento viene sfruttato dalla galassia a suo vantaggio. Commerciamo ovunque. I tuoi indumenti sono tessuti sui telai di Maxus. La tua navicella spaziale è stata costruita nell’officina spaziale di Giunzione Pardis. «Ma,» l’Alto Ricognitore si sporse in avanti, «i quaranta milioni di cervelli sono necessari al vertice. Non possiamo sprecare la nostra energia. Perciò ci serviamo di qualunque manodopera troviamo conveniente e — ripeto — l’intera galassia ne trae vantaggio.» Gardius disse pacatamente: «Stai rivelando un aspetto della vita su Maxus che non avevo considerato.» L’Alto Ricognitore si alzò, passeggiò avanti e indietro lungo lo sgargiante tappeto verde; l’aderente guaina bronzea di gabardine enfatizzava la sua magrezza. Sottile come una matita, o come un’anguilla, pensò Gardius, un ridicolo bellimbusto con quel curatissimo ricciolo di capelli neri, e il colletto pieghettato. E tuttavia — pensò incontrando gli occhi brillanti dell’Alto Ricognitore — un uomo con un cervello di estrema sveltezza e intelligenza. «Ora,» disse l’Alto Ricognitore, «i quaranta milioni di Sommi gestiscono una forza lavoro di — diciamo — un grande numero di lavoratori. E qui è il nocciolo di una situazione precaria.» Rise vedendo l’espressione sul volto di Gardius. «Stai pensando a una rivolta, a un’insurrezione? Schiavi con le mani grondanti di sangue che cantano per strada? Nonsenso, la possibilità non esiste. «Abbiamo un sistema centrale di controllo che concretamente, teoricamente, e definitivamente, rende impossibile una simile eventualità.» Si umettò le labbra, inclinò interrogativamente le sopracciglia rivolgendosi a Gardius. «Parlo delle nostre tecniche industriali. Esse sono il nostro tesoro fondamentale. Per esempio, dammi poche once di ferro, un foglio di mica, un’inezia di polonio per un catalizzatore, e ti costruirò una cellula che esposta all’aria genererà costantemente diverse migliaia di ampere per anni ed anni. «Guarda.» Mise un dito sotto un angolo del tavolo. «Silicio espanso. Leggero come l’aria, forte come il legno più duro. I nostri mattoni, i mattoni neri che usiamo per costruire le nostre case, forti, economici, isolanti eccellenti, sono le scorie delle nostre distillazioni minerarie, formati migliaia alla volta in stampi istantaneamente riutilizzabili. «I gruppi di gravitoni che vendiamo a milioni, il condizionatore automatico d’aria che raffredda una stanza espellendo neutrini attraverso le pareti, e la riscalda assorbendo neutrini dalle onnipresenti nubi, convertendo l’energia in calore: questi segreti sono la nostra vita. «Non coltiviamo cibo, i nostri mari sono veleno, il suolo è cenere bagnata. Così, quando un lavoratore viene assegnato a una fabbrica, quando ha appreso le tecniche industriali di Maxus, non possiamo permettergli di andarsene, mai più.» Tornò al suo posto, guardò Gardius in attesa, come aspettandosi un applauso. Gardius disse: «La vostra cautela è comprensibile.» L’Alto Ricognitore fece un gesto disinvolto. «Naturalmente, se una persona come te arriva su Maxus e riesce a recuperare un amico o un parente prima che venga assegnato, allora siamo contenti di fare cosa grata. In primo luogo,» rise apertamente, «il forestiero pagherà prezzi elevati al Distributore. Più alti, solitamente, di quanto valga la persona che cerca come lavoratore. E poi… non siamo privi di umanità.» «Mi fa piacere sentirlo,» disse Gardius seccamente. «Mio fratello e mia sorella minore sono stati venduti prima del mio arrivo. L’impiegato ha rifiutato la tangente; o meglio, ha preso la tangente, ma si è rifiutato di darmi qualsiasi informazione quando si è accorto che uno dei vostri Lord lo osservava.» «Malissimo,» disse l’Alto Ricognitore. Indicò Mardien con un cenno del capo. «Questa, suppongo, è l’altra tua sorella.» Gardius rimase in silenzio. «E tua madre?» «Morta.» L’Alto Ricognitore agitò le dita. «Condoglianze.» D’un tratto Gardius disse: «Localizzerai mio fratello e mia sorella per me? Pagherò volentieri…» L’Alto Ricognitore scosse la testa. «Spiacente; è impossibile. Costituirebbe un precedente imbarazzante. Il Patriarca, per quanto di vedute notevolmente ampie,» ammiccò a Gardius arricciando le labbra, un ammicco scaltro e sarcastico, «a questo riguardo è adamantino. Me ne chiederebbe giustificazione, e io non saprei cosa fare.» «Perché allora,» domandò Gardius, «hai voluto vedermi ancora?» «In relazione a quel tipo, Arman,» disse l’Alto Ricognitore, lucidandosi le unghie sulla manica. «Le mie spie mi dicono strane cose di lui.» «Davvero?» Gardius si chinò in avanti. «Non è un comune mercante di schiavi.» «L’ho sentito dire.» «Era il figlio di un Lord di Maxus e di una schiava del pianeta Fell. Di solito questi bambini diventano lavoratori, ma il padre, in questo caso, si affezionò al bambino, gli diede un’istruzione semitecnica, e garantì la sua posizione come membro esterno della casta militare.» L’Alto Ricognitore scosse la testa. «Arman è cresciuto con cattivi risultati. È diventato un acrobata, un ginnasta vanesio. Stanco di questo mezzo di sussistenza, dette vita a un culto religioso tra donne anziane. Ebbe un brillante successo, finché alla fine venne sospettato di avere strangolato alcune sue benefattrici per i loro gioielli.» Si udì un suono sommesso provenire da Mardien. L’Alto Ricognitore le rivolse un’occhiata incuriosita, poi continuò. «Vedi dunque che ha svariati interessi. Prima un buono a nulla, poi un acrobata in calzamaglia color porpora, e per tutto il tempo un assassino di vecchiette. «Maxus divenne un luogo troppo pericoloso per lui. Si rese necessario fuggire per non venire condannato alla schiavitù. Riuscì a compiere l’impossibile: fuggì. Cosa ne pensi di tutto ciò?» «Sono interessato.» «Si è servito dello yacht privato del Patriarca.» L’Alto Ricognitore sorrise debolmente, come per una battuta. «La Prima Consorte del Patriarca l’aveva fatto costruire apposta per lui. Era uno yacht bellissimo: sale da bagno con tubature ricavate nell’avorio massiccio, tappeti in lanugine di anglesite, camere tappezzate di seta viola increspata. «Il Patriarca naturalmente era — ed è — adirato. E lo sarà ancora di più quando scoprirà che Annan, sotto l’inattaccabile immunità del permesso di visitatore, ci ha venduto un grosso carico di schiavi. Sarà curioso di sapere perché non ho provveduto affinché Arman fosse adeguatamente punito per i suoi crimini. Il Patriarca ha una memoria per gli insulti uguale a quella del mitico leviatano terrestre.» Gardius sorrise amaramente. «Perché non mandate uno dei vostri infuocati Lord a ucciderlo? Lord Spangle, per esempio, che sembra essere uno spirito di valore.» L’Alto Ricognitore scosse la testa. «I Sommi non lasciano mai Maxus se non su una nave da guerra. Un uomo solo potrebbe venire catturato, e tutti i nostri segreti potrebbero venirgli estorti con la tortura. Come minimo sarebbe ucciso, poiché i popoli esterni non hanno certo pretese di amicizia nei nostri confronti. Tutti i nostri agenti esterni sono Orth… chiedo scusa, dovrei dire forestieri.» «E allora?» «E allora,» disse l’Alto Ricognitore, «la notizia della morte di Arman sarebbe di grande conforto per me e per il Patriarca. Arman consegnato vivo sarebbe motivo di giubilo. Scelgo te per queste confidenze, tu capisci, perché presumibilmente hai una disposizione personale a causare ad Arman dell’imbarazzo.» Gardius si mosse al suo posto. «Cosa offri?» «Hai parlato di un fratello e di una sorella?» Gardius fissò indeciso il pavimento. Uccidere Arman era il suo più caro desiderio. Diventare un assassino prezzolato, un tagliagole… E tuttavia, Lenni e Gray. Una subitanea vampata di vergogna gli salì al volto. Aveva osato esitare, anche solo un istante? «Sì. Un fratello e una sorella.» «Quando verrà accertata la morte di Arman per mano tua, saranno a tua disposizione.» «Illesi? Mia sorella…» «Illesi. Tua sorella verrà messa al servizio di una vecchia signora.» «Accetto la tua parola.» «E adesso,» disse l’Alto Ricognitore, «passiamo al denaro. Necessiti di ulteriori fondi, o il portafogli di Lord Erulite basta alle tue necessità?» Gardius socchiuse gli occhi. Si irrigidì e lo fissò, senza parole. «Un lazzarone buono a nulla, quell’Erulite,» osservò l’Alto Ricognitore. «Ma mio caro amico, non hai ancora risposto alla mia offerta.» «I soldi servono sempre,» disse Gardius reprimendo il disgusto. «Eccellente. La tua risposta mi rassicura. Ecco.» L’Alto Ricognitore gli gettò un pacchetto. «Trentamila milreis. La tua navicella è stata revisionata e ha il pieno di carburante. Partirai immediatamente.» «Per dove?» L’Alto Ricognitore centellinò del liquido in un calice, lo offrì a Gardius che rifiutò; allora lo assaggiò di persona, arricciò le labbra e schioccò la lingua con un rumore aspirante. «Ah, non posso dirlo con certezza. Ma abbiamo una tecnica per scoprire queste cose quando i nostri agenti si rivelano degli inetti. Te la confiderò. Compiliamo un accurato elenco degli acquisti effettuati dai membri dell’equipaggio della nave. Per esempio, sappiamo che il cameriere di bordo di Arman ha riempito la dispensa di frutta fresca per due settimane. Altamente significativo: troppo poco, capisci, per un viaggio prolungato. «Arman, comunque, ha caricato al massimo i depositi di combustibile. Inoltre, il cameriere ha portato a bordo una grossa scorta — sufficiente per diversi mesi — di glidio, che come ben sai è una polpa fermentata consumata quasi esclusivamente da razze di estrazione Iarnimmica, come noi Sommi, i Clas di Jena, i Luchistain.» Si accomodò in una poltrona, si massaggiò una guancia. «Tutto molto significativo. E ancora, il medico ha fatto rifornimento di parabamina sessantasette da usarsi in atmosfere ricche di ossigeno, e di parecchi milioni di unità di siero stomatico, oltre ai soliti antivirali, antiallergici e tonificanti cellulari. «E poi il carico di Arman, molto interessante. Non piccoli rotatori automatici, ma casse di micrometri, campionatori di luce, e i nostri nuovi energometri multiuso. Niente torce, pistole, macchine per cucire, gruppi di gravitone, ma duplicatori tridimensionali e lingotti del nostro piombo cristallizzato superconduttivo.» Osservò Gardius con educata curiosità. «Ora cosa deduci da tutto questo?» Gardius disse: «Immagino che prima abbiate stabilito una sfera a due settimane di raggio da Maxus, e abbiate fatto una lista dei pianeti abitati compresi in quella sfera.» «Corretto. Ce n’erano quarantasei.» «Un’atmosfera ricca di ossigeno implica un mondo ricco di vegetazione. La stomatite suggerisce umidità. Un pianeta con paludi estese e giungle.» «Continua.» «Un pianeta con frutta fresca ma senza glidio. Di conseguenza un pianeta abitato non da Iarnimmici ma da Savari, Gallicretini, Congoin o Pardus. Un popolo senza grandi centri di ricerche, con piccole fabbriche che producono solo per il consumo locale, invece di progettare o creare.» L’Alto Ricognitore fece un gesto vago. «Soltanto un mondo di quei quarantasei assolve tutte queste condizioni. E si tratta di Fell, il terzo pianeta di Ramus.» «Fell,» disse Gardius pensieroso. L’Alto Ricognitore disse: «Su Fell vive un popolo insolito, separato dal resto della popolazione da una superstizione locale: gli Otro. La madre di Arman era una Otro. Si dice che siano tutti quanti folli.» Lo svincolo li guidò attraverso l’oscurità. Era da tempo passata mezzanotte. Le vie erano deserte. Un vento gelido, che odorava di scorie industriali e fognatura, sferzava loro la schiena. Gli edifici si levavano enormi, opachi e senza vita su ogni lato. Nessuna luce si mostrava sulla via, e la brina baluginava sui mattoni neri dove batteva la luce dei rari lampioni. Era difficile immaginare dell’umanità, dentro quelle masse complesse e pesanti. Sullo svincolo erano da soli. Per quanto potessero vedere davanti a loro le vie erano deserte. I vicoli scuri che si dipartivano a intervalli erano abbandonati, umidi e freddi, senza vita. Una pioggia sottile cominciò a cadere, e il vento soffiava veli spettrali contro i lampioni. Finalmente il portico che conduceva al campo centrale apparve nella pioggia. Due lanterne a gabbie metalliche, a ricordo di un evento passato, fiammeggiavano impetuose su ogni lato dell’arco, sibilando allo sgocciolio dell’acqua. Lasciarono lo svincolo, passarono sotto l’arco e uscirono nel campo. La pioggia cessò all’improvviso. Le tre lune si aprirono un varco tra le frastagliate nubi argentee, ma la luce si arrestò tra gli intricati profili dei tetti, e non poterono vedere la terra umida che scricchiolava e crepitava sotto i loro piedi. Gardius finalmente trovò la sua navicella in mezzo alla dozzina di altri velivoli del campo. Alzò una mano, e abbassò la scaletta. Mardien salì, e Gardius la seguì accendendo le luci. Si guardò attorno nella cabina, dove aveva trascorso tanti giorni e notti frenetici, e sospirò, improvvisamente sopraffatto dalla malinconia e dalla frustrazione. Energia sprecata, tempo sprecato, emozioni sprecate; come avrebbe potuto, come avrebbe potuto qualunque uomo sperare di impadronirsi del potere e della forza di Maxus? Sospirò una seconda volta, andò ai comandi, diede energia al generatore. Il nucleo di metallo pesante balzò nel centro, e cominciò a vorticare. Il generatore gemette, aumentò di tono, gradatamente diminuì fino a divenire silenzioso. Gardius regolò i comandi per il decollo, si sedette ad aspettare la luce che gli avrebbe segnalato lampeggiando quando il rotore avrebbe raggiunto una velocità sufficiente a schiacciare i mesoni impazziti in un costante flusso di energia. Girò la testa. Mardien era in piedi in mezzo alla cabina, estranea e fuori posto ai suoi occhi come un albero in fiore. Il suo volto era tirato e disperato. I pallidi capelli biondi erano umidi, e ricadevano in ciocche appiccicate. Gardius, con voce per quanto possibile amichevole, disse: «Ti porterò ovunque desideri, basta che l’approdo si trovi nel quadrante verso cui mi dirigo.» Mardien non gli rispose direttamente, ma guardando nella cabina chiese: «Dove sono i miei alloggi?» Gardius rise stancamente. «Alloggi? Sei fortunata ad avere un armadietto per i tuoi vestiti. Tirerò una tenda davanti a quell’angolo, e quelli saranno i tuoi alloggi.» La guardò attraversare la cabina con le sue poche cose. Con uno sforzo staccò gli occhi dalla schiena flessuosa, dalle gambe snelle. Una tristezza dolce, ma remota e impersonale, lo sopraffece. Cose simili non erano per lui. La sua vita era consacrata. Non poteva permettersi distrazioni, morbide creature, ragazze bionde, nessuna proprietà che non potesse immediatamente gettare via. Doveva essere libero, senza vincoli. Con voce sommessa Mardien disse: «Perché mi guardi in quel modo?» Gardius sbatté le palpebre. «Come?» «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» «Niente che io sappia,» fu la prudente risposta. «E comunque la tua vita ti appartiene.» «Mi hai comprata. Io sono di tua proprietà secondo le leggi di Maxus.» La luce diventò verde, lampeggiò. Gardius chiuse di scatto il portello, avvitò la sigillatura. Poi infilò una mano in tasca, le porse un foglio di carta rosa. «Tra dieci minuti saremo oltre la stazione di entrata, nello spazio libero. Allora udrai l’unico ordine che mai ti darò.» Scivolò al posto del pilota, mosse i comandi. La navicella si levò da terra, su nella luce delle tre lune. Alambar precipitò, divenne un panorama dai mille toni del nero e del grigio. L’ispezione al satellite fu breve. Poi si trovarono nello spazio. «Qual è l’ordine, Gardius?» chiese Mardien. «Straccia il foglio rosa.» Mardien obbedì. «Grazie, Gardius.» «Non voglio ringraziamenti,» disse Gardius guardando lontano. «Ringrazia il ricordo di mia sorella. Ringrazia la tua bontà che ti ha fatto voler bene da lei. Hai deciso dove vuoi essere sbarcata?» «Sì,» disse Mardien. «A Huamalpai, sul pianeta Fell.» Due esseri umani in uno scafo di vetro e di metallo, che sfrecciano nello spazio come sogni attraverso una mente addormentata. Due personalità spinte una contro l’altra, in una forzata intimità, nell’intimità dell’amicizia o nella difficile e spiacevole intimità dell’astio. Prima l’intimità fisica. Uno si muove, e l’altro è conscio del movimento. Un respiro, un sospiro, sono rumori nel silenzio. Quando uno fa un passo, la direzione del suo passo è condizionata dallo spazio che l’altro occupa. Poi la solitudine, che chiunque viva sulla superficie di un pianeta non può concepire. È per terra, e guarda in su, verso la volta del cielo notturno. Ma se questa volta fosse anche sotto di lui, se lo circondasse, e se fosse da solo in quel nero vuoto, con le stelle che si allontanano all’infinito? E se fosse rinchiuso in uno scafo? Questa è la vita in una navicella spaziale. Un compagno sarebbe legato a lui psichicamente, importante e molteplice quanto lui. Forse il legame diverrebbe anche più stretto, perché il compagno sarebbe l’unica variante nell’area ordinata a disposizione. E infine l’inattività, la mancanza di occupazione. In circostanze ordinarie un uomo che si trovasse accanto a una ragazza bionda e sinuosa si lascerebbe prendere dalla passione. Sarebbe incomprensibile, non umano, se accadesse altrimenti. Ma le circostanze erano uniche. Gardius aveva consacrato la sua vita, e la concentrazione rapita in cui viveva sembrava annullare la sua virilità più manifesta. Era consapevole delle possibilità esistenti. Talvolta i suoi occhi si posavano sulla curva di un fianco, o sulla linea della gamba, ma non provava alcuno stimolo. Mardien, che aveva accettato il contatto fisico come inevitabile corollario della schiavitù, considerava il suo disinteresse sconcertante. Poiché aveva una normale vanità, la situazione era sottilmente fastidiosa. La trovava sgradevole? Forse Gardius era un uomo contro natura? Guardando di sottecchi le ampie spalle, la corta zazzera scura di capelli spettinati, la bocca chiusa come una morsa e i gesti essenziali e controllati, sapeva che quell’ipotesi non era corretta. Forse era legato a un’altra donna. «Gardius?» Gardius si voltò. I suoi occhi erano inespressivi come pezzi di marmo. «Sì?» «Non hai più famiglia su Exar?» «No.» Gli si sedette accanto. «Cosa facevi prima di lasciare Exar?» «Architettura, progetti industriali.» La guardò con un barlume di curiosità. «E tu?» «Oh, io curavo l’educazione dei bambini.» «E dov’è casa tua?» Mardien esitò, poi disse: «È su Fell, sulle Terre Alte di Alam, sopra Huamalpai. Mi stai portando a casa.» Gardius la fissò un istante, guardò dall’altra parte della stanza la Guida ai Mondi Abitati, poi guardò di nuovo Mardien. «Ma è dove vivono gli Otro, i pazzi Otro. Tu sei una Otro?» «Sì.» Gardius la studiò un momento. «Non sembri anormale. È vero quello che dice la Guida sugli Otro?» «Non lo so. Che cosa dice?» «Oltre a descrivere gli Otro come una razza di matti… ebbene, leggilo tu stessa.» Si alzò, trovò il paragrafo sul libro, e glielo tese. Mardien lesse passivamente, e Gardius la osservò, corrucciato, dubbioso. La ragazza posò il libro. «Allora? È vero?» Mardien alzò le spalle. «Ti sembro sovrannaturale o sovrumana?» Gardius sorrise brevemente. «No. Lo sei?» Mardien scosse la testa. «No di certo. Siamo normali esseri umani. I nostri bambini non sono diversi dai bambini di Exar. Ma siamo stati educati in un modo che ci arreca dei vantaggi.» «Che tipo di vantaggi?» Esitò. «Non è una faccenda di cui parliamo volentieri.» «Benissimo. Tieniti pure i tuoi segreti.» Gli rivolse uno sguardo afflitto. «Non intendo essere misteriosa. Ma il nostro popolo… ecco, è una tradizione.» Esitò, poi disse impulsivamente: «Sei stato molto buono con me e se desideri farò di te uno di noi. Allora saprai più di quanto potrei dirti.» Gardius sogghignò. «E diventerei un matto?» «Se accetti le nostre credenze probabilmente diventerai come noi.» «No,» disse Gardius. «Religioni, culti, rituali, persino forme di follia, non hanno alcun interesse per me.» «Come desideri,» gli rispose freddamente. «Devo rimarcare, comunque, che una persona con una mente chiusa non impara nulla.» Gardius rise. «Mi aspetto una vita molto breve. Dubito che questa nuova conoscenza avrebbe molto valore per me.» «Forse hai ragione, e forse ti sbagli.» «Se la vostra conoscenza, o sistema, come lo chiamate, è utile, perché non l’avete esteso all’intero universo?» «Ci sono dei buoni motivi. Innanzi tutto abbiamo paura del popolo delle Terre Basse, e degli altri uomini predatori.» Con una lieve sfumatura della voce, Gardius disse: «E non hai paura di Arman?» Mardien lo guardò rapidamente. «Ma Arman è un eroe, un nuovo Evangelo.» Gardius ringhiò: «Hai sentito l’Alto Ricognitore. Prima un acrobata, poi un inventore di religioni e un assassino di vecchiette, e adesso un mercante di schiavi. E tu dici che è un eroe.» «Qualche volta,» disse Mardien lentamente, «le motivazioni di un uomo vengono fraintese, qualche volta le sue azioni vengono distorte quando si raccontano.» «Ho visto i cadaveri nel Villaggio di Farees,» disse Gardius. «Ho visto la nave di Arman levarsi dall’isola con seicento persone della mia gente nella stiva. Non c’è nient’altro da aggiungere per renderla peggiore di quello che è.» «Qualche volta,» disse Mardien balbettando, «pochi devono soffrire per il bene di molti…» «È vero,» disse Gardius, «e qualche volta molti devono soffrire per il bene di uno solo.» Mardien gli chiese con fervore: «L’hai mai visto, Gardius? Gli hai mai parlato? L’hai mai guardato negli occhi?» Gardius le rispose acido: «No. Sembra che tu abbia fatto tutte queste cose. Sembra che tu lo conosca molto bene.» «Sì. Io lo adoro.» «Allora devi essere malvagia come lui, o pazza come gli altri Otro.» Due esseri umani in uno scafo di vetro e di metallo, due personalità costrette all’intimità fisica; ma la simpatia, l’amicizia, erano inacidite. Nella cabina c’era un gelo, una desolazione di menti chiuse in loro stesse. I giorni passavano, e nel pilota automatico la perla di liptivio si avvicinava sempre più all’incavo, nel liquido viscoso che era lo stereotipo dello spazio. Poi un giorno la perla scattò al suo posto. I generatori diminuirono il canto di mille inaudibili ottave, attraversarono brevemente due o tre ottave udibili, e la navicella gorgogliò passando nello spazio normale. Proprio davanti a loro era sospesa una gigantesca stella rossa, Ramus, e nel telescopio, come un carbone ardente, ruotava il pianeta Fell. Il pianeta si gonfiò come un pallone sotto i loro occhi. Gardius rintracciò i continenti e le conformazioni studiati sulla Guida. La cintura color pesca era il Deserto del polo Nord, la distesa marrone e verde magenta era la giungla nella quale il continente Kalhua sguazzava come una zattera sempre in procinto di affondare. Sul confine occidentale c’era la città principale, Huamalpai, e proprio dietro ad essa, come una scatola sulla zattera, si levava l’altopiano delle Terre Alte di Alam. Gardius atterrò senza indugio. Il campo era sulla zona pianeggiante sul lato di Huamalpai che dava verso le paludi, una pianura asciutta sotto la luce rosata di Ramus. Huamalpai si trovava a dieci miglia di distanza tra le basse colline, che offrivano una misera protezione contro le scorrerie dei mercanti di schiavi. Mardien preparò il poco bagaglio con mani ansiose, guardando ogni dieci secondi fuori dal portello verso il grande dirupo roccioso che segnava il limitare della sua terra natia. Gardius la vide d’un tratto in una nuova luce: una ragazza molto entusiasta, molto idealista, e molto giovane. Si girò di scatto, con un vago rossore di colpa che gli scaldava le guance, e si mostrò occupato ad assumere la dose di parabamina 67 per contrastare gli effetti dell’atmosfera altamente ossigenata. Batterono al portello esterno. Gardius aprì, e si identificò ai rappresentanti di Re Daurobanan. Erano uomini bassi e con i lineamenti appiattiti, e capelli diritti e neri legati in codini. La loro uniforme era costituita da un paio di brache azzurre ampie e luccicanti, e da un peculiare ornamento che portavano sulle spalle come grandi ali di libellula, utili a chissà quale funzione. Erano taciturni, veloci, vaghi. Gardius pagò la piccola tassa di approdo e gli ufficiali se ne andarono. Si gettò la cappa sulle spalle, agganciò la borsa alla cinghia che gli passava diagonalmente sul petto, e fu pronto a scendere. Mardien saltò a terra, si girò e attese che Gardius chiudesse la navicella. Poi Gardius la raggiunse e ci fu un momento di imbarazzato silenzio. Allora Mardien gli tese la mano. «Le nostre vite sembrano portarci in differenti direzioni, Gardius.» Il vento, sollevando turbini di polvere dal campo, le scompigliava i capelli. Gardius deglutì a fatica, le afferrò la mano. Mardien, con gli occhi umidi, gli cadde sul petto con un rantolo lieve che parve sfuggirle di gola. Gardius se la tenne contro, la strinse forte. Una vampata calda sgorgò da non sapevano dove. «Mardien, voglio qualcos’altro dalla vita oltre a uccidere.» «Oh, Jaime,» gli disse pronunciando il suo nome per la prima volta, «Vorrei che fosse semplice!» Da sopra la spalla di lei, dall’altra parte del campo, Gardius vide una nave nera con la prua rincagnata, e un’enorme, prominente stiva di carico. Era la stessa nave che si era levata rollando da Farees, con la pancia piena di schiavi per Maxus; era la nave di Arman. Mardien lo sentì fremere, sentì i suoi muscoli tendersi. Alzò gli occhi, vide l’espressione sul suo volto, seguì il suo sguardo. Gardius curvò le spalle, lasciò cadere le braccia. «Le nostre vite vanno in direzioni differenti.» E la sua vita sembrava desolata, dura e grigia. Mardien si allontanò lentamente. «Addio, Gardius. Sei stato molto buono con me.» «Ringrazia mia sorella,» disse Gardius. «Ringrazia Thalla.» «Addio, Gardius.» Mardien attraversò piano il campo fino a una sala d’aspetto decrepita. Gardius la vide salire su un’aeromobile, che decollò e la portò su nel cielo rosato verso Huamalpai. Gardius rimase fermo, osservando l’orizzonte con una sensazione di sollievo fisico. Spazio da ogni lato, e sopra la sua testa la vasta cupola del cielo. Dopo settimane trascorse nella ristretta cabina si sentiva libero, pieno di energia repressa. Oltrepassò le aerovetture, attraversò il padiglione d’attesa scoperto, e si incamminò. La strada portava in mezzo a una pianura brulla, pavimentata di duri funghi immaturi grigioverdi. Piccoli sbuffi di polvere, turbinanti mulinelli rosa, vermigli, rossi, si avvicinavano roteando da lontano, e vagabondando verso l’orizzonte sparivano alla vista. Più avanti si appressava il dito scuro della palude. Quando si fu affiancato, Gardius vide un terreno acquitrinoso e di odore acre. Gruppi rugginosi di canne erano allineati lungo la strada, e facevano ondeggiare barbe di ragnatele che il vento aveva trasportato dalla giungla profonda. La palude si ritirò. La strada svoltò, correndo parallela a una piantagione di granoturco. Gardius proseguì, fischiettando tra i denti, in mezzo ai ciuffi leggeri che ondeggiavano e si inchinavano sopra la sua testa. Arman e gli Otro… perché? Era un problema che lo intrigava. Naturalmente Arman era per metà Otro. Pazzo per metà, allora? Rifletté sugli indizi trovati nella Guida. «Gli Otro sono fanatici della legittima difesa. Non temono nulla e nessuno. Muoiono allegramente se solo possono portarsi appresso uno dei loro nemici. Nonostante tutte le loro personali stravaganze cooperano magnificamente in qualunque situazione di crisi, come quando hanno cacciato l’esercito di Re Vauhau dalla Foresta di Nord Alam. Il popolo delle Terre Basse attribuisce agli Otro caratteristiche soprannaturali, come l’immortalità, la seconda vista e simili, e racconta strane storie su questa razza insolita…» In un certo senso la descrizione si adeguava a quello che sapeva di Arman, un mistico convinto del proprio destino. Apparentemente Arman sperava di rafforzare i dogmi del suo culto con il rituale ormai stabilito degli Otro. Immortalità? Seconda vista? Tutte le religioni prosperavano sull’umano terrore della morte, pensò Gardius: più erano sfacciate le pretese di una vita dopo la morte, più la religione era popolare. Mentre camminava Gardius sorrise lievemente. E così quello era il sogno di Arman: una rete di menti attraverso la galassia. Ma il sorriso svanì, e tornò il corruccio. C’erano difficoltà pratiche che nemmeno una canaglia irresponsabile come Arman poteva trascurare. In primo luogo i Sommi non avrebbero tollerato un’organizzazione simile. Avevano i mezzi per scoprirla: una rete di spie e la polizia segreta. E avevano il potere per distruggerla: embargo, assassinio in massa, e come ultima risorsa le forze militari ufficiali. Gardius smise di fischiare. Persino Arman doveva essere in grado di vedere l’insieme di contraddizioni. Per organizzare un blocco di potere era necessario sconfiggere la ricchezza, la forza e la potenza industriale di Maxus. E per sconfiggere Maxus era necessario un vasto complesso industriale, un’organizzazione planetaria. Era un circolo vizioso. Questo era Maxus e per questo avrebbe continuato a esistere. Gardius fissò la strada polverosa senza vederla. C’era un sillogismo nascosto da qualche parte, una combinazione di idee che avrebbero chiarito il problema. Scosse la testa. Troppi fattori erano ancora sconosciuti. E quei fattori sapeva che erano variabili. Alzò gli occhi sulle Terre Alte di Alam. Mardien ormai sarebbe stata a casa, in mezzo alla sua famiglia, ai suoi amici. Avrebbe visto Arman? Gardius strascicò i piedi nella polvere. Pensieri simili lo confondevano. Interferivano con l’impulso della sua vita. Era stata — era, si corresse — meravigliosamente semplice, meravigliosamente facile. Primo: uccidere Arman o portarlo vivo su Maxus. Secondo: scovare e uccidere quanti mercanti di schiavi gli fosse stato possibile nell’arco della sua vita. C’erano uomini che cacciavano lupi, altri che cacciavano tigri-luna. Gardius avrebbe cacciato mercanti di schiavi. Avrebbe messo insieme una galleria delle loro teste, e avrebbe gioito nel percorrere la fila dagli occhi vitrei. Dietro di lui risuonò uno scoppiettio, un fragore. Saltò a lato della strada, si voltò di scatto. Un autocarro carico di grassi animali grigi gli si affiancò. Gardius sollevò la mano. L’autocarro si fermò con un sibilo. Gli animali grugnirono e strillarono. Il guidatore guardò giù dall’alta cabina. «Dove stai andando?» «Huamalpai,» disse Gardius. «Sali a bordo.» Gardius volteggiò sulla scaletta, e si sedette sulla scarsa imbottitura del sedile. L’autocarro, un bruciatore a carbonella di manifattura locale, emise nuvole di fumo e di vapore. Le grosse ruote motrici si misero in moto con un gemito. Il guidatore era un uomo all’incirca della sua stessa età, di costituzione più sottile, con i capelli neri legati in codini e una faccia appiattita. Era incline alla verbosità, e Gardius ascoltò pazientemente il flusso di parole. «… quindici ettari il prossimo solstizio li metteremo a riso. È stato richiesto a Huamalpai, e le bestie da macello ci crescono bene. Si dice che anche i ragni si tengono a distanza, perché le foglie buttano fuori un olio rancido, ma non ho ancora visto i ragni stare lontani per un odore.» «Ragni?» chiese Gardius. Il guidatore annuì enfaticamente. «Arrivano dalle paludi per le bestie. Sono mostruosi, alcuni almeno. Altri, ovviamente, non sono più grandi del mio micetto domestico, e poi c’è una specie di animale con otto zampe, giallo-verde sulla pancia e nero sulle zampe, che può prendere una bestia sotto ognuna delle due zampe posteriori, e ritornarsene nella giungla, e non c’è niente da fare…» Proseguendo la regione si fece più curata. Il granoturco e le pianure aride vennero lasciati indietro. Adesso vigneti e risaie irrigate fiancheggiavano la strada. Le piccole capanne di legno erano rannicchiate sotto tetti di paglia azzurro vivo. In lontananza si levava un gruppo di colline, sulle quali la terra e le mura di legno di Huamalpai si distendevano, si aggrappavano, sgocciolavano come glassa rosa su una torta scura. Dietro a Huamalpai sorgeva il Dirupo di Alam, due miglia di roccia nera contro il cielo rosa. Notando la direzione dello sguardo di Gardius, il guidatore disse: «Quelle sono le Terre Alte di Alam.» Fece una pausa, volgendo gli occhi luccicanti in attesa su Gardius. Allora Gardius disse: «Non è dove vivono gli Otro?» «Esatto.» «Ho sentito dire che sono una strana razza di gente.» Il guidatore scrollò le spalle. «Pazzi come scarafaggi. Un uomo ha indosso un mantello rosso con su delle mezzelune azzurre. Un altro uomo gli va incontro con un mantello identico. Sai cosa succede?» «No.» «Tutti e due si strappano di dosso i mantelli, li bruciano, se ne vanno a casa e ne fanno dei nuovi, a colori e disegni diversi. Un uomo magari canta o parla. A un altro non piace. Allora gli va vicino e gli dice: «Chiudi la bocca!» E poi?» «Combattono?» «Niente affatto. Si stringono la mano. Ci sono grandi risate e ilarità.» «E per che cosa combattono?» Il guidatore si strinse nelle spalle. «Per esempio non vogliono prendere ordini. Ed è un insulto entrare nella casa di un altro.» «Mi chiedo quale possa esserne la ragione.» «Oh… semplice varietà da giardino di follia.» «Come trattano gli stranieri?» «Li ignorano per un giorno o due, poi li cacciano via. A loro piace l’isolamento.» «Uhm.» «Noi delle Terre Basse non andiamo molto spesso lassù. Quello che non capiamo non ci piace. E adesso è ancora peggio.» «Come mai?» La fronte piatta del guidatore si corrugò. «Ebbene, è difficile a dirsi.» Esitò. «Ho sentito varie voci,» disse Gardius. Il guidatore sbuffò. «Probabilmente sono vere, qualsiasi cosa dicano. Sono della strana gente, e io non vorrei averci niente a che fare, anche se non fossero pazzi. Si dice che non abbiano anima, e così sono impazienti di rubarla a noi delle Terre Basse, e mercanteggiarla per tutta la comunità fino a che tutti ne abbiano guadagnato.» Gardius emise gli appropriati suoni di sbalordimento. «Adesso dicono che c’è un grande Evangelo venuto dallo spazio,» disse il guidatore, «e sta facendo miracoli fra di loro, e vengono da tutte le Terre Alte per ascoltarlo e sospirare e gridare come spettri della palude. Naturalmente,» aggiunse con modestia, «sono soltanto voci che ho sentito, ma vado in città spesso, e non mi si prende facilmente in giro.» Gardius chiese: «E come può un uomo comune verificarlo con i propri occhi?» Il guidatore ci pensò un poco. «Ci sono diversi modi. Può andare a piedi lungo il Sentiero della Fortitudine, che sale dritto fuori da Huamalpai, oppure può andare in auto per quaranta miglia sotto il ciglio del Dirupo fino alla Tacca di Nuathiole. C’è una strada che è percorribile in auto, soltanto che quando arriva su sulle Terre Alte è un po’ malandata, così dicono.» Gardius guardò di traverso la scogliera. «Perché non in volo?» «Questo è il terzo modo, e stavo proprio per dirtelo. C’è un hangar a Huamalpai che noleggia velivoli — costruiti dagli schiavi su Maxus, devo dirtelo — e se puoi pagare il noleggio puoi sfrecciare su come un uccello.» Quando finalmente l’autocarro si fermò a Huamalpai, Ramus era basso e rosso cupo, e il cielo tendeva al magenta. Gardius scese dall’alta cabina, e prese commiato dal guidatore. Rimase in silenzio per un momento, sfregandosi il mento con gli occhi fissi sul ciglio del Dirupo di Alam. Arman era così vicino. Perché attendere? Si guardò attorno. In fondo alla via sorgeva il palazzo di Re Daurobanan, un gigantesco accalcarsi di cupole, panoplie, colonne, balconate e volute rococò. Più vicini c’erano i negozi e i mercati, vari luoghi d’affari, tutti con le facciate quadrate di legno chiaro scolpito. Gardius fermò un passante, e apprese l’ubicazione dell’hangar. Ascoltò le informazioni, girò lungo l’argine di un fiume color sangue, oltrepassò una trasandata fila di moli e banchine frettolosamente rizzati nel fango. Quando riuscì a trovare l’hangar e ad affittare un velivolo, era già scesa la notte. Il cielo era di una sfumatura color melanzana, con un bagliore color lavanda che rifletteva nel fiume una debole luminescenza. I comandi del velivolo erano un modello di Maxus. Gardius sollevò il velivolo dritto nell’aria calda, su, su, sempre più su. Huamalpai si allontanò, un disordinato spaglio di case su e giù dalle colline. Ancora più su, fino alle Terre Alte di Alam. Oltrepassò il bordo dell’altopiano, e scrutò incuriosito nelle tenebre. L’aspetto della regione era reso indistinto dall’oscurità, ma percepiva un vasto pianoro ondulato fino all’orizzonte. Spruzzi di luci splendevano qui e là, luci di tutti i colori, che ammiccavano di rosso, di verde, azzurro, giallo, porpora, come se ogni villaggio fosse un grande carnevale. Da qualche parte là sotto c’era Arman. Dove? Gardius guardò accigliato le luci colorate. Arman avrebbe sbrigato i suoi affari nel modo più discreto possibile, certamente consapevole del lungo braccio della vendetta di Maxus. Se si fosse stabilito tra gli Otro qualunque domanda posta da uno straniero, per quanto casuale, avrebbe destato sospetti. Mardien doveva sapere dove si nascondeva Arman. Probabilmente in quel momento era al suo fianco. Trovata Mardien, avrebbe trovato anche Arman. Ma come trovare Mardien? Scendere a chiedere? No! Gardius pensò al modo di localizzare Mardien. Girò di scatto il braccio sulla fila dei comandi. Il velivolo scese in picchiata, e tornò in diagonale verso Huamalpai. Gardius volava di nuovo sulle Terre Alte di Alam. Sul sedile accanto oscillava la goffa sagoma di un trasmettitore costruito dai nativi. Fece scattare l’interruttore, si sintonizzò sui 26.733 megacicli. Trovata Mardien, trovato Arman. La risonanza del circuito penale l’avrebbe guidato da Mardien: 26.733 megacicli a bassa intensità. Intendeva localizzare, non punire, nemmeno disturbare. Ruotò l’antenna tutto intorno al nero orizzonte, e ascoltò. Silenzio. Aumentò l’angolatura degli ipersostentatori; il velivolo lo portò su, inclinato nell’aria. Sintonizzò di nuovo il trasmettitore, ascoltò, udì un suono breve e debole. Aumentò la potenza e il suono si rafforzò. Allineò l’antenna con la bussola — nord-ovest — voltò il velivolo, e seguì la direzione del segnale. Mentre volava il segnale diventava sempre più forte, e Gardius diminuì la potenza perché il pizzicore non mettesse in guardia Mardien. Dieci, venti, trenta miglia passarono. Gardius guardò innanzi a sé. Le Terre Alte erano larghe solo cinquanta miglia. Ancora dieci miglia… e l’antenna indicò verso il basso. Rimase a librarsi in quel punto, scrutò oltre il montante della cupola. Sotto di lui si stendeva l’oscurità, non interrotta da spruzzi di luci multicolori come le città altrove sull’altopiano. Non si vedeva nulla oltre all’oscurità di una regione disabitata. Esaminò con scetticismo il trasmettitore. Il quadrante era sintonizzato correttamente, ma era calibrato secondo un criterio corretto? L’unico modo per scoprirlo era atterrare. E guardò senza alcuna attrazione la massa scura e indistinta che lo aspettava. Pensò al nottiscopio, uno dei tanti strumenti miracolosi di Maxus, attraverso il quale la notte era come il giorno. Ma ne custodivano il segreto con tutta la loro monumentale gelosia. Non era certo ad uso degli stranieri. Gardius diede un’occhiata all’altimetro. Segnava duemila piedi dalla superficie. L’ago del tattigrafo oscillava tra il 6 e il 7 — la densità e la trama del fogliame della foresta. Fece abbassare il velivolo con un’elevata inclinazione. Mille piedi… cinquecento… quattrocento… trecento… lo rialzò appena in tempo. Proprio sotto di lui incombeva una massa amorfa che sembrava fremere e ribollire, la chioma di un albero gigantesco. Gardius si mosse a disagio sul sedile. Il motore del velivolo faceva poco rumore, un ronzio rotatorio, ma le eliche creavano un risucchio che poteva anche perdersi tra i rumori della foresta. Con cautela abbassò il velivolo. L’oscurità adesso lo circondava, un poco meno fitta alla sua destra. Le eliche crepitarono tra le foglie a sinistra. Piegò a destra. Le eliche ruotarono nell’aria soffice, e Gardius scese al suolo senza altri impedimenti. Saltò a terra, si fermò accanto al velivolo, in tensione, in silenzio, scrutando l’oscurità. L’aria era quieta, umida, odorosa di un balsamo non familiare, sufficiente a ricordargli che camminava per un mondo sconosciuto. I suoi occhi si abituarono all’oscurità, e si accorse che il buio non era affatto completo, e che il legno marcescente generava un lucore azzurro fosforescente parallelo al terreno. Gardius esitò. Se abbandonava il velivolo rischiava di non ritrovarlo. Una volta fuori dal suo campo visivo — un centinaio di piedi nella semioscurità — avrebbe potuto vagare per ore attraverso la foresta. Ritornò nella cabina, inviò gli impulsi più deboli a ventisei punto settecento trentatré millesimi di megacicli e il segnale ritornò forte e chiaro. Allineò esattamente l’antenna, si sedette a riflettere. I suoi occhi caddero sulla bussola della navicella, un aggeggio magnetico e quindi utile allo scopo. Staccò la bussola, l’allineò all’asse dell’antenna. Nord-nord-ovest. Si incamminò alla svelta, procedendo a lunghi passi sull’erba spugnosa. Le sue impronte splendevano di un improvviso azzurro acceso alle sue spalle. Non sapeva per quanto o quanto a lungo stesse camminando. La fioca luce azzurra gli mostrava tronchi neri da ogni parte, che si levavano nitidi, senza rami, e il legno era duro e freddo come metallo. I suoi passi scricchiolavano su fragili funghi, affondavano nell’humus. Più volte calpestò grossi viticci, e gli parve di calpestare braccia umane. Un lucore giallo-rosato che pareva scaturire dal suolo crebbe davanti a lui. Gardius avanzò lentamente e la luce si diffuse di fronte a lui, illuminando le prime fronde del fogliame a sessanta piedi sopra la sua testa. La foresta terminò, il terreno scese a picco. Gardius si trovò a guardare oltre un ciglio roccioso in un sabbioso anfiteatro naturale. Una tenda di pesante tessuto rosso manteneva bassa la luce. File di panche si curvavano attorno a una piattaforma di grezze assi nere con un parapetto intagliato. Le panche erano per tre quarti occupate da uomini e donne. Gardius osservò i presenti. Erano alti, ben fatti, con lineamenti armoniosi e regolari. Gli Otro delle Terre Alte di Alam, i pazzi Otro, erano davvero pazzi? Gardius trovava difficile credere diversamente. Gli abiti di ogni individuo erano completamente diversi per foggia e colore da quelli di tutti gli altri. Era come un ballo in maschera, come il carnevale suggerito dalle luci colorate delle città Otro. Un uomo indossava un giustacuore di cuoio verde pallido, e calzoni di raso color bronzo; un altro ampi pantaloni bianchi e una voluminosa blusa porporina. Lì una donna era cinta di nastri dorati, là un’altra portava una veste pieghettata di seta azzurra, e un’altra ancora una tuta grigia con gheroni gialli sulle gambe e spalline nere. Le acconciature si differenziavano allo stesso modo: disposizioni varie di setole di bronzo, piumini rossi, penne, elmetti di metallo e veli trasparenti. Stupefatto Gardius girava con lo sguardo da una faccia all’altra. Forse era un’occasione di festa. No, erano tutti ugualmente seri. Gardius guardò di nuovo le facce: non c’era nulla che facesse sospettare la follia, niente che indicasse dei poteri sovrannaturali. A dispetto dell’abbigliamento fantastico, scoprì una serenità, un rilassamento e una calma che distendevano i volti dando loro un aspetto giovanile. Dov’era Arman?Dov’era Mardien? Da qualche parte in mezzo al pubblico? Esaminò attentamente la circonferenza dell’arena. Non c’erano uscieri, né guardie, né assistenti. I nuovi arrivati che si univano al pubblico non destavano la minima attenzione. Lì un costume stravagante non avrebbe suscitato scalpore, pensò Gardius. La sua tuta grigia di volo sarebbe stata notata solo per l’assenza di colori. Uscì nel lucore giallo rosato, avanzò in mezzo a due file di panche, e prese posto. Nessuno gli badò. Una mezza dozzina di donne di mezza età si sedettero davanti a lui, e si divertì ad ascoltare i loro discorsi. Otro oppure no, erano chiacchiere di donne su qualunque pianeta della galassia. «…Così aggraziato, ha detto Teresha. Le ha davvero tenuto la mano, e lei dice che il suo tocco l’ha fatta rabbrividire tutta.» «Teresha non è sempre attendibile, sapete.» «Ho una certa idea di invitarlo al notturno…» «Dubito che venga. È sempre così occupato, studia in continuazione. È in grado di leggere otto lingue antiche…» Le panche si riempirono rapidamente. Ben presto l’anfiteatro fu gremito. Una vecchia con una martingala giallo limone e un fascio di rose tra i capelli si sedette di fianco a Gardius. Dall’altra parte si sedette un quindicenne con una giacca verde. Nessuno gli rivolse una seconda occhiata. La luce di un riflettore disegnò un alone bianco-rosato sulla piattaforma, e Arman apparve. Dalla folla si levò un sibilo a mezza voce. Arman. Gardius respirava appena tant’era tesa la sua attenzione. Arman: un uomo di magnifica statura e bellezza, con un cervello che irradiava sicurezza e intelligenza. Il suo volto era composto da mille campioni, tutti gli eroi su tutti i medaglioni. La voce di Arman era seria, ricca, melodiosa, rendeva impellente la frase più ordinaria. E accresceva l’impellenza con un modo di parlare a testa bassa, guardando negli occhi del pubblico. Osservando quell’uomo, Gardius poteva capire la riluttanza di Mardien a pensare male di lui. Fisionomicamente era uno degli arcangeli, raggiante di virtù. «Uomini e donne del futuro,» disse Arman, «domani comincia la nostra grande avventura. Domani lasciamo le Terre Alte.» Fece una pausa, girò lo sguardo per l’anfiteatro. Gardius sentì il momentaneo impatto. Arman continuò con voce lenta. «Non ho molto da dirvi. Persino qui nella foresta, con voi che ho personalmente convocato, temo gli occhi e le orecchie di Maxus, e devo trattenere molto di ciò che è nella mente del Dio.» Gardius si agitò sulla panca. Dio? Quale Dio? Arman continuò a parlare con grandi frasi dondolanti, come un artista ispirato che stenda il colore sulla tela. Il tema era meno politico che spirituale, eppure Gardius si sentì turbato ascoltandolo. L’entusiasmo, l’ardore, erano sentimenti difficili da contraffare. Se Arman credeva nei propri sermoni… Attonito Gardius rimase seduto ad ascoltare. L’uomo aveva perso la speranza, diceva Arman, aveva perso la fede nel destino che un tempo l’aveva mandato fino ai confini della galassia. C’era bisogno di un nuovo scopo, una nuova fiamma per accendere il cuore degli uomini, una nuova crociata. «Una crociata viene iniziata dai crociati,» disse Arman dolcemente. «E i crociati siete voi che verrete con me domani. E la centralità, lo scopo… è in me. Chiamatelo Dio, Fato, Destino, Fine… esso è in me. Esso mi dona la parola. Esso fa di me ciò che sono. «Mentre vi vedo davanti a me, questo Dio, questo Destino, guarda con i miei occhi. Quando io parlo, il Dio parla. La dichiarazione solenne è: gettate via i cenci della vita, indossate i vestiti dorati del nuovo universo. L’umanità affonda nello stagno. Maxus sguazza nel vino e nelle orge, mangia il grasso dal posteriore delle sue vittime. Maxus è una grande sanguisuga che succhia la vita, e l’umanità barcolla. «Le vecchie frontiere si stanno ritirando, le colonie lontane sono preda delle bestie. Un mondo viene colpito dalla peste. Su un altro mondo la gente invecchia, indebolisce, vacilla e muore, e le loro pietose rovine sono perdute tra le stelle.» Arman alzò la voce, e la pelle si accapponò sulla nuca di Gardius. «Noi contraiamo il volto nella risoluzione. Noi purifichiamo l’universo. Noi infondiamo il nostro liquore ardente! Noi gettiamo a terra la sanguisuga, la schiacciamo fino a farne poltiglia. Coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi, suderanno, faticheranno e moriranno come sono morti i loro schiavi! Noi costruiamo nel nome di Arman il Dio! I nostri mattoni sono le menti umane, il nostro mortaio è il cammino degli Otro, la nostra struttura sarà un nuovo universo!» Arman indietreggiò, respirando profondamente. La folla sospirò, un rumore acuto uscito dal diaframma. E Gardius si mosse irritato, seccato dalla discordanza tra la sua mente e le sue emozioni. Prima Mardien, adesso Arman, entrambi cospiravano a confondere la chiarezza delle sue intenzioni. Arman riprese a bassa voce: «Domani noi lasciamo il pianeta, ci imbarchiamo per la nostra grande avventura. Voi che venite vedrete uno strano mondo. Vedrete l’oscura elegante putrefazione di una vecchia cultura che si basa sul male. Voi che restate preparatevi, preparatevi e imparate, costruite e attendete. «Assieme vedremo grandi eventi. È la storia che stiamo vivendo questa notte sulle Terre Alte di Alam; noi che ci siamo incontrati qui nella foresta siamo la pulsante scintilla del futuro.» Gardius sedeva intorpidito in una specie di autoipnosi. Attraverso un leggero velo di nebbia vide l’alone di luce spegnersi tremolando su Arman, sentì la folla alzarsi, andarsene. C’era qualcosa nell’aria. Una crociata, contro Maxus, contro lo stesso grande stato schiavista. E i crociati? Un anfiteatro di uomini e donne dai vestiti bizzarri? Ridicolo. Arman era pazzo come i suoi simili. Ma lo era davvero? Forse Mardien aveva detto la verità. Forse le motivazioni di Arman erano state travisate. Forse Arman agiva su una scala secondo la quale seicento vite erano pari a nulla. Forse Arman era il Dio, il Destino, comunque si chiamasse. Forse Gardius era l’iconoclasta irresponsabile. L’indecisione era peggiore della tortura. La sua vita era stata decisa così nettamente. Non c’erano stati dubbi, e adesso… E tuttavia nel cuore della sua mente risuonavano una serie di parole, lottava per raggiungere la sua coscienza. Gardius si mosse; l’intontimento si dissipò. Parole — una frase — quale? La chiave per il suo dilemma. Chinò la testa tra le mani, rimase seduto un momento ad accarezzarsi il mento. In un punto Arman aveva sollevato la tenda, e un barlume era penetrato. Adesso ricordava. Gardius si alzò in piedi, fissò la piattaforma. La folla aveva lasciato l’arena. Arman se n’era andato. Divenne consapevole di un’altra presenza, di un sospettoso esame. Rivolse un’occhiata al ragazzo quindicenne che gli si era seduto di fianco. Erano quasi soli nel lucore che si andava affievolendo. Il ragazzo disse: «Tu non sei un Otro.» Era una piatta affermazione. Senza rancore né astio, Gardius disse: «Come lo sai?» «Te lo vedo in faccia,» disse il ragazzo, «nelle rughe turbate degli uomini della morte. Lo leggo nell’inespressività della tua mente, la cui superficie è come il Deserto di Granito. Tu non sei un Otro.» «E allora?» «Se sei una spia di Maxus verrai ucciso.» «Se fossi una spia di Maxus come avrei trovato la strada per questa adunanza?» Il ragazzo scosse la testa, si allontanò indietreggiando. Gardius vide che era pronto a chiamare aiuto. L’arena era vuota ma gli uomini non erano molto lontani. Gardius disse: «Bene, vedremo se sono una spia oppure no. Andiamo da Arman.» Il ragazzo esitò. «Desideri vedere Arman? Parti domani?» «Forse,» disse Gardius. «Non abbiamo ancora deciso.» Il ragazzo si fermò guardando Gardius con la coda dell’occhio. «Andiamo da Arman,» disse Gardius. «Tu sei più pratico della foresta. Fai strada.» Il ragazzo fissò Gardius, che non corrispondeva all’immagine mentale che si era fatto di una spia. Le spie erano basse, con gli occhi sfuggenti, piene di falsi sorrisi. Gardius era grande, snello, muscoloso come una tigre della foresta… «Ti dirò dove trovare Arman,» disse indeciso. «Non ti ci porterò.» L’accordo andava benissimo a Gardius. «Come desideri.» Il ragazzo cambiò idea. «No, ti ci porterò io. Così saprò che va tutto bene. Sono un Praticante Ingegnere,» aggiunse impacciato. «Eccellente,» disse Gardius. «E qual è il tuo ruolo nella grande avventura?» «Oh!» Il ragazzo scelse attentamente le parole. «Io tradurrò le idee in disegni accurati. Questa è la mia specializzazione.» Gardius annuì. «Capisco, capisco. E ora, portami da Arman.» Il ragazzo esitò. «Forse farei meglio a portarti da mio padre e lasciare che decida lui.» Gardius si accarezzò il mento come se stesse riflettendo. «No,» disse infine, «ho poco tempo. Sarebbe meglio andare direttamente da Arman.» Il ragazzo tentennò. Non era mai stato al cospetto di Arman, non aveva mai parlato con il grande uomo. Forse quella sarebbe stata l’occasione. «Seguimi,» disse. Lasciarono l’arena, presero un sentiero che attraversava una strada lastricata e si rituffarono nei boschi. Camminarono per cinque minuti. La foresta si fece meno fitta. Uscirono in uno spiazzo. A est un pianeta luminoso splendeva come una gigantesca perla rosata. Gardius vide che si trovavano in una brughiera ondulata. Il vento gli soffiò in faccia l’odore forte della palude. Più avanti brillavano le luci di un villino. Il giovane si fermò di colpo, improvvisamente indeciso. Sarebbe stato ringraziato per avere portato uno straniero a disturbare l’eroe? E se quel cupo straniero dai capelli neri era un nemico, una spia di Maxus? Gli si agghiacciò il sangue. «Abbiamo preso la strada sbagliata,» disse il ragazzo con voce fioca. «Meglio che ritorniamo nella foresta. Ti porterò da mio padre.» Gardius tese il braccio quasi per caso, prese la nuca del ragazzo in una mano, tastò il punto giusto tra i muscoli, strinse. Il ragazzo si irrigidì, le braccia penzolarono insensibili, le gambe lo sostennero a malapena. Gardius si frugò nella borsa, tirò fuori un piccolissimo iniettore, un minuscolo sacco di narcotico con un ago. Allentò la presa. Il braccio del ragazzo scattò verso l’alto in un movimento riflesso, facendo cadere l’iniettore di mano a Gardius. Gardius emise un grido soffocato, digrignò i denti, aumentò la stretta. Il ragazzo si irrigidì di nuovo. Dov’era l’iniettore? Costrinse il ragazzo inerte al suolo, tastò qua e là nell’intrico di ginestre spinose con la mano libera. Trascorsero cinque minuti prima che lo trovasse, infilato nella biforcazione di un ramo. Lo spinse nel collo del ragazzo. Il ragazzo si intorpidì. Gardius mollò la presa. Il ragazzo rimase immobile. Gardius attese fermo nel buio. Evidentemente il grido non era stato udito, forse soffiato via da quella brezza che odorava così forte. Si avviò furtivo verso il villino, una casa di campagna con un tetto a due spioventi meravigliosamente alto, finestre ovali e una porta a forma di tre dischi. Dalle finestre filtravano crepe e punti di luce dorata, ma nessuna immagine era visibile all’interno. Gardius fece il giro della casa, passò casupole, capanni, edifici annessi. Trovò l’entrata posteriore, e la stanza dietro sembrava al buio. Tirò il chiavistello. Come si era spettato la porta era chiusa. Infilò la mano nella borsa, prese il raggio termico, e, soffocando per il fumo, bruciò un buco attorno al chiavistello. Allungò le dita tra le schegge incandescenti, fece scorrere all’indietro il catenaccio, appoggiò la spalla alla porta e la socchiuse. La stanza era buia e odorava di frutta guasta. Una cornice di luce rivelava un’altra porta opposta a quella di servizio. Gardius girò intorno il raggio della torcia e attraversò la stanza rapido e furtivo. Dall’interno non giungevano né suoni né voci, nemmeno il fruscio di un movimento. Con in mano il raggio termico, Gardius aprì silenziosamente la porta. Arman era seduto su una panca accanto al focolare, e fissava pensieroso le fiamme. Era solo. Gardius avanzò senza fare rumore. Arman percepì la sua presenza, sollevò lo sguardo. «Silenzio,» disse Gardius mostrandogli il raggio termico. Arman si alzò in piedi, lo osservò tranquillamente. La sua presenza era straordinaria, sconcertante. Gardius si chiese se avrebbe dovuto tirare il grilletto. Alla fine sarebbe stato più facile. Ma Arman riportato vivo su Maxus avrebbe avuto più valore di Arman morto su Fell. Non c’erano solo suo fratello e sua sorella, ma anche molti amici, che Arman vivo avrebbe potuto riscattare. «Voltati,» disse Gardius. Arman obbedì, osservandolo da sopra la spalla con grandi occhi luminosi finché si fu girato completamente. Gardius si avvicinò con prudenza. Le ampie spalle muscolose di Arman emanavano forza. Qualunque presa sarebbe stata inaffidabile contro quel fascio di nervi. Allungò la mano, e trafisse il collo di Arman con l’iniettore. Da dietro venne un fievole gemito di sorpresa e paura. Indietreggiando da Arman che si andava irrigidendo, Gardius vide una donna nello specchio di una porta. Portava pantaloni neri e una blusa bianca con alamari verdi. Era bionda come il sole di Exar. Con un piccolo strazio al cuore, Gardius riconobbe Mardien. Arman si accasciò. Gardius disse a Mardien. «Entra, svelta. Potrei anche ucciderti.» Mardien si fece avanti, con gli occhi velati da uno strano sguardo spento. «Uccidermi?» La sua voce era perplessa. «Perché?» Gardius la fissò incollerito, senza sapere cosa rispondere. La risposta alla sua domanda era in qualche modo legata alla fitta di dolore che aveva sentito nel vederla nel villino di Arman. Mardien vide l’eroe prono a terra, e si portò una mano alla gola. «L’hai ucciso… così presto?» «No, non è morto.» «E adesso che cosa farai?» «Lo porterò su Maxus, e lo baratterò con mia sorella, mio fratello, e quanti amici sarà possibile.» «Ma lo tortureranno!» Guardò di nuovo Gardius, e già il velo stava lasciando i suoi occhi. Gardius alzò le spalle, gettò un’occhiata al grande corpo. «Avrebbe dovuto pensarci prima di diventare un mercante di schiavi. Può sopportare parecchio.» Mardien gli si avvicinò. «Gardius… Jaime! Tu non capisci! Non puoi, non sei così malvagio! Qui c’è la speranza dell’universo, in Arman! Saresti tanto crudele?» Gardius emise un suono cupo, a metà tra un risolino e una sbuffata. «Forse sei cieca. Forse sei troppo ingenua.» Bianca in viso, con gli occhi sbarrati, Mardien disse: «Dietro a quello che dici non c’è nulla, solo le tue emozioni.» Gardius ripeté il suono sarcastico. «Le stesse parole valgono per te.» «Ma io so! Io so!» disse tra i denti stretti. Gardius scrollò le spalle. «Ha parlato di partire domani. Perché? E per dove?» Mardien esitò, poi la risposta le scaturì rabbiosa dalle labbra. «Per Maxus con seicento persone del mio popolo. Ecco quanto crediamo in Arman! In seicento si sono offerti volontari.» «Volontari? Per cosa?» «Hanno offerto i loro corpi volontari per la schiavitù.» Gardius rimase immobile, sondandola con lo sguardo. «Perché?» Mardien distolse gli occhi. «Ho detto troppo.» Gardius disse lentamente: «Ho capito bene che seicento Otro si lasciano — volontariamente — vendere come schiavi?» «Sì!» rispose in tono di sfida. «Hai capito bene.» «E Arman si prende il denaro che sarà pagato per loro?» «Sì.» «Adesso so che siete pazzi, tutti quanti.» «Sei uno sciocco!» scattò Mardien. «Il denaro serve per comprare attrezzature tecniche, per le fabbriche, per gli impianti elettrici, gli utensili.» «E chi lavorerà in queste fabbriche?» «Noi Otro.» «E chi vi darà da mangiare quando i vostri campi resteranno incolti?» «Quelli delle Terre Basse. Compreremo il cibo.» «E chi proteggerà le vostre industrie da Maxus?» «Avremo uno schermo come lo schermo attorno a Maxus.» «Quello,» disse Gardius, «è uno dei segreti meglio custoditi di Maxus: come schermare un pianeta.» Mardien gli rivolse un sorriso gelido. «Quando gli Otro saranno schiavi su Maxus, Maxus non avrà più segreti. Coloro che andranno sono tecnicamente preparati.» Gardius la guardò accigliato. «Non ti capisco.» «Naturalmente. Tu non sei un Otro.» «No,» disse Gardius. «Non lo sono. Come farete uscire quei segreti dal pianeta?» «Questo è uno dei nostri segreti. Lo faremo. Scoveremo ogni formula, ogni progetto strutturale, ogni fase di conoscenza avanzata di Maxus. E qui nelle Terre Alte di Alam ricreeremo i segreti. «Schermeremo Fell dalle navi da guerra di Maxus fino a quando avremo delle navi da guerra nostre. Allora ci espanderemo, esporteremo le nostre tecniche sugli altri pianeti. Maxus scomparirà davanti a noi.» «Molto fantasioso,» disse Gardius seccamente. Si appoggiò alla parete. «Ma perché barattare le occasionali predazioni di Maxus con la tirannia di questo,» toccò Arman con un piede, «questo mercante di schiavi, questo assassino?» «Non ci sarà tirannia sotto Arman!» Gardius scosse piano la testa. «Innocenti fiduciosi! Persino quando Arman dice «coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi», voi avete ancora fiducia in lui.» ««Coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi»,» ripeté Mardien lentamente, stupita. «Tu eri all’incontro.» «Sì.» «Cosa intendi dire con ciò?» «Intendo dire che forse potrete creare un sistema industriale, ma che per controllarlo avrete bisogno di milioni di uomini, molti più di quanti ce ne siano su Fell. Ti rendi conto di quanto sia complicata una nave da guerra spaziale? Quanti anni di lavoro nella vita di un uomo ci vogliono per costruire anche solo un incrociatore?» «No,» disse Mardien debolmente. «E quanti anni di lavoro nella vita di un uomo ci vogliono solamente per costruire i meccanismi, le attrezzature, le maschere di montaggio che sono appena sufficienti per cominciare?» «Cominceremo su piccola scala.» «Non ci sono piccole scale. O è grande, o non esiste affatto. Ci vogliono quaranta milioni di Sommi semplicemente per sovrintendere alle industrie di Maxus. E voi siete solo in pochi milioni. Da dove verrà tutta questa forza lavoro aggiuntiva? Nel suo discorso Arman vi ha dato la risposta. Gli viene in mente senza sforzo, poiché è un mercante di schiavi per professione. Schiavi! «Un’altra cosa: mentre il vostro sistema industriale si starà espandendo, credete che i Sommi se ne andranno a dormire? Sono dei realisti. Si espanderanno con voi, più in fretta di voi. Costruiranno più fabbriche, schiavizzeranno più pianeti, e hanno duemila anni di anticipo su di voi. «Se il vostro piano riesce, voi non vincerete, nessuno vincerà. Perderanno tutti. Non ci sarà solamente Maxus a devastare i pianeti in cerca di uomini, ci saranno anche i mercanti di schiavi di Fell. Due sistemi industriali, in competizione per i mercati della galassia, per comprare cibo sufficiente a nutrire i loro schiavi.» «No, no, no!» gridò Mardien. «Questo non è per niente il nostro piano.» «Certamente no,» disse mitemente Gardius. «Voi siete idealisti. Gli idealisti sono sempre i rivoluzionari, le zampe del gatto. Poi i realisti consolidano la situazione, raggiungono i compromessi, liquidano l’opposizione.» Restarono a guardarsi l’un l’altra attraverso la stanza, entrambi schiacciati contro la parete come cariatidi, e in mezzo a loro giaceva l’idolo prono. Mardien disse con voce sottomessa: «Cosa proponi, allora? Cerchi di distruggere la mia fede, ma non mi offri nulla.» «Mi dispiace,» disse Gardius con calma. «Non posso offrire soluzioni gradevoli, se non rendere il mercato degli schiavi così pericoloso che esseri come questo,» toccò ancora Arman con un piede, «saranno costretti a fare acrobazie. Ho pianificato la mia vita in questa direzione. Sto cominciando con il mercante di schiavi che mi ha privato della mia famiglia: Arman. «Quando l’avrò consegnato all’Alto Ricognitore non ci sarà quartiere. Li ucciderò come mi capiteranno sotto mano.» La sua voce assunse un’aspra vivacità. «Come scorpioni!» Notò lo strano pallore sul volto di Mardien, notò la direzione del suo sguardo. Era fisso sul pavimento in una fascinazione inorridita. Troppo tardi balzò indietro. Da terra scaturì il movimento, una massa rapida e agile lo colpì alla vita, lo scagliò, con un tonfo, lungo disteso sul pavimento. Il raggio termico cadde sull’assito. Mardien gemette, corse avanti ad afferrarlo. Gardius sferrò un calcio da dov’era sdraiato, colse Arman nell’addome. Scorse Mardien, con la faccia contorta nell’agonia del dubbio. La pelle splendeva dov’era tirata sulle ossa, i denti erano bianchi contro le labbra grigie. I suoi occhi erano grandi, un velo scese davanti al suo sguardo. Gardius intuì la sua decisione, rotolò di fianco mentre un ago di luce rossa carbonizzava il pavimento vicino a lui. Balzò in piedi, schivò il boccheggiante Arman passandogli alle spalle, afferrò uno sgabello e lo lanciò contro Mardien, che si accasciò a terra. Gardius si girò di nuovo verso Arman, che gli si stava avvicinando con il volto in fiamme e la bocca ruggente. Era peso, forza e furia contro furiosa destrezza, e furiosa forza. Arman aveva l’esperienza delle implacabili città dell’uomo. Gardius era un montanaro di Exar. Era come una contesa tra un toro e una pantera nera. La resistenza di Arman era prodigiosa, sembrava venirgli da una scorta sovrumana. Colpiva con maggiore violenza del più debole Gardius, eppure quando la vista di Gardius vacillava e si annebbiava, Arman sembrava fresco, impaziente, pieno di risorse. Attraversò la stanza con un balzo, Gardius si spostò barcollando. Arman roteò il braccio come una mazza, mancò il bersaglio. Gardius afferrò il braccio, fece leva, e Arman cadde pesantemente a terra, prono. Per la prima volta giacque immobile un istante, e in quell’istante Gardius scattò in avanti, gli sferrò un calcio alla testa. Arman emise un gemito sordo, contrasse le mani, le unghie raschiarono il pavimento. Mardien si stava muovendo carponi verso il raggio termico; Gardius si scagliò in avanti, lo prese, indietreggiò. Ansimava, gli occhi vacillavano, il cuore gli batteva forte; le ginocchia sembravano cardini molli, cento contusioni pulsavano, il sangue gli sgocciolava dalla guancia, dalla bocca, dal mento. Mardien era seduta sul pavimento, lo guardava con occhi cattivi, e Gardius vide l’immagine fugace di una bestia primordiale. Fu la più fugace delle immagini, e pensò quale meravigliosa maschera era la bellezza, e un eone di civiltà. «Sei marcia quanto lui,» ansimò. «Sei la sua amante.» «Sei geloso,» gli disse Mardien. «Ecco perché lo odi, ecco perché odi me. Sei geloso!» «Non lo nego,» disse Gardius con una voce che risuonò strana alle sue stesse orecchie. Nemmeno le parole erano quelle che voleva dire. «Se lo fossi… se anche lo fossi,» si corresse, «non è nulla di cui ho vergogna.» Gardius non rispose. Il silenzio scese su di loro, il tempo sembrava fermo per le tre creature immobili nella loro posizione, Arman sdraiato con le braccia scomposte, Mardien rigidamente seduta, Gardius appoggiato contro la parete. I suoi occhi caddero sull’iniettore: perché non aveva immobilizzato Arman? Allungò la mano, lo raccolse, lo esaminò. L’ago era rotto, il sacco era vuoto. Rimase inerte un momento, riflettendo. Gli eventi stavano diventando troppo grandi per lui, si stavano scontrando e accalcando oltre il suo controllo. Dov’era il ragazzo? Era stato drogato? Era andato a chiamare aiuto? Arman rantolò, scosse la testa dolorosamente e si sollevò piano sulle braccia. «Stai fermo,» disse Gardius. Arman alzò lentamente gli occhi su di lui. «Tieni le braccia dietro la schiena.» Arman obbedì, impassibile. Gardius si chinò in avanti con un rotolo di nastro adesivo. Una cosa magra e ossuta gli saltò addosso, gli immobilizzò le braccia. Ecco dov’era il ragazzo. Arman balzò avanti, afferrò il raggio termico. Il ragazzo si era tirato indietro, adesso, e balbettava ad Arman le sue giustificazioni. «…Sapevo che non aveva in mente niente di buono il momento stesso in cui l’ho visto. Ho creduto meglio tenerlo d’occhio, qualsiasi cosa per aiutarti, Lord Arman…» Arman osservava Gardius riflettendo. Gardius aspettava con le braccia conserte, aspettava di essere ucciso. Mardien si tastava i lividi, dove lo sgabello l’aveva colpita, e assisteva inespressiva. Arman si rivolse improvvisamente al ragazzo. «Fuori, dietro la casa, nel velivolo. Nell’armadietto di coda c’è una lunga corda.» «Sì, signore.» «Prendila.» Il ragazzo corse via, ritornò dopo un momento. «Legagli i polsi,» disse Arman. «Dietro la schiena.» Arman raccolse l’estremità della corda. «Fuori,» disse a Gardius. E a Mardien: «Porta la sua torcia.» Condusse Gardius al velivolo, legò l’estremità della corda alla struttura inferiore. Gardius si irrigidì. Quando il velivolo si fosse sollevato lui si sarebbe trovato sospeso per i polsi, che erano legati dietro la schiena. Il peso del suo corpo gli avrebbe strappato le braccia all’indietro fuori dalle articolazioni, e il suo corpo avrebbe penzolato impotente sotto le braccia tese. Arman si girò verso il ragazzo. «Sai guidare?» «Sì, Lord Arman…» «Portalo sulla palude, e taglia la corda.» Il ragazzo rise quasi istericamente. «Sì, signore. Cibo per i ragni, ecco come finirà.» Mardien, con la faccia bianca come uno spettro, si aggrappò al gomito di Arman. «Arman… non possiamo torturarlo…» «Lasciami,» disse Arman bruscamente. «È una spia di Maxus.» «No, non lo è, veramente. E anche se lo fosse… non possiamo torturare, Arman…» Arman girò la testa minaccioso. «Chiudi la bocca! Tornatene in casa se non ti piace!» Mardien lo guardò un agghiacciato istante, poi si voltò e si allontanò in fretta. «Decolla,» disse Arman. «Assicurati che faccia la fine che merita.» «Non preoccuparti, Lord Arman. Vivo solo per servirti.» «Bene. Mi ricorderò di te.» Il ragazzo saltò nella cabina. Gardius lanciò un’occhiata alla corda. Arman era stato generoso con la lunghezza. Le eliche rotearono, l’aria venne convogliata verso il basso, il velivolo si sollevò. Gardius si gettò sul dorso, avvolse la corda attorno a una caviglia. Il velivolo si levò nella notte, e sotto, a testa in giù, penzolava Gardius. Scomodo, pensò, ma non tanto scomodo come starsene appeso alle braccia slogate durante le sue ultime ore di vita. Arman gridò rabbiosamente ma il ragazzo non l’udì. Il velivolo volò via nella notte, facendo pazzamente ondeggiare Gardius. La luce proveniente dalla porta aperta del villino si ridusse a tre dischi dorati, a una striscia, poi più nulla. Per quanto tempo volassero, Gardius, col sangue che gli pulsava nella testa, non poteva tenerne conto. Doveva concentrarsi per non perdere conoscenza, se sveniva le sue gambe si sarebbero rilassate, la corda sarebbe scivolata via dalle caviglie, e lui sarebbe caduto di lato restando appeso come Arman avrebbe voluto. Il tempo passò. Il vento sferzava il suo viso, lo scuoteva avanti e indietro. Era vagamente consapevole della sagoma scura e costante sopra, della notte, del buio sotto, della perla matura e opulenta che era la luna di Fell. Questi erano gli elementi essenziali della sua nuova esistenza. La vita sembrava lontana, passata, un grido in un sogno assolato. E così Gardius venne trasportato a testa in giù nell’oscurità, a cavallo del vento come una strega insolitamente ridicola. Respirare gli riusciva difficoltoso. Gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite. Si aggrappò alla coscienza con una presa che lentamente diventava scivolosa. Il velivolo si fermò, librandosi in cielo. Mille piedi più sotto si stendeva la palude, completamente nera, se non per l’occasionale scintillio dell’acqua. Gardius sentì la testa del ragazzo che guardava giù, udì debolmente le parole al di sopra del fragore della corrente d’aria discendente. «Lo vedi questo? È un coltello. Io taglio la corda, e tu vai giù. Cibo per ragni.» Rise. «Una lunga strada per scendere, una lunga camminata per tornare a casa. Se ti lascio andare piano piano ti godrai la passeggiata, e ci saranno i ragni a darti le indicazioni.» Il velivolo si assestò rapidamente, l’orizzonte si levò come liquido nero in una grande scodella di vetro purpureo. Erano ormai a venti piedi, e quasi Gardius urtava il fogliame. «Spero che ti goda la passeggiata,» gridò il ragazzo. «Ci sono solo cento miglia, e hai un sacco di tempo.» Gardius sentì vibrare la corda. I fili si divisero… uno, due, tre. Cadde, attraverso le foglie e i ramoscelli che si spezzavano, in un folto di grandi baccelli sferici. Qualcuno scoppiò sotto di lui, altri si staccarono e andarono alla deriva nell’oscurità, leggermente luminosi, come bolle piene di fumo lucente. Gardius giacque inerte, semincosciente, privo di volontà, di energia, di reminiscenze. La breve notte di Fell si attenuò, ritirandosi davanti all’alba color prugna. Gardius rabbrividì, destato dai profili emergenti delle fronde della giungla, che agitandosi nella brezza si strofinavano, raspavano e stormivano in un milione di piccoli rumori. Dolorosamente distese le gambe, si sistemò in una posizione più comoda, cominciò a lavorare ai nodi. Riusciva a sentire la corda con la punta delle dita. Un filo alla volta la indebolì; alla fine diede uno strattone e la corda si spezzò. Allungò la mano, si appoggiò e si alzò in posizione eretta su un ramo. Con cautela controllò lo stato delle ossa, brontolando ogni volta che incontrava una contusione. Sembrava che non ci fosse niente di rotto. Tese il collo, guardò a terra. La luce ancora non era penetrata. Sotto di lui le immagini erano indistinte. Prese in considerazione di scendere lungo il tronco dell’arbusto. Poi, ricordando i ragni, esitò. Scrutando attraverso i rami scorse una ragnatela. Gettò un ramoscello nella ragnatela e una creatura nera grossa come un gatto uscì a precipizio dall’ombra una zampa dopo l’altra, rimbalzò sul ramoscello; poi, lentamente, gettando via il ramoscello con rammarico, se ne ritornò alla tana buia. Gardius distese braccia e gambe, si mise più comodo sul ramo. Era vivo, e già era più di quanto si fosse aspettato. Dai rami dell’albero delle sfere riusciva a vedere a circa cinquanta piedi prima che lo sguardo si perdesse nel grigioverde e nell’intrico color prugna. L’aria odorava di terra fredda e bagnata, con tracce di muschio animale e un dolce putridume vegetale. Ramus, il sole rosso, galleggiava alto. Gardius si mosse dal suo trespolo, si arrampicò un poco più in alto tra i rami. Uno strido gutturale echeggiò nella giungla, seguito da un grande fracasso. Gardius rimase immobile, fisicamente spaventato per la prima volta da quando si era ridestato alla coscienza. Dopo un momento si arrampicò ancora per alcuni piedi, e altri grandi globi che fungevano da baccelli si staccarono e volarono via nella luce rossa del sole. Gardius fece l’inventario della sua borsa: un lungo coltello a serramanico, un alimentatore per il raggio termico, l’ormai inutile sacco dell’iniettore, un rasoio a secco, denaro, una fionda per lanciare dardi avvelenati, una dozzina di dardi, una scatola di compresse vitaminiche. Molto poco per aiutarlo ad attraversare cento miglia di fango molle, boscaglia e foresta intricata, e niente con cui nutrirsi. Si chiese come sarebbero stati i ragni. Non aveva modo di accendere un fuoco. Avrebbe dovuto mangiarli crudi. Guardò lontano nella direzione della terraferma. Quel giorno Arman sarebbe partito per Maxus con seicento Otro. Quel giorno a che ora, mattina, pomeriggio, sera? Gardius guardò attorno a sé la giungla, in alto il cielo rosato, e sotto la melma. Arman, Mardien, gli Otro, Maxus, avevano tutti perduto importanza, come eventi visti dall’estremità sbagliata di un telescopio. E se Arman fosse partito quel giorno? Oggi, domani, ieri, era indifferente per un uomo ingoiato e scomparso. Cambiò posizione. I suoi movimenti disturbarono altre bolle, che si alzarono, vennero afferrate dalla brezza e portate lontano. Gardius fissò i globi, la ragnatela, e i suoi pensieri presero un nuovo corso. Improvvisamente si scosse, il tempo riprese significato. Quando sarebbe partito Arman da Fell? In fretta, si disse Gardius, doveva fare in fretta. Voleva vivere. Alcune ore più tardi diede un’ultima occhiata alla piccola radura. Da un lato erano ammucchiate le sterpaglie che aveva tagliato. Dall’altro c’era un cumulo di ragni morti, dozzine, di tutte le dimensioni, da creature color della sabbia grandi come la sua mano, agili sulle zampe elastiche, a un mostro obeso grande quasi come lui stesso. Quello l’aveva combattuto per venti minuti di sudore, usando il coltello e la lancia cauterizzante che aveva costruito con l’alimentatore e un lungo bastone. I due grandi occhi del ragno erano esattamente alla stessa distanza che c’era tra i due morsetti scoperti. Gardius l’aveva accecato quasi subito, ma nella creatura c’era una vitalità talmente inesorabile che era riuscita a individuare Gardius altrettanto bene senza occhi. Con un’ostinazione esasperante e carica d’odio il ragno gli aveva dato la caccia tutt’attorno alla radura, nella melma fumante. Indietreggiando Gardius gli aveva spezzato le zampe. Finalmente il ragno era barcollato in un mucchio di peli e zampe affusolate, e Gardius era crollato, ansimando, contro il tronco dell’albero delle sfere. Girò le spalle alla radura. Sopra la sua testa ondeggiava alto un gruppo di globi, centinaia e centinaia, ognuno assicurato con un filo di ragnatela a una corda centrale. Non c’era più nulla che potesse trattenerlo. Scivolò sul seggiolino che aveva tagliato da un pezzo di radice, si chinò, e tagliò la corda con il coltello. La fune di ormeggio si schiantò, e il pallone sollevò Gardius dal terreno fradicio, lontano dalla radura con il mucchio di ragni morti, su nella luce rossa di Ramus. La brezza lo afferrò e lo portò verso la terraferma. Andò alla deriva per tutto il giorno. Il vento che soffiava verso le pianure calde lo sospingeva senza sosta. Gardius calcolava che la sua velocità si aggirasse tra le dieci e le quindici miglia all’ora. Per percorrere cento miglia ci sarebbero volute otto, dieci ore, sarebbe stata notte. Troppo tardi. Si agitò nell’imbracatura, guardò avanti, nel bagliore rosato: nient’altro che la grande scodella di melma, foglie, rami. Ramus attraversò il cielo, scese ruotando sull’orizzonte, e finalmente Gardius vide il profilo viola delle montagne che scintillavano come lamé. Allora ritornò il pieno significato della sua esistenza, l’assoluta urgenza della sua rapidità. Ma il vento non soffiava più forte, anzi avvicinandosi la sera diminuiva, e Gardius veniva sospinto blandamente nell’aria serica. La notte scese prima che potesse vedere sotto di sé gli appezzamenti di terra coltivata. All’istante liberò una dozzina di globi e scese a terra. Dolorante, rabbioso, esultante, impaziente, si alzò sulla terraferma in uno dei campi spazzati dal vento e costellati di funghi immaturi. Il mazzo di bolle scomparve nella notte. Attraversò il campo al piccolo trotto, saltò un fossato, girò intorno a un campicello di granoturco, trovò una strada. In lontananza scintillava un gruppo di luci. Con i piedi gonfi, sofferente, affamato, assetato, Gardius entrò nel villaggio. Si fermò a una taverna con i muri fatti di terra grumosa. Un’insegna appesa sopra la strada diceva Al Gaio Caunbal, con sotto un pesce fosforescente verde e giallo. Gardius spinse la porta di assi e l’aprì; entrò in una stanza acre dell’odore di cibo e bevande. Si lasciò cadere su una sedia a un lungo tavolo, e una donna grassa e impassibile, al suo comando, gli portò stufato, pane, e birra gialla e spumosa. Si riempì la bocca, tracannò la birra, si guardò attorno per la stanza. «Dov’è il telefono?» chiese alla donna. La faccia scura della donna si raggrinzì in uno spasmo di innocente ilarità. Indicò sopra la sua testa. «Ti sta quasi tra i capelli.» Gardius si alzò, sfogliò la guida, compose il numero. La linea si collegò con un sibilo, una voce disse: «Spazioporto, parla Jeotsa.» «La nave di Arman è decollata oggi?» Ci fu una pausa, poi: «Sì, è decollata. È partita questo pomeriggio.» Le spalle di Gardius si incurvarono Era incapace di muoversi e di parlare. La voce all’altro capo disse: «Si dice che si sia solo spostata da qualche parte su Alam. Forse è ancora sul pianeta. A quanto ne so non c’è un campo lassù, e non so dove potrebbe atterrare. Gli Otro sembra che abbiano i carboni ardenti sotto i piedi.» «Dov’è la loro più grande pista d’atterraggio?» «Non ne hanno. Qualche volta le aeromobili atterrano a Solveg.» Gardius riappese. Chiamò la donna grassa «Dove posso trovare un velivolo?» Il volto della donna mostrò interesse. «Mio figlio ti porterà dove vuoi. Ma il denaro, dov’è il tuo denaro?» Gardius ringhiò. «Verrà pagato. Fallo venire subito qui davanti.» Si buttò in bocca dell’altro cibo, e bevve birra fino a quando udì il ronzio e il sibilo delle eliche fuori dalla finestra. Lasciò una moneta d’argento sul tavolo, corse all’esterno, saltò nel velivolo. «Sulle Terre Alte di Alam. A Solveg, se sai dove si trova.» L’altopiano mostrava scure colline ondulate e valli spruzzate di luci colorate come un immenso, irreale paese dei balocchi. Il pilota disse: «Quella è Solveg e quello è il campo. Vuoi che atterri?» «No, basta che voli basso.» Alla luce dell’umido satellite rosa il campo era deserto. Gardius disse: «Vai a nord, alla punta estrema delle Terre Alte.» Volarono per venti minuti. I villaggi correvano via sotto di loro. Poi fu la volta della foresta scura, e finalmente la brughiera dove sorgeva il villino dal tetto a punta di Arman. A cento iarde di distanza giganteggiava la nave nera. La luce balenava fioca dal portello d’entrata, e da uno o due oblò. Per il resto la nave era immersa nel buio. «Fammi scendere,» disse Gardius. «In silenzio.» Gli venne in mente che non aveva armi. Chiese al pilota: «Hai una pistola, un raggio termico, esplosore, ionico, qualunque cosa? Ti pagherò bene.» Il pilota lo guardò in tralice. «No. Perché hai bisogno di un’arma?» Poi, come pentendosi dell’audacia della domanda — perché Gardius, con i vestiti macchiati, la faccia smunta e contusa e gli occhi infuocati non invitava certo alla confidenza — distolse gli occhi. Gardius non gli diede risposta. Il velivolo si posò a terra. Gardius tirò fuori un biglietto dalla borsa. «È abbastanza?» Il pilota assentì con un borbottio, e subito si sollevò in aria. Gardius si fermò a guardare la nave nera, barcollando un poco. Avrebbe dovuto essere lucido, vigoroso, ma aveva la vista annebbiata e si sentiva le braccia e le gambe pesanti, idropiche. La fatica gli ottundeva il cervello, impedendogli di essere vigile e attento. Non aveva altra arma oltre al suo coltello, e Arman era sicuro di sé e arrogante sulla nave nera. Udì un rumore di passi bruschi e decisi sulla ghiaia. Ritirandosi nell’ombra vide due uomini avvicinarsi alla nave ed entrare. Dall’interno udì il clangore del metallo. Gardius si passò una mano sul viso. Tempo… aveva bisogno di tempo per riposare, per recuperare le sue facoltà. Ma non c’era tempo. Rinfrancò la mente, racimolò energia pensando alla sua risoluzione. Il coltello era sufficiente, avrebbe ucciso rapidamente quanto un raggio termico. E quando Arman fosse morto c’era il velivolo, che lo aspettava nel bosco, e la sua navicella al campo d’aviazione di Huamalpai, e poi lo spazio. Trasse un respiro profondo, distese i muscoli contratti delle spalle. Il primo luogo da perlustrare era il villino… Mentre si avvicinava la sua cautela svanì, e al suo posto insorse un’irragionevole rabbia. Perlustrare? No. Avrebbe aperto la porta, sarebbe entrato. Arman non avrebbe certo aspettato una simile visita. Percorse il vialetto, e il bizzarro tetto a punta lo sovrastò, e giunse infine all’altrettanto bizzarra porta a tre dischi. Tirò il chiavistello, e i tre dischi ruotarono all’interno, due a destra e uno a sinistra. La luce lo inondò. Un passo lo portò in mezzo alla stanza. Con gli occhi frugò gli angoli, dietro i lunghi mobili avvolgenti. La stanza era vuota. Aprì tutte le porte, ascoltò. Da una giungeva uno sgocciolio d’acqua, da un’altra un sussurro di vento, silenzio dalla terza. Gardius ritornò all’esterno, guardò la nave in fondo al campo. Arman doveva essere a bordo. Con Mardien? Con seicento Otro? Da solo? La nave era circondata da un alone di imminenza, come se già si stesse staccando dal suolo. Gardius si avvicinò nell’oscurità violacea. Poteva entrare nella nave, oppure aspettare vicino al portello. Come un fantasma salì la rampa, guardò all’interno. Davanti a lui c’era un corridoio con file di armadietti metallici. Un uomo con un grembiule verde chiaro stava spingendo involti di frutta a grappolo giù per uno scivolo. Gardius si sfilò un sandalo, gli si avvicinò e lo colpì alla testa. L’uomo si accasciò. Gardius gli tolse il grembiule, lo indossò sopra i vestiti macchiati, imbavagliò l’uomo con un fazzoletto, gli legò i polsi con la cintura, annodò assieme i lacci dei sandali e lo chiuse in un armadietto. Si guardò attorno cercando di orientarsi. Sopra di lui il soffitto si piegava in un arco convesso: il pavimento della parte centrale del meccanismo che occupava tutta la lunghezza della nave. Lungo il perimetro c’erano delle rampe. In fondo al corridoio c’erano le stive per i passeggeri, che comunicavano tramite le rampe con il corridoio dove si trovava. Da lì saliva la doppia scaletta verso la cupola dei comandi e gli alloggi dell’equipaggio. Gardius socchiuse appena una porta che dava in una delle stive. Alle sue orecchie giunse il rumore di una moltitudine di respiri. Chiuse la porta. Seicento Otro, drogati e stivati per il trasporto. Seicento Otro pazzi. Per un po’ camminò, poi corse lungo il corridoio, e con il coltello in mano si arrampicò sulla scaletta. La cupola di comando era deserta. Una luce azzurra sul pannello brillava vivida. Sotto c’era una scritta a lettere bianche: Pronto. Gardius, con la testa tesa in avanti come un animale in caccia, guardò ovunque. Dov’era Arman? E dov’era l’equipaggio? Fece scorrere il pannello che dava sulla passerella diretta al nucleo centrale. Allora udì delle voci, vide una mezza dozzina di uomini intorno a una turbina, mentre uno di essi stringeva un perno con una chiave. Riparazioni. Dov’era Arman? Nel capannello di figure scure? Non poteva esserne sicuro. Ce n’era uno, un uomo grande e grosso, che forse… Arman salì la scaletta dietro di lui. Gardius udì il rumore felpato dei passi, si girò di scatto con il coltello che luccicava. Arman aveva un’arma spianata. Sorrideva, un sorriso esagerato che sembrava più una smorfia. I denti splendevano come cunei di ghiaccio. «Stai fermo, amico, stai fermo.» Abbassò la testa, lo guardò meglio. «Tu! Ancora tu?» La sua espressione cambiò. «Ero sicuro di averti ucciso.» Gardius ondeggiò appena, spostando gli occhi dall’arma alla faccia di Arman. La morte… forse era questo che era andato a cercare, precipitandosi lì alla cieca. La morte l’avrebbe sollevato da tutti i suoi problemi. Era un pensiero debole, un pensiero di resa. Fece un piccolo passo avanti. «Stai fermo,» disse Arman. «Dimmi, quel ragazzo non mi ha obbedito?» «Sì,» disse Gardius. «Ti ha obbedito.» «E tu ti sei rifiutato di cadere, e sei tornato in volo come un antrocoro?» «Sono tornato in volo.» «Butta quel coltello!» disse Arman. Gardius chinò lentamente la testa, piegò le spalle in una gobba. «Muoviti!» latrò Arman. «O ti stacco la mano con una fiammata!» Gardius lasciò cadere il coltello. «So tutto di te,» disse Arman. «Speravi di portarmi su Maxus… vivo. Per la tortura.» Gardius non disse nulla. «La notte scorsa,» disse Arman, «ho permesso al mio temperamento di interferire con l’intelletto. Un uomo è una proprietà di valore. Troppo di valore per gettarlo nella palude. Un uomo come te si venderà per duemila milreis ad Alambar. Perciò…» Alzò la voce. «Kyle!» Ci fu uno scalpiccio di piedi lungo l’inferriata della passerella. Un uomo basso e tarchiato in tuta si affacciò nella stanza. Aveva un volto scuro, percorso da rughe, e occhi come prugne secche. Chiese: «Che cosa desideri?» «Vaporizza quest’uomo.» L’uomo tarchiato, senza mutare espressione, si girò verso uno stipetto e ritornò con un ipo vaporizzatore. Lo applicò al collo di Gardius, e subito ci fu il sibilo acuto della droga vaporizzata. Arman disse: «Tra un minuto sarai addormentato, e ti risveglierai ad Alambar. Un uomo più vendicativo di me potrebbe punirti, ma il ricavato dal tuo corpo sarà utile. Ogni ana sarà utile.» Gardius sentì una lenta marea salirgli alla testa come una vertigine. Gli si piegarono le ginocchia, le braccia si rilasciarono. Vide Arman che sorrideva leggermente fare un cenno al piccolo uomo scimmiesco perché lo prendesse. Mentre i suoi occhi si appannavano vide una donna salire la scaletta verso la cabina. La nebbia invase il suo campo visivo. Avrebbe potuto essere Mardien. Sentì delle dita sulla faccia, un ronzio nelle orecchie, una vibrazione al cuoio capelluto. Aprì gli occhi. Un vecchio con un rasoio elettrico gli stava tagliando i capelli. Gardius si drizzò a sedere di scatto. Era in una grande stanza piastrellata di bianco, su una lastra di ardesia grigia che sentiva fredda e umida sotto di sé. Era nudo. La sensazione di umido e la vista di una canna sul pavimento gli fecero capire che era stato lavato. Attorno a lui su altre lastre giacevano circa cinquanta uomini e donne, tutti nudi, tutti bagnati e luccicanti. Altri due inservienti stavano lavorando con i rasoi elettrici. Sentì una costrizione al polso. Abbassò lo sguardo. Era ammanettato. L’inserviente arrivò con una chiave e gli tolse le manette. «Qualche volta i nuovi arrivati sono nervosi — rabbiosi, capisci — quando si svegliano,» disse in tono quasi di scusa. Gardius si rilassò sulla lastra. «Suppongo di essere ad Alambar.» «Corretto,» disse l’inserviente. «Al Distributore.» «Corretto.» Gardius osservò rigidamente la stanza. «E questi altri erano nello stesso mio carico?» L’inserviente annuì. «Seicento in un colpo. Il carico di Arman.» «Da quanto tempo sono qui?» «Siete stati scaricati questa mattina.» Gardius si alzò in piedi, barcollò un poco. Gambe e braccia erano pallide; i tessuti sembravano flaccidi, deteriorati. L’inserviente disse: «Un giorno o due di buon cibo ti faranno ritornare come nuovo.» «Dove sono i miei vestiti,» borbottò Gardius. «Devo andarmene da qui.» Poi con rabbia: «Dove sono i miei vestiti?» L’inserviente tirò su col naso. «Stai buono, amico, buono. Gridare non serve mai. Adesso sei marcato con un circuito penale, e ti strineranno la pelle con qualunque scusa le prime settimane. Si divertono a vederti lottare e ruggire. È l’unico svago che hanno.» «Voglio vedere l’Alto Ricognitore,» borbottò Gardius. «A suo tempo, a suo tempo. Dillo a uno dei Sommi. Io non sono altro che uno schiavo come te.» Gardius ricadde sulla lastra. Il tempo passò. Altri si mossero spasmodicamente, si sedettero. Gardius guardò una faccia dopo l’altra. Se gli Otro fossero stati pazzi ci sarebbero state bizze, attacchi di isterismo. Ma si mantenevano in perfetto ordine e serietà. Erano uomini e donne che avevano oltrepassato il primo ardore della gioventù. Gli uomini non erano né muscolosi né appesantiti; le donne non erano né formose né bellissime. Quegli uomini e quelle donne non sarebbero stati assegnati né ai lavori pesanti né alle camere da letto. Potevano benissimo venire addestrati per attività tecniche. Suonò un campanello, una porta si aprì, e una guardia in uniforme nera entrò nella stanza. Aveva in mano un frustino leggero e flessibile che agitava con disinvoltura. Gardius, incontrando i suoi occhi, sentì la rabbia ribollirgli dentro. La guardia disse: «Titus, questo è un gruppo beneducato. Neanche un urlo. Bene, quelli di voi che sono vivi, in piedi adesso. Mettetevi in fila e seguitemi. Passerete dallo spaccio e ognuno di voi prenderà un completo di biancheria, un camiciotto, un paio di sandali, niente di più, niente di meno. Svelti, adesso, cerchiamo di essere un po’ vivaci e di partire con il piede giusto.» E fendette l’aria con il frustino. Vennero fatti sfilare davanti a un bancone, dove ricevettero i vestiti, e davanti a una scrivania dove venne loro appeso al collo un distintivo. Poi gli uomini vennero diretti attraverso una porta e le donne attraverso un’altra. Gardius si trovò un lungo salone bene illuminato, con la facciata a vetrine. Era una stanza familiare, come la stanza in cui aveva visto Mardien per la prima volta. All’incirca altri cinquanta uomini erano nel salone; alcuni camminavano a capo chino, imbronciati, altri fissavano il vetro senza nessuna espressione. Pochi parlavano a voce bassa e cupa. Un ragazzo tirava su col naso tristemente. In fondo alla sala c’era uno schiavo corpulento coi capelli rossi e una divisa nera e verde, un piantone che evidentemente godeva della propria posizione. Gardius gli si avvicinò, e incontrò un paio d’occhi freddi e assenti come quelli di un ranocchio. Gardius disse: «Come posso usare un telefono?» «Non puoi. I giorni in cui potevi telefonare sono finiti.» «Voglio chiamare l’Alto Ricognitore. È un mio amico.» Il piantone trovò l’osservazione divertente. «E io sono lo zio del Patriarca.» Con voce misurata, Gardius disse: «Chiama il responsabile.» «Io sono responsabile.» «Allora se c’è anche un minimo ritardo, la responsabilità è tua.» La guardia sbatté le palpebre. Dopotutto, erano accadute cose ancora più strane. «Solo un minuto.» Andò alla porta, chiamò attraverso uno schermo, e un minuto dopo il Sommo caporale apparve all’esterno. Il piantone indicò Gardius con un movimento del pollice. «Quell’uomo dice che è amico dell’Alto Ricognitore. Vuole telefonargli.» Il caporale sollevò le nere sopracciglia, sorrise indulgente. «Qualcuno pretende di essere il Messia in persona.» Gardius disse pazientemente: «Voglio parlare con l’Alto Ricognitore al telefono o al teleschermo. Vi dico che lavoravo per lui. Sono qui per sbaglio. Ve la passerete dura se lo ostacolate.» Il sorriso svanì dalla faccia magra e sarcastica. «Andiamo, allora. Vedremo. Te ne pentirai se stai solo creando fastidi.» Portò Gardius in un ufficio centrale, dove Gardius raccontò la sua storia a un luogotenente in un’uniforme attillata nera e oro. Il luogotenente indicò un teleschermo. «È lì. Usalo. Titus lo sa, io mi faccio da parte dove cammina l’Alto Ricognitore.» Gardius guardò il quadrante, premette il bottone che diceva «Ufficio Centrale». Sullo schermo apparve una stella a sette punte, e una voce disse: «Connessione.» «L’Alto Ricognitore,» disse Gardius. Apparve un volto aggrottato, una faccia con folte sopracciglia nere, una zazzera ispida di capelli, un naso a becco. «Ebbene?» «Voglio parlare con l’Alto Ricognitore,» disse Gardius. «E tu chi sei?» I suoi occhi passarono in rassegna la faccia e l’abbigliamento di Gardius. «Sei uno schiavo. Dov’è il tuo rispetto?» «Sono Jaime Gardius. Di’ all’Alto Ricognitore che Jaime Gardius vuole parlargli.» Grugnendo l’uomo si girò, parlò in una griglia, parlò ancora. Si voltò verso lo schermo. «Dice che non ti conosce.» Dietro a Gardius il luogotenente e il caporale si mossero irrequieti. Disperato, Gardius tentò ancora. «Digli che ci siamo visti per Arman, un mese fa. Che mi ha mandato a inseguirlo.» L’uomo si girò di nuovo, parlò nella griglia, annuì, parlò ancora. La sua faccia scomparve. Gardius si trovò a guardare nella faccia stretta dell’Alto Ricognitore. «Ah, Gardius,» disse l’Alto Ricognitore, e rise di una risata esile e allegra. Gardius stette cupamente in silenzio, e arrossì. L’Alto Ricognitore disse infine: «Tutto ciò è ridicolo e triste. Ti ho mandato perché mi riportassi Arman, e invece Arman ti vende al Distributore come schiavo. Non è una farsa?» «Una farsa davvero,» convenne Gardius. «Comunque, se mi tiri fuori da questo recinto, sarò felice di riprovarci.» L’Alto Ricognitore scosse la testa. «Ah, mio caro amico, temo di essere impotente. Ormai sei fuori dalle mie mani. Il Patriarca sarebbe indignato se mi immischiassi con le forniture di manodopera. Potevo trattare con te quando avevi un permesso di visitatore. Allora eri inviolabile. «Ti ho chiesto che mi portassi Arman. Invece è lui che mi ha portato te. Non ti voglio male, ma non ho per te nemmeno gratitudine. No, Gardius, per Maxus vali più come operaio che come rapitore. Servi bene, comportati bene, e fai che non senta più parlare di te.» Lo schermo si spense. Gardius rimase a fissarlo, con la bocca ancora piena di parole. Dietro a lui il luogotenente disse con voce pratica: «Riportatelo nel salone.» Gardius si abituò alle costanti perizie effettuate nel salone. Sovrintendenti al personale con occhi rigorosi valutavano la sua resistenza, la forza, la flessibilità. Signori alla ricerca di azzimati lacchè consideravano il suo equilibrio e il portamento. Le signore delle grandi case di città adorne di colonne, che cercavano valletti e servitori, studiavano il suo fisico e i suoi lineamenti. Una faccia dal naso ossuto e le labbra sottili attirò la sua attenzione. Guardandolo, il proprietario della faccia corrugò perplesso la fronte, poi si girò eccitato verso un compagno e lo indicò. Gardius lo riconobbe. «Lord Spangle,» mormorò fra sé. «Sono nei guai.» L’asta era quello stesso pomeriggio. Ad uno ad uno gli occupanti del salone vennero chiamati fuori nell’arena. Il turno di Gardius venne quasi subito. Uscì e rimase immobile a guardare duramente verso la folla. Il banditore gli sussurrò: «Cerca di assumere un atteggiamento piacevole, ragazzo, ci sono delle signore. Se non riesci ad accaparrarti una signora, sono le miniere o i metalli pesanti, è lì che hanno bisogno di uomini rudi come te. Quindi sii amabile e sorridi alle donne che fanno delle offerte, e forse ti guadagnerai un morbido letto.» Alzò la voce. «Un uomo da Exar, avvenente e con muscoli sviluppati. Guardate il torace eccellente, osservate il collo diritto, i piedi forti. Un uomo valido in ogni campo, perciò, signore e signori, fatemi sentire le vostre offerte.» «Ottocento milreis.» «Ottocento e cinquanta»… «Novecento e cinquanta…» Dicevano le voci impassibili e caute degli addetti agli impianti industriali. «Mille milreis,» disse una voce roca, con un tono giulivo. Gardius la riconobbe, era quella di Lord Spangle. Suo malgrado Gardius si guardò attorno, e incrociò gli occhi di Spangle. Spangle stava sussurrando da dietro la mano nell’orecchio di un uomo con un sontuoso farsetto giallo e verde, nel quale Gardius riconobbe Lord Jonas. Con voce esitante, una donna disse: «Mille e cento.» «Mille e cento e cinquanta,» disse uno dei sovrintendenti. Gli altri tacquero, e si rilassarono ai loro posti. «Mille e duecento,» disse Spangle con rapidità e sicurezza. Il banditore disse: «Andiamo, signore, signori, un po’ più di brio. Su la voce, su la voce! Questo è un uomo di valore. È intelligente, ha studiato al Collegio Tecnico di Exar. È un ingegnere qualificato, sagace e affidabile. Parlate, adesso, parlate. Chi dice mille e cinquecento?» Uno dei sovrintendenti fece per muoversi, ma una donna grossa e ossuta levò un dito. «Mille e trecento.» E il sovrintendente rimase calmo al suo posto. Con voce suadente Spangle disse: «Mille e quattrocento.» «Mille quattrocento e cinquanta,» disse la donna con voce decisa. Jonas rise a un commento di Spangle e disse: «Mille e cinquecento.» «Mille e seicento,» disse Spangle guardando Jonas con aria di rimprovero. La donna ossuta tirò su col naso e distolse lo sguardo. «Mille e seicento? Mille e seicento?» abbaiò il banditore. «Ho sentito mille e settecento?» «Mille e settecento,» disse una voce acuta vicino alla parete. «Mille e ottocento,» disse una donna dal fondo. «Mille e novecento,» disse Spangle acidamente. «Duemila,» disse la donna. Spangle, un poco a disagio, mormorò qualcosa a Jonas, poi si strinse nelle spalle. «Duemila e cento.» «Duemila e duecento,» ancora la donna. «Un’offerta di duemila e duecento,» gridò il banditore. «Un uomo bello e valido, un buon lavoratore, lo garantisco. Duemila e trecento? Chi dice duemila e trecento?» Silenzio. Spangle aprì a metà la bocca per parlare, poi la richiuse fissando l’impassibile Gardius con un astio da serpente. «Venduto allora!» gridò il banditore. «Venduto alla signora per duemila e duecento milreis.» Si girò verso Gardius. «Scendi, e vai alla scrivania per la registrazione.» Gardius attraversò l’arena senza una parola, e si avvicinò alla donna che era già al tavolo. La guardò, e i suoi passi vacillarono. «Mardien!» Mardien sorrise, e Gardius vide che aveva gli occhi umidi. «Era il meno che potessi fare per te, Jaime.» Fuori sotto il cielo grigio del tardo pomeriggio, fuori sullo svincolo, oltre i magazzini di mattoni neri, bui e sudaticci. Attraversarono un tunnel, e, quando uscirono di nuovo nella luce, la nebbia umida accarezzò loro le guance. Oltrepassarono le eleganti case di città, percorsero un altro tunnel freddo e bagnato, e si ritrovarono nel frenetico cuore di Alambar. Gardius, imbarazzato per non avere mai appreso l’arte della conversazione aggraziata, disse: «Suppongo di doverti ringraziare.» Poi fece una pausa, a disagio. Mardien girò la testa. «Ebbene?» Gardius rise. «Grazie. Anche se non capisco perché tu… mi hai salvato. Un paio di settimane fa eri felice di vedermi morto. Mi hai sparato tu stessa.» «Questo è stato due… o meglio, tre settimane fa. Da allora ho pensato molto. E credo, in queste tre settimane, di essermi lasciata alle spalle la giovinezza.» «Lì c’è una taverna,» disse Gardius. «Sediamoci.» Era un edificio piatto di mattoni smaltati, con una porta quadrata di legno dipinta di rosso ruggine. L’interno era caldo e tranquillo. La luce filtrava dalle finestre di vetro decorato, e cadeva gradevolmente sui tavoli dove si sedettero. Vennero loro serviti cracker e pesci salati, e poco dopo una grande bottiglia panciuta di vino caldo, che nei tazzoni splendeva contemporaneamente di color verde acqua e rosa. Guardando Mardien dall’altra parte del tavolo, Gardius si rilassò del tutto. Mardien si sporse verso di lui, gli prese una mano con entrambe le sue. «Jaime… sono confusa.» «Devi avere raggiunto qualche conclusione, o non saresti venuta a prendermi.» Mardien si morsicò un labbro, esitante. «Non lo so. Ci sono tante incertezze, tante opinioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.» «La certezza è dentro di te. Si sta solo facendo riconoscere.» Con un sorriso mesto Mardien gli chiese: «E tu come fai a esserne così sicuro?» «Perché sei qui con me. Invece di essere con quel tuo… invece di essere con Arman.» L’ultima parte della frase era così evidentemente intrisa di amarezza che Mardien ritirò la mano. Poi disse: «Jaime, io credo che tu sia davvero geloso. Ti ho accusato una volta, ma non lo credevo. Lo sei davvero?» «No. Sarei un presuntuoso.» «Ma lo sei, vero?» «No. Nella mia vita non c’è posto per… per le donne.» «Intendi dire una donna come me, giusto?» «Suppongo di sì.» «Jaime, io non sono, non sono mai stata, non ho mai voluto essere altro per Arman se non una seguace, un’Armanita.» Distolse lo sguardo, arrossì un poco. «Se puoi tollerare un entusiasmo perfettamente normale e la venerazione per un eroe. Avrebbe potuto avermi se fosse stato meno ambiguo. «Se mi avesse presa, con disinvoltura, come un utensile o un capo di abbigliamento, io mi sarei concessa felicemente, fiera di servire un dio. Ma ha tentato di corteggiarmi come un essere umano al mio stesso livello, e io ne sono stata turbata. L’ho respinto. Ho scoperto una cosa, Jaime. Arman è un debole.» Gardius bevve il vino, insolitamente a proprio agio. «Ha bisogno di uccidere.» Più vagamente, Mardien disse: «Il suo corpo esige rispetto. Ed è svelto a usare questo rispetto. È abile con la lingua, ma non ha forza interiore, Jaime. Quando stavate lottando, tu eri battuto. Eri quasi morto. Lo vedevo. Ma rifiutavi di smettere. Arman ne ha avuto paura, e si è arreso. Quando è caduto a terra, è rimasto sdraiato lì passivamente. È una perversità da debole, ch… mi ha disgustato, Jaime.» «Dov’è adesso?» Mardien lo guardò seriamente. «Jaime, quando ti ho aiutato non ho posto condizioni. Vorrei porne una adesso.» «Quale?» «Che tu non faccia nulla senza prima parlarne con me.» Si era sporta sul tavolo, di nuovo gli aveva preso una mano tra le sue. Gardius gliele coprì con l’altra mano, strinse. Mardien rispose alla sua stretta, i loro occhi si incontrarono. Gardius sospirò. «Non sono destinato a condurre una vita tranquilla, Mardien.» «Nemmeno io, Jaime. Saremo felici insieme.» Gardius disse, con voce sommessa: «Non mi riposerò fino a quando ci saranno schiavi e mercanti di schiavi. Ne ho sofferto troppo.» «Nemmeno io, Jaime.» Si riappoggiò allo schienale, si lasciò scivolare fino ad avere le spalle e i fianchi sulla stessa diagonale, con le gambe tese in avanti. «Pensavo che Arman promettesse di porre fine alle cattiverie. Ma adesso ne dubito, Jaime. Arman potrebbe essere stato fuorviato.» Gardius sbuffò. «Fuorviato, è una parola debole per un assassino, uno sfruttatore, un mercante di schiavi, uno stregone.» Mardien rabbrividì. «Lo so, Jaime. Odio persino pensarci. Perché adesso seicento Otro sono stati tolti alle loro case e condotti in schiavitù.» «Ma perché?» esclamò Gardius. «Perché? Non vedo nessuna logica. Voi Otro siete davvero pazzi?» Mardien scosse la testa. «Ovviamente no. La gente dice che siamo pazzi perché siamo individualisti.» «Siete uno strano popolo, sono d’accordo.» «Sì, lo siamo, ma non nel modo che credi tu. La nostra stravaganza superficiale, i nostri vestiti, le case, le affettazioni, sono soltanto un riflesso della nostra diversità interiore, e questo è il segreto della nostra razza.» Gardius, senza parole, bevve ancora un po’ di vino. «La nostra vittoria sulla morte.» Gardius la osservava in silenzio. «Jaime, io ti amo. Unisco la mia vita alla tua. Già una volta sono stata disposta a fare di te uno di noi. Ti amavo allora, ma non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa. Me ne sono accorta e mi ha sorpreso.» «Non posso diventare un Otro senza aiuto?» «Oh no. All’inizio ce n’era solo uno, Sagel Domino. La differenza era nel suo cervello. Era fortemente telepatico, sapeva leggere con facilità nella mente, e pensò: «Perché dovrei morire? Se appena prima di morire posso raggiungere un rapporto, un’identità di coscienza con qualcun altro, questo mio corpo se ne andrà, ma la mia coscienza supererà il divario, sopravviverà, e io vivrò per sempre.» «Si è messo in contatto con il suo migliore amico, ha stabilito un rapporto. E poi scoprirono che il rapporto aveva stimolato il cervello dell’amico, e che anche lui era un Otro. Non era telepatico quanto lui, ma poteva creare il rapporto. Rese Otro alcuni suoi amici, e le loro mogli, e così fece Sagel Domino. «E adesso siamo in diversi milioni, qualcuno telepatico, qualcuno no. Ma nessuno di noi teme la morte. Quando siamo in pericolo costruiamo un rapporto con qualcuno che ci ama, e la nostra coscienza supera il divario, come un uomo che passa da una nave che affonda a una integra.» Gardius fece una smorfia. «Sembra che ci sia poca privacy tra di voi.» Mardien scosse la testa con foga. I setosi capelli biondi si aprirono a ventaglio. «Sì, invece! La nuova anima non avanza pretese. Non c’è conflitto di volontà. La vecchia coscienza ottiene una continua consapevolezza senza interruzione. I vecchi ricordi, poiché non sono saldamente incanalati nei gangli, in breve tempo vanno perduti, ed esiste solo la sensazione di continuità. «Per la persona che sta per morire è come posare un libro interessante e prenderne un altro. E per la persona che continua a vivere — poiché intratteniamo un rapporto solo con chi amiamo — è la felicità di essere d’aiuto, felicità di sostenere la vecchia personalità.» Gardius la guardò incuriosito. «E quante persone ci sono dentro di te?» Mardien trasalì. «Jaime… tu non capisci! Io sono io. Io sono me stessa! Anche se quaranta persone avessero superato la morte in me io sarei sempre me stessa. Infatti, come puoi renderti conto, noi compensiamo con atteggiamenti eccessivamente singolari. Siamo consapevoli del bisogno di individualismo, e della necessità di rassicurare costantemente tale idealismo. Forse esageriamo. «Altre razze raggiungono una pace malinconica rendendosi simili per quanto possibile, identificandosi esteriormente con la razza. La nostra identificazione è interiore. I simboli esteriori di perseveranza sono superflui. Non ci sono tombe sulle Terre Alte di Alam, non c’è accumulo di ricchezza. «Mia madre amava il suo giardino. Aveva molti fiori. È morta e tuttavia è vissuta in me. Io non ho alcuna passione per fiori o piante. Mi preoccupo della gente e del futuro e delle piaghe sociali. Così vedi che il legame è solo di consapevolezza. È come se tu volassi sulla regione, e raccogliessi un passeggero; il passeggero si gode il viaggio con te, ma a poco a poco diventa parte del velivolo.» «Che cosa hai provato quando tua madre è entrata in te?» «Solo una grande gioia per poterle essere d’aiuto,» disse Mardien seriamente. «Come se l’avessi salvata dall’annegamento. Ho sentito la sua presenza per alcune settimane, come se fosse nella stanza con me, era molto piacevole. Poi gradatamente si è confusa completamente in me.» «E Arman,» chiese Gardius, «anche lui è un Otro? Vivrà dopo la sua morte?» Mardien arrossì, annuì con espressione vergognosa. «Sua madre era una Otro. Una dei pochi Otro che i Sommi abbiano mai reso schiavi. Di solito noi Otro ci uccidiamo e sfuggiamo così alla schiavitù.» «Ma con chi è in rapporto Arman? Con te?» Mardien si fece ancora più rossa. «Gliel’ho impedito una settimana fa. Non so in che altro modo sia protetto.» «Spiegami.» disse Gardius. «Perché seicento Otro sono venuti su Maxus come schiavi?» Mardien rimase un momento in silenzio. Poi disse: «Se non altro, Arman ha risvegliato in noi un senso di responsabilità. Per centinaia di anni siamo stati egoisti, isolati, gelosi del nostro segreto.» Incontrò gli occhi di Gardius. «Quei seicento, Jaime, sono i nostri telepati più sviluppati. Sono le nostre spie. Si inseriranno nelle industrie critiche, e attraverso la telepatia comunicheranno a Fell le tecnologie più segrete.» «E poi?» Mardien annuì con un sorriso triste. «E poi… avremmo due stati schiavisti. Lo capisco ora. E lo capiranno anche altri. Ma… possiamo fermarci adesso? La crociata è partita. Seicento di noi sono qui su Maxus. Come possiamo sacrificarli… per niente?» «La tua enfasi è fuori posto,» disse duramente Gardius. «Cosa vuoi dire?» gli chiese Mardien sbigottita. «Ti preoccupi per seicento Otro. Pensa alle centinaia e centinaia di milioni di schiavi che sono già su Maxus.» Lo sguardo di Mardien vacillò, si abbassò sul tavolo. «Non ho nulla da dire. Arman è il capo. Non appena le stive della nave saranno piene, tornerà indietro per un altro carico.» Gardius si sporse in avanti. «Ma deve esserci un centro di autorità tra gli Otro.» «Oh, sì, gli Anziani, i consigli di territorio. Ma non hanno nessuna particolare autorità. Arman ha organizzato una crociata privata. Gli Armaniti sono gli elementi attivi.» Gardius tamburellò sul tavolo con le dita. «C’è qualcosa che mi sfugge… qualcosa, da qualche parte. Mi domando se il tuo popolo si rende conto di quanto a lungo dovrà rimanere su Maxus, di quanto bene i Sommi custodiscano i loro segreti, di quanti di loro verranno uccisi.» «Questo non ha importanza,» gli ricordò Mardien. «Se tutti gli schiavi fossero Otro,» disse Gardius, «se nessuno degli schiavi temesse la morte, non ci sarebbe più uno stato di schiavi.» Guardò Mardien. «Mi hai sentito? Se i tuoi seicento Otro indottrinassero gli altri schiavi non ci sarebbe più disciplina E di conseguenza il sistema crollerebbe.» «Se solo il venti percento dei nuovi Otro fosse telepatico…» «Organizzazione,» disse Gardius. «Ci sarebbe l’organizzazione.» «Dobbiamo ritornare su Fell, dai telepati che possono mettersi in comunicazione con i seicento.» «Due cose,» disse Gardius. «Prima Arman. È un ostacolo. Deve essere rimosso. E poi… mio fratello e mia sorella.» La nave nera ingombrava silenziosa il campo, circondata da un’attività intensa. Uomini ripulivano i tubi, strisciavano sulla superficie per pulire la polvere di meteora dai finestrini. Dal lungo magazzino nero su un lato del campo un argano sosteneva una cinghia interminabile che trasportava una lenta fila di scatole fino a un portello sul fianco della nave. Carri carichi delle casse più pesanti si fermavano su una piattaforma di gravitone sotto il portello di carico e le casse venivano lanciate all’interno e stivate. Nuvole frastagliate incombevano su Alambar e un vento freddo sospingeva rifiuti lungo il campo. Arman si stava avvicinando alla nave, e il mantello gli batteva contro le gambe. All’interno faceva più caldo. Percorse il corridoio, salì la scaletta fino alla cupola di comando, guardò il campo, verso il tetto verde oliva del palazzo del Patriarca, che si levava enorme in lontananza. Sollevò le mani, sentì gonfiarsi i muscoli del torace, respirò a fondo. Pace, rilassamento, nessuna preoccupazione, nessuna decisione da prendere. Gli schiavi erano al sicuro fuori dalla sua responsabilità, il carico stava per essere ultimato. Gli si prospettavano tre settimane di dolce far niente. Pensò a Mardien. Poiché non aveva in mente niente di serio, era tempo di considerare i suoi piaceri. L’aveva respinto. Ma no, non poteva essere. Lui era Arman. Avrebbe dovuto essere fiera di riceverlo. Se l’aveva respinto, l’aveva respinto per troppo tempo. Guardò la porta della sua cabina. Dall’interno giungevano rumori di qualcuno che si muoveva. Col sangue che gli pulsava nelle orecchie, si diresse alla porta, bussò. «Sì?» ci fu la risposta. La sua voce era ansiosa, nervosa. Ah, conosceva il suo desiderio. Provò ad aprire la porta. Era chiusa a chiave. «Mardien,» disse Arman con voce rauca. «Apri la porta.» «No, Arman.» «Apri! Io ti voglio, Mardien. Ti prenderò come dovrebbe fare un dio.» La sentì alzarsi in piedi. Scosse rumorosamente la maniglia della porta. «Fammi entrare, o aprirò la porta col fuoco.» «Benissimo,» disse Mardien con una voce strana. La porta si aprì. Arman entrò nella stanza. C’era un uomo, con la schiena rivolta alla luce. Furioso Arman si girò verso Mardien. «Donnaccia… sgualdrina…» Guardò l’uomo che era avanzato di un passo. Arman sbatté le palpebre, curvò le spalle. La mano cadde sulla borsa che portava alla cintura. Gardius sparò per primo. «Assassinio,» disse il poliziotto, sollevando gli occhi dal cadavere verso Gardius. «Legittima difesa,» disse Mardien. «È stata legittima difesa. Io l’ho visto.» «Il morto è Arman,» disse Gardius. «Me ne rendo conto,» disse il poliziotto. «Qual è il tuo stato?» «Schiavo,» disse Gardius seccamente. «Perché, no, Gardius…» protestò Mardien. Il poliziotto balzò in piedi. «Questo è un crimine terribile!» «Andiamo a trovare l’Alto Ricognitore,» suggerì Gardius, «e vediamo qual è la sua opinione.» «L’Alto Ricognitore? Non è necessario disturbarlo per cose come questa.» «Vorrà sapere di Arman. Sarà interessato.» L’Alto Ricognitore stava misurando a passi nervosi il pavimento della stanza quando finalmente furono ammessi alla sua presenza. Indossava un lungo mantello di seta nera marezzata, che dava riflessi azzurri dov’era colpita dalla luce e frusciava ritmicamente in sintonia coi suoi passi. Il volto era arrossato, eccitato; sembrava assorto in un problema personale, e prestò poca attenzione ai visitatori. Mardien e Gardius stavano uno accanto all’altra, e il poliziotto era a un passo di distanza in un sottile atteggiamento di accusa. L’Alto Ricognitore si fermò di colpo di fronte ai tre. Le sopracciglia si alzarono subitaneamente alla vista di Gardius. Mormorò: «Gardius? Sono stupefatto.» «Ha commesso un assassinio, tua Signoria,» disse il poliziotto. «Assassinio? È molto grave. Chi? Quando? Dove? Come?» «Il mercante di schiavi Arman, signore. Circa un’ora fa con una pistola a ioni.» «Ah!» L’Alto ricognitore schioccò le dita. «Questo è interessante. Assassinio, dici?» «Sì, signore. Nella cupola di comando della nave dello stesso Arman.» «È un faccenda sporca!» L’Alto Ricognitore scosse la testa, poi fece un cenno con la mano. «Puoi andare. Disponi pure del corpo.» Il poliziotto partì; l’Alto Ricognitore si lasciò cadere su una sedia. «Mio caro Gardius, temo che il tuo entusiasmo ti abbia ficcato nei guai.» «Non ti capisco.» L’Alto Ricognitore, con le mani espressivamente rivolte in fuori, disse: «È chiarissimo! L’assassinio è un grave crimine qui su Maxus. Specialmente l’assassinio di un Sommo da parte di uno schiavo. Tu sei uno schiavo, vero? Lo eri una settimana fa, se mi hai informato correttamente.» «A parte le mie condizioni, Arman non era un Sommo.» «Era in visita a Maxus con un permesso. Perciò gli vengono accordati i privilegi di un Sommo. Così dev’essere, e noi non facciamo eccezioni, altrimenti il nostro commercio con i pianeti stranieri si ridurrebbe a niente.» «È stata legittima difesa, tua signoria,» disse Mardien. «Niente scuse,» dichiarò l’Alto Ricognitore. «Non ci sono giustificazioni. Uno schiavo non può valutare così altamente la sua vita. Potete pensare che sia legalista, ma queste sono regole sulle quali basiamo la nostra civiltà.» «Ma,» sottolineò indignato Gardius, «mi hai assunto tu per uccidere Arman.» «Le circostanze erano differenti. Un evento che ha luogo sul pianeta Fell io posso approvarlo o disapprovarlo su basi personali. Qui, su Maxus, devo far rispettare la legge.» Disperatamente, Mardien disse: «Tu non conosci le circostanze, Signore! Io ho comprato Gardius al Distributore. Era nella mia cabina. Arman ha chiesto che lo facessi entrare. Io gli ho detto di andarsene, e lui ha minacciato di bruciare la porta. Lui… lui aveva in mente di usarmi violenza. Ho aperto la porta e quando ha visto Jaime ha subito estratto la pistola per sparargli. Ma Jaime ha sparato per primo, in difesa mia e sua. Ha agito come mia guardia, come mio protettore.» L’Alto Ricognitore si massaggiò pensieroso il mento. «Vi sottomettereste all’esame ipnotico sulla base di questa testimonianza?» «Sì, certo. È la verità.» L’Alto Ricognitore sospirò. «Molto bene. Con un imbroglio così contestabile non forzeremo le accuse. Non c’erano altri testimoni, presumo.» «No.» «Bene, allora.» Si mise alla scrivania. «Ma il Patriarca insiste su un’applicazione severa. Se viene a sapere di questa… questa uccisione, temo il peggio. Se fossi in voi lascerei il pianeta quanto prima possibile.» Gardius lo guardò stringendo improvvisamente gli occhi. Le accuse, la stretta osservanza della legge, erano forse espedienti per eludere altri impegni? Sarebbe stato pericoloso fare ulteriori pressioni, pensò. L’Alto Ricognitore era chiaramente di umore nervoso. «Mio Signore,» disse Gardius gentilmente, «ad ogni modo, al di là del metodo, del motivo, del tempo e del luogo, ho adempiuto il mio… il nostro scopo. Ho ucciso Arman. Ora vuoi restituirmi mio fratello e mia sorella come promesso?» L’Alto Ricognitore sollevò lentamente lo sguardo. «Mio caro Gardius, ho sentito bene? Proprio adesso, sulla parola infondata di questa ragazza, ho assunto la responsabilità di rilasciarti… e tu mi fai delle richieste! Sei sorprendentemente audace!» Mardien tirò Gardius per un braccio. «Vieni, Jaime.» «Devo capire allora,» chiese Gardius, «che non mi renderai mio fratello e mia sorella?» L’Alto Ricognitore abbassò le sopracciglia in una linea diritta. «Naturalmente no. Sono felicemente integrati nella loro nuova vita. Tuo fratello fa funzionare un congegno elettrico. Tua sorella occupa… ha un interessante impiego altrove. Sei un arrogante. Il Patriarca esigerebbe la mia testa. Adesso vattene prima che mi penta della mia generosità!» «Vieni, Jaime,» sussurrò Mardien. «Andiamo.» Riluttante Gardius si allontanò. La voce dell’Alto Ricognitore li seguì. «Capite, la nave di Arman è confiscata, assieme al suo carico. Nella presumibile assenza di eredi e riconoscendo il debito di Arman nei confronti del Patriarca, di cui ha rubato lo yacht privato, lo stato avrà diritto incontestabile alla proprietà della nave. Perciò è meglio che trasferiate immediatamente i vostri effetti personali.» Mardien e Gardius si fermarono sulla via, proprio sotto l’Arco di Guchman. «Di nuovo un fallimento,» disse Gardius, aprendo e chiudendo i pugni. «Beffati e allontanati.» Mardien lo tirò per il braccio, incitandolo a camminare, sentendo che fino a quando Gardius si muoveva non avrebbe fatto gesti avventati. «Fallimento! La mia povera sorellina… così fiduciosa e innocente…» «Jaime, non rimuginarci sopra. Non serve a niente. E siamo fortunati ad essere vivi.» Gardius si fermò di colpo sui suoi passi, si volse e guardò l’Arco di Guchman, su verso la suite dell’Alto Ricognitore. «Quello è l’uomo che avrei dovuto uccidere. Se lui e quelli come lui non esistessero, non ci sarebbero quelli come Arman.» «Sciocchezze,» disse Mardien. «Ci sono sempre stati uomini cattivi… e sempre ci saranno. Adesso andiamo, Jaime, caro, prima che ti metta in guai peggiori. Ci compreremo un passaggio per tornare su Fell su una delle navi da carico.» «Non è ancora finita,» borbottò Gardius. «E la prossima volta che me lo troverò di fronte… la prossima volta…» Il Reverendo Patriarca di Maxus e il suo Alto Ricognitore erano entrambi magri come un insetto stecco. In entrambi il naso scendeva a picco da una fronte pallida, e separava le orbite incavate come una lama di osso. Il Patriarca era più alto di una testa, e aveva i capelli grigi. I capelli dell’Alto Ricognitore, neri e lucenti, erano avvolti, arricciati e impastati secondo la moda di Alambar. L’espressione del Patriarca era volubile, sospettosa, caratterizzata da occhi perennemente spalancati. L’Alto Ricognitore ostentava invece uno sguardo sul quale si abbassavano palpebre pesanti. Il Patriarca era più duro e insensibile, l’Alto Ricognitore era più sottile. Per una strana coincidenza quel giorno indossavano entrambi pesanti vesti scarlatte. Il Patriarca passeggiava sul tappeto rosso ciliegia. L’Alto Ricognitore era tranquillamente seduto in una soffice poltrona ricoperta di pelle umana tinta di giallo e di nero. Il Patriarca si sfregava le mani una con l’altra, e le dita si muovevano rapide sui pallidi polsi. «Innocuo oppure no, culto religioso oppure no, significa organizzazione. E non possiamo permettere un’organizzazione tra gli schiavi.» L’Alto Ricognitore fece una smorfia indifferente. «Costituisce un contentino, un oppiaceo. Soddisfa un bisogno.» «Bisogno?» «Certamente. Considera la rapidità con cui questo movimento si è diffuso tra gli schiavi, qui, altrove, ovunque. Se non soddisfacesse un bisogno non avrebbe incontrato un’accettazione tanto rapida.» «Significa organizzazione,» dichiarò il Patriarca ostinatamente.» «Non posso essere d’accordo. È amorfo, non c’è alcuna centralità. È una mera mania, una moda passeggera, un culto popolare. Io dico, lasciamo che ci trovino diletto, lasciamo che esauriscano le loro energie nervose nel rituale. Avremo meno problemi disciplinari e di conseguenza una più alta produttività. Già noto una più estesa docilità, specialmente tra le categorie meno trattabili.» «Bah! Gli schiavi sono docili solo quando c’è corrente nei circuiti penali.» Si abbatté su una sedi e bevve dalla coppa di infuso bollente. «E come fai a sapere quali codici e quali simboli segreti sono presenti in questi rituali?» L’Alto Ricognitore giocherellò con il rubino che gli ciondolava all’orecchio. «Ho spie e informatori che me lo dicono…» «E così,» esclamò il Patriarca trionfante, «provi una preoccupazione che non ammetti! Bada a te, Lesman, non tentare sotterfugi!» «Certo no, Magnificat. Mi limito a dimostrare la mia determinazione a non trascurare alcuna possibile fonte di agitazioni, nessun nodo di irrequietezze anche se minimo.» «Vedi di continuare così.» il Patriarca riprese a passeggiare. «C’è ancora una questione di…» Un servo in una tunica rossa, bianca e grigia entrò nella stanza e tossì timidamente. L’Alto Ricognitore, irritato, disse: «Cosa significa questa intrusione? Non vedi che siamo impegnati in una discussione?» Il servo chinò la testa. «Scusami, Signore, c’è un uomo che insiste per avere udienza immediata.» «Udienza immediata! A quest’ora di mattina? E chi è?» «Il suo nome è Jaime Gardius. Dice di essere appena arrivato dal pianeta Fell, e insiste sull’urgenza della sua questione. L’ho avvertito che eri in riunione, ma mi ha impressionato con l’importanza del suo scopo. È sembrato certo che l’avresti ricevuto.» Il Patriarca disse con petulanza: «Chi è questo Gardius?» «Ricordi Arman?» chiese l’Alto Ricognitore con voce assente. «Non pronunciare quel nome.» «Gardius l’ha ucciso. Un sordido assassinio sulla nave di Arman. È stato rilasciato su dimostrazione di legittima difesa.» «E che cosa vuole adesso?» «Non ne ho idea. È arrivato da Fell, e Fell è il pianeta da cui provengono gli Otro. Sono gli Otro, ti ricorderai, che sembrano avere promulgato questo nuovo culto.» Il Patriarca fece un cenno al servo. «Perquisiscilo bene, che non abbia armi, poi fallo entrare. Raddoppia le guardie alla porta.» Gardius entrò. Rivolse un cenno del capo all’Alto Ricognitore, salutò il Patriarca. Indossava un ricco mantello di tessuto blu, ricamato a viti e foglie. Si muoveva con una sicurezza e una mancanza di rispetto che irritarono l’Alto Ricognitore. «Ebbene, Gardius? Pensavo di averti visto per l’ultima volta.» «Il vostro momento è giunto.» I due uomini in veste scarlatta lo guardarono a bocca aperta. «Cosa intendi dire?» «Ci sono quattrocento milioni di schiavi su questo pianeta. Voi Sommi siete quaranta milioni. Gli schiavi vi circondano, vi premono addosso come l’acqua attorno ai pesci.» Il Patriarca aprì e richiuse la bocca senza emettere alcun suono. L’Alto Ricognitore avanzò lentamente, fino a fissare Gardius negli occhi. Disse: «Non ti presenti certo con una scoperta nuova.» «Che cosa vuole?» gracchiò il Patriarca. «Se è un assassino…» Gardius spostò lo sguardo sul Patriarca, sorrise debolmente. «Voi vivete in un’atmosfera di paura. Non preferireste un mondo felice, senza l’abisso tra padrone e schiavo, senza i circuiti penali, senza la sferza, senza la degradazione di entrambe le parti? Non preferireste un mondo di gente che goda di pari condizioni, e che cooperi al beneficio di tutti?» L’Alto Ricognitore disse: «Non è affatto una questione di preferenza. Questa è la società in cui viviamo. Solo un cataclisma potrebbe cambiarla.» «Allora ci sarà un cataclisma.» L’Alto Ricognitore socchiuse gli occhi. «Ci stai minacciando?» «Sì,» disse Gardius. «Vi sto minacciando.» Ci fu una pausa. «E quando avverrebbe questo cataclisma?» «In questo stesso momento.» Il Patriarca era scivolato verso l’arazzo color senape, e nascondeva una mano dietro la schiena. «Aspetta!» lo fermò Gardius. «Aspettare vi conviene.» La guardia, chiamata dal segnale del Patriarca, entrò. «Portalo fuori,» ansimò gutturalmente il Patriarca. «Uccidilo.» L’Alto Ricognitore alzò una mano. «Aspetta, Magnificat, aspetta. Forse quest’uomo ha qualcosa da dirci.» Gardius sembrò ascoltare qualcosa nell’aria. Girò improvvisamente la testa, disse: «Sì, infatti. Vi informo che circa un milione di Sommi è morto negli ultimi trenta secondi.» «Cosa?» «C’è una finestra vicina che dà sulla via?» L’Alto Ricognitore si voltò, lanciò un’occhiata calcolatrice al Patriarca, che irrigidito lo fissava con occhi scuri e sbarrati nel volto pallido. Con fare deciso, l’Alto Ricognitore disse: «Da questa parte.» Attraversò a lunghi passi rapidi la porta che si apriva su un salone buio dal soffitto a botte, scostò i tendaggi di velluto davanti a un’alta finestra, guardò fuori e verso il basso, e vide una brulicante confusione, un intrico di meccanismi rotti, grumi di corpi morti. Le spalle dell’Alto Ricognitore si curvarono in avanti. Le mani strinsero convulsamente i tendaggi. Con voce rauca, il Patriarca disse: «Che succede? Fammi vedere.» Si avvicinò alla finestra con una spinta, abbassò la testa. «Oh!» «Avremmo preferito una dimostrazione meno sanguinosa,» disse Gardius, «ma questo è uno spettacolo che i Sommi capiscono. Ad Alambar, a Crevecoar, a Beloat, a Murabas, in ogni città di Maxus, ogni veicolo guidato da schiavi che trasportasse Sommi Signori è un rottame contorto e schiacciato. Le vie sono piene di rottami.» L’Alto Ricognitore girò la testa, con occhi fiammeggianti. «Ci saranno punizioni terribili per questo delitto. Scorreranno fiumi di sangue, ci saranno distese di bianche ossa di Orth.» Gardius scosse la testa. «Voi non capite il nostro potere. Vi circondiamo, vi teniamo in pugno come una manciata di acini d’uva. Adesso il pugno ha nerbo, disciplina. Quando viene dato l’ordine di stringere, il pugno si stringe e un altro milione di Sommi muore.» L’Alto Ricognitore si portò le mani ai capelli. Un riflesso condizionato lo fece fermare di scatto prima di scompigliare i riccioli impastati. Riabbassò le mani. Gardius disse: «Dobbiamo raggiungere un accordo, adesso, entro un’ora. Altrimenti, quando sarà passata un’ora, non ci saranno più Sommi Signori su questo pianeta. Il cataclisma di cui parlavate è venuto. Ebbene, cosa dite?» L’Alto Ricognitore guardò il Patriarca. In un sussurro rauco, il Patriarca disse: «È un pazzo.» Gardius rise. «Fate gli indifferenti. Allora ascoltate… ma no, non potete udire.» Inclinò la testa come se stesse udendo un suono molto debole ma molto significativo. Sollevò lo sguardo. «Nella Diga di Glauris è stata aperta una falla. Sul Fondo di Glauris è notte. I Sommi Signori dormono nelle capanne di piacere, nelle grandi locande, sulle chiatte lungo il Petalo Giallo. È la notte del solstizio d’estate, la notte della Convocazione dei Sommi.» Fece una pausa. «Il Mare Pheresan adesso scorre sul Fondo di Glauris, a una profondità di cento piedi, e un altro milione di Sommi è morto, inclusi ventimila dei Lord.» «L’Alto Ricognitore andò alla parete, parlò in un telefono. «Dammi il Rolite Nauton Hotel… svelto… Non risponde? La Stazione di Manutenzione di Glauris… svelto… Sì, sì, adesso ascolta, guarda verso il Fondo. Cosa vedi?… Non strillare!» La voce stessa dell’Alto Ricognitore era uno strillo. «Acqua?» Alla cieca riattaccò il telefono alla parete, si rivolse al Patriarca. «Ci stanno dissanguando a morte, Magnificat… dissanguando completamente… i primi uomini della galassia!» «Bene, qual è la vostra parola?» disse Gardius. «Non abbiamo parole.» «Allora ci saranno altri morti.» Lo fissarono. Sembrava più alto, incombente, il suo volto era autoritario. Essi erano rimpiccioliti, rinsecchiti, deboli come mummie nelle loro vesti scarlatte. «Cos’altro potete fare?» «Possiamo ridurre in macerie questo palazzo e tutta Alambar per un raggio di miglia. E ogni vita sarà distrutta. Tu morirai, Ricognitore, e tu morirai, Patriarca.» «E tu morirai,» osservò l’Alto Ricognitore. Nella sua voce non c’era più rabbia, né arroganza. Adesso stava mercanteggiando, cercando di ottenere un vantaggio, cedevole come un’anguilla. Gardius sorrise. «Morire? Io non ho paura di morire. Migliaia e migliaia di schiavi sono appena morti uccidendo i Sommi. Morire non è nulla, è immateriale. Adesso siamo tutto Otro.» «Vedi, vedi,» piagnucolò il Patriarca. «Sapevo che avremmo dovuto fermarli.» «Cosa vuoi che facciamo?» chiese l’Alto Patriarca. «Il Patriarca deve andare al telefono e ordinare a tutte le guardie in uniforme, alla milizia e ai poliziotti di ritirarsi nelle loro baracche. Devono lasciare tutte le armi alla porta. Il pannello centrale del Controllo Penale deve essere abbandonato. Poi deve richiedere il collegamento per una comunicazione planetaria, e annunciare che su Maxus non ci sono più schiavi né Sommi, che tutti sono uomini liberi, e che verrà formato un governo rappresentativo.» «No!» gemette il Patriarca. Gardius attese in silenzio. L’Alto Ricognitore disse: «Come distruggerete il palazzo?» «Faremo esplodere le centrali elettriche — tutte e tre, Ricognitore — che supportano la stazione fortificata. Viene a mancare la corrente nei gravitoni, la stazione cade: un quarto di milione di tonnellate dall’altezza di dieci miglia. Cadrà come il giorno del giudizio. Alambar sarà un vaso rotto. Il palazzo sarà una scheggia.» Il Patriarca barcollò, si sostenne afferrandosi ai tendaggi di velluto. L’Alto Ricognitore si girò verso di lui, pieno di autorità. «Ha vinto. Il nostro giorno si è concluso. Obbediscigli.» L’ombra di vecchie abitudini lottò sul volto del Patriarca. Si artigliò ai tendaggi di velluto e tentò di mantenere il lungo corpo eretto e minaccioso. «Obbediscigli!» disse aspramente l’Alto Ricognitore. «No,» gridò il Patriarca. «Non posso. Non voglio. È impensabile.» L’Alto Ricognitore estrasse una piccola pistola, bruciò il Patriarca dalla testa ai piedi. L’alto corpo crepitò come uno spaventapasseri in fiamme. «Farò io l’annuncio,» disse l’Alto Ricognitore. Andò al telefono sulla parete. «Non ci sono più schiavi su Maxus…» FINE